Apertura anno della famiglia – Vicariato Galliera

Minerbio. Chiesa parrocchiale

Famiglia, mettiti in gioco…

“Non posso ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni. La nostra relazione, se è sana e autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci arricchiscono. Il legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti” (Fratelli Tutti, 89).

Il segno dei tempi
Dobbiamo partire da quello che è successo, da questo segno dei tempi – nel quale peraltro siamo ancora immersi – della pandemia, per contestualizzare la nostra riflessione sulla famiglia, questo anno che inizia e per capire cosa significa chiederci di mettersi in gioco. Senza la storia, cioè la nostra situazione concreta, diventerebbe un richiamo moralistico e ripetitivo, sempre vero, ma alla fine inefficace. Gesù parla nella storia, risponde alle domande che agitano il cuore degli uomini e ci insegna ad avere compassione, cioè a capire chi abbiamo davanti, a fare nostra la sua condizione, a caricarci delle sue domande. Sono le domande di sempre, ma sono oggi, con i contorni e i toni delle situazioni concrete che stiamo vivendo.

Sono le nostre domande
Non parliamo dall’alto di una condizione diversa, ma dalla consapevolezza di essere tutti sulla stessa barca. Gesù è salito sulla nostra, diventando uomo, per insegnarci ad amare, a pensarci “Fratelli tutti”, per insegnare a servirci l’uno con l’altro. Noi abbiamo le stesse difficoltà di tutti. La pandemia ci aiuta a capire che le nostre domande e quelle del prossimo sono uguali e anche che le sue, quindi, sono come le nostre! Gesù ci aiuta a trovare le risposte perché ci dona la forza dell’amore e questa Madre, che è la Chiesa, che ci ricorda sempre di fare tutto quello che Lui ci dirà.

Solidali nella sofferenza e nella speranza
Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes ci ricorda l’orizzonte del nostro cammino: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore… La comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia». Il nostro atteggiamento è quello di essere intimamente solidali con le domande «degli uomini d’oggi», guardando tutti con una «simpatia immensa» verso tutto ciò che è umano. Non la difesa e il giudizio, ma la simpatia e l’accoglienza. La pandemia diventa motivo per cambiare, per crescere, per migliorare, occasione di amore e non di vittimismo o di rinuncia.

Mettersi in gioco
Ecco per questo possiamo metterci in gioco! È un bellissimo invito! Non è un rischio, un azzardo oppure un esercizio faticoso che ci chiede qualcosa di difficile e esigente. Mettersi in gioco significa avvicinare tanti come Gesù con i due pellegrini di Emmaus, interessato a capire cosa agitava il loro cuore, quali fossero le loro tristezze, l’amarezza evidente che avevano sul loro volto. Il vero rischio è non giocare, come avere il pallone ma non la voglia di entrare in campo, accontentandoci di guardare dagli spalti, magari convinti di capire meglio di chiunque le cose necessarie da fare, le scelte necessarie, ma restando spettatori. Che ci facciamo con quello che abbiamo e che siamo se non lo giochiamo per aiutare gli altri, in una situazione così drammatica, segnata dalla sofferenza e da tanta solitudine, come quella che stiamo vivendo? Il segno dei tempi che è la pandemia chiede di non rimandare, perché ci rendiamo conto dell’urgenza di dare risposte oggi, di farci vicini, di aiutare chi è in difficoltà. Rimandare può fare perdere speranza, compromettere, aumentare le sofferenze.

Tutti possiamo aiutare
Chi può mettersi in gioco? Tutti! Il Signore non chiede a qualcuno delle cose e ad altri meno. Non c’è un Vangelo a due velocità! Gesù chiede tutto a tutti perché ci ama e chiede di essere amato, sapendo benissimo anche le nostre differenze. Sa che ognuno può dare molto e che quello che puoi fare tu, dobbiamo sempre ricordarcelo, lo puoi fare solo tu ed è affidato a te. Quanto cambia se mi fermo o tiro dritto, se vado a visitare oppure resto a casa, se prego per qualcuno oppure “non ho mai tempo” per fermarmi a restare con il Signore, se ripenso alle cose dette dagli altri oppure dimentico e ricordo solo quello che mi riguarda!

Costruire relazioni
Dobbiamo ricostruire tante relazioni con il prossimo, quelle che il virus ha indebolito, in molti casi quasi annullato, impedendole ma anche rivelando che erano deboli, inesistenti, solo “usa e getta” o superficiali. Abbiamo compreso meglio quanto ne abbiamo tutti bisogno. Gesù è il primo che entra in relazione con noi, venendoci incontro, entrando nelle nostre case e soprattutto nel cuore, in maniera personale, mai indistinto, impersonale. È una relazione intima che diventa comunitaria. È proprio da Gesù che capiamo il mistero dell’incontro con il mistero dell’altro, del “prossimo” e come ogni incontro può essere importante e dono di Dio se lo viviamo con amore.

Relazione personale non virtuale
La sfida è aiutare le famiglie in questo momento così difficile, pesante, pieno di cupezza e fatica sia esistenziale sia economica. Molti pesi sono affidati proprio alle famiglie e spesso queste sono sole. Servono, però, non incontri digitali, virtuali, ma concreti, personali, fisici come possibile, per sviluppare relazioni interpersonali autentiche. «C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei deboli. La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» (FT43).

Senza paura e con gentilezza
Non ci spaventiamo di come questo può avvenire! Il problema è comprenderne la necessità nostra e delle famiglie. Papa Francesco, ad esempio, suggerisce un primo modo, concreto e davvero possibile a tutti: la gentilezza. (FT 224). Significa mettere da parte le nostre preoccupazioni e urgenze «per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza». Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. È l’inizio della relazione.

Aiutare nella sofferenza
Mettersi in gioco non vuol dire vincere facile, arrivare subito e nemmeno sapere tutto prima. Ci mettiamo in gioco perché possiamo fare qualcosa per gli altri e perché la pandemia ha generato tante, tantissime sofferenze. E noi non vogliamo stare a guardare, ma abbiamo visto quanto possiamo fare e quanto c’è bisogno. Qualche volta pensiamo troppo alla tattica prima di fare qualcosa, ci piace insomma discutere, preparare, meno vivere ed iniziare. Se ci chiediamo sempre se saremo in grado o rimandiamo per essere sicuri perderemo tante opportunità. La nostra unica risposta è Gesù e il suo amore. Le altre le troveremo assieme e soprattutto le scopriremo camminando con gli altri.

La famiglia si è già messa in gioco
Le famiglie si sono già messe in gioco, perché la pandemia le ha investite di tanti pesi! Spesso nelle difficoltà rimane solo la famiglia, ma anche tanta solitudine. Quanta solitudine! In Emilia Romagna un nucleo familiare su tre è composto da una persona! Quante persone sono come quell’anziano che chiamò i carabinieri la vigilia di Natale perché voleva fare il brindisi con qualcuno (tra parentesi ho saputo che qualche giorno dopo lo ha chiamato Papa Francesco! Ho pensato che ci dona una lezione e ci ricorda di chiamare, essere vicini, ricordarci di quelli che sono soli). Le persone anziane sono state le maggiori vittime della pandemia. Come aiutarle e come aiutarci perché siano protette? «Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia stessa» (FT 19).

La solitudine
La solitudine è sempre pesante e nella pandemia diventa un’oscurità fitta, che nasconde la speranza. Quante preoccupazioni, per il futuro dei figli ma anche per il lavoro che viene a mancare, per l’insicurezza! Quanti pesi sono affidati alle famiglie! Questo non deve chiederci di aiutarci l’uno con l’altro?

L’amarezza di non accompagnare i malati
La malattia ha reso evidenti le difficoltà e spesso accentuato le difficoltà di sempre. Quante persone hanno sperimentato il distacco dai propri cari senza nemmeno avere avuto il tempo di salutare come desiderato? Una videochiamata, piccolo miracolo in una condizione di totale isolamento, è stata decisiva, ma ovviamente è tutt’altra cosa che stare accanto al letto, potere stringere la mano, accompagnare insomma nell’ultimo tratto del cammino, incluso quello fisico del funerale. Quanta amarezza! E dovremmo chiedere che occorre, pur comprendendo l’enorme fatica cui sono sottoposti e lo straordinario servizio di informazione e comunicazione, fare di più per garantire la vicinanza delle persone care nell’isolamento e perché si possa dare l’ultimo saluto a chi sta per lasciarci. Pensando al futuro non dobbiamo accettare che siano ricostruite delle barriere che impediscono la vicinanza, ad iniziare dalla scelta di puntare sulla casa e sui servizi domiciliari. Ma metterci in gioco non significa anche iniziare a non lasciare soli gli anziani?

I giovani
Quante difficoltà nei giovani, costretti a stare a casa, investiti di tante domande alle quali fanno fatica come tutti a dare risposte, disorientati, fragili! Quanta opportunità di una nuova consapevolezza e responsabilità, soprattutto se vedono adulti e vecchi che sanno affrontare con determinazione i problemi. Non è motivo di maturità, della scoperta di una dimensione nuova, meno digitale, più umana, più nella storia?

L’amore che il Signore ci dona
Certo, sono tutti passaggi decisivi che hanno bisogno di incontrare la solidarietà dei fratelli e la presenza del Signore che ci dona la forza per non scappare dal male, per non pensare a “si salvi chi può”, inganno che è sempre così comune di fronte alle pandemie della violenza e della malattia. Possiamo migliorare, insomma trarre, dolorosamente, dalle avversità un bene. Non abbiamo tutti imparato la responsabilità di essere gli uni custodi dell’altro, di evitare il male e quindi fargli del bene? Non abbiamo una consapevolezza di dovere ricostruire, di dare stabilità dove vige il precariato, di dare futuro e un chiaro rapporto diritti-doveri e soprattutto, perché questo è l’annuncio che ci è chiesto, mostrare la bellezza della famiglia, non in maniera teorica, ma molto pratica, aiutandola, essendo noi una famiglia che ha un cuore largo e generoso? E in questo possiamo parlare in modo nuovo di Gesù, della sua consolazione, della sua speranza così umana nella tempesta del mondo.

Le fragilità della famiglia
La pandemia ha rivelato anche tante fragilità nella famiglia stessa. Lo confermano ad esempio i dati del Tribunale di Bologna relativi al primo trimestre 2021, con un aumento di separazioni intorno al 30% e di divorzi intorno al 27%. Sono anche cresciuti gli ordini di protezione per violenza familiare all’interno delle mura domestiche perché la conflittualità sfocia nella violenza contro le donne, come attestano i casi numerosi di procedimenti per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi.

La solidarietà tra noi
La solidarietà tra noi è la prima grande risposta, perché tante divisioni maturano anche nella solitudine e nella debolezza di ideali e di sentimenti. Dobbiamo metterci in gioco per aiutarci e perché il Signore ha tanto da dire alle nostre famiglie. In questo tempo i legami familiari sono stati e sono ancora duramente provati, ma rimangono nello stesso tempo il punto di riferimento più saldo, il sostegno più forte, il presidio insostituibile per la tenuta dell’intera comunità umana e sociale, pur scontrandosi con la dittatura delle emozioni, l’esaltazione del provvisorio che scoraggia gli impegni per tutta la vita, il predominio dell’individualismo, la paura del futuro.

La Chiesa è una famiglia di famiglie
«La Chiesa (FT 276) “ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione” ed è “una famiglia tra le famiglie aperta a testimoniare […] al mondo odierno la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte aperte, perché è madre”» e ci aiuta ad aprire le nostre famiglie perché siano più forti. Non è vero, infatti, che chiudendoci stiamo meglio: è vivendo un interesse più grande che troviamo tanta fortezza! Il vostro cammino aiuterà non solo tutte le parrocchie del vicariato ma sarà importante per tutta la Diocesi.

Il programma di questo anno è mettersi in gioco nell’ascolto, nell’annuncio, nella carità, nell’accoglienza, nella festa.

La relazione e non istruzioni per l’uso
Quello che unisce questi quattro aspetti è la relazione. Davanti a tanta sofferenza non si tratta di fare cadere dall’alto un po’ di buoni consigli, metterli nelle buche delle lettere oppure offrire ennesime istruzioni per l’uso. Dobbiamo essere vicini anzitutto con l’amore, interessati al prossimo, conoscerlo, ad iniziare dall’ascolto. Non è questione di tecnica, ma di interesse, come Gesù si fa raccontare dai due discepoli di Emmaus cosa avevano nel cuore, il perché del loro discutere triste. Solo dopo inizia a parlare e soprattutto lo fa camminando con loro, tanto che ci impiega del tempo a fargli “ardere” il cuore nel petto.

Non perfetti ma amici
Qualche volta pensiamo: ma anche io ho tanti problemi! In parte è vero, anche se abbiamo tanta forza e tanta consolazione proprio dall’essere parte della comunità e sperimentare la condivisione di Gesù. E poi non dimentichiamo che la nostra ferita si rimargina se aiuteremo gli altri e che noi stessi troveremo forza donandola. Il cristiano non parla come un professore che impartisce una lezione o come uno perfetto che ha capito tutto e spiega come fare. Siamo solo dei fratelli ed amici che hanno interesse per le ferite del prossimo, che con rispetto ma anche affetto parlano e camminano insieme e coinvolgono nell’amore per Gesù, la risposta alle tante domande.

Ascoltare anche quello che non viene detto
Dobbiamo ascoltare anche quello che non viene detto apertamente e nemmeno subito. Pure per questo la relazione è decisiva. Perché permette la confidenza, la vicinanza, l’apertura del cuore. Permettiamo di parlare se abbiamo tenerezza, comprensione, sensibilità, se mettiamo a proprio agio, se non siamo invadenti ma nemmeno freddi analisti o distaccati professionisti! Non dimentichiamo che siamo chiamati sempre ad essere prossimo e a mostrare con l’amore l’amore di Dio. I banditi che si sono scatenati con la pandemia hanno rubato tanta speranza, tante certezze e lasciano spesso come mezzi morti. Solo donando tempo, attenzione, invitando nella locanda che è la comunità, potremo aiutare le famiglie.

Allargare la nostra cerchia
Possiamo allargare la nostra cerchia, arrivare a quelli che spontaneamente non sentiamo parte del nostro mondo di interessi, benché siano vicino a noi. «D’altra parte, ogni fratello o sorella sofferente, abbandonato o ignorato dalla mia società è un forestiero esistenziale, anche se è nato nello stesso Paese. Può essere un cittadino con tutte le carte in regola, però lo fanno sentire come uno straniero nella propria terra» (FT 97). Non dovremmo anche fare uno sforzo in più di vicinanza alle famiglie che vengono da altri Paesi o dal nostro Paese ma con le quali parliamo troppo poco?

Gli esiliati occulti
Dobbiamo essere accanto a quelli che Papa Francesco chiama (FT 98) «“esiliati occulti”, cioè coloro che vengono trattati come corpi estranei, cioè le persone con disabilità “sentono di esistere senza appartenere e senza partecipare”. L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro “partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale. È un cammino esigente e anche faticoso, che contribuirà sempre più a formare coscienze capaci di riconoscere ognuno come persona unica e irripetibile”».

Gli anziani e i malati
Ugualmente penso alle persone anziane «che, anche a motivo della disabilità, sono sentite a volte come un peso». Scopriremo un mondo di sofferenza, di pesi insopportabili (penso ad esempio anche a chi ha in casa una persona malata affetta da malattia degenerativa, che spesso si trova da solo e che la pandemia ha accentuato nelle difficoltà. Non dovremmo fare turni per essere vicini e trovare, “inventare” modi per aiutarci? Come non fare mancare la consolazione della preghiera, che lenisce perché fa sentire il balsamo della vicinanza del Signore che non scarta mai nessuno e ci aiuta a dare valore alla vita sempre, anche quando sembra ce ne sia davvero poco). Se qualcuno è solo a doversene fare carico, se intorno c’è solo indifferenza e la condizione di quella persona è accompagnata dalla solitudine, egli stesso finisce per pensare che davvero non ha valore! Al contrario se altri la rivestono di attenzione, di visite, di presenza, di affetto, la famiglia sarà aiutata a portarne l’inevitabile peso. Lo stesso vale per gli anziani nelle strutture. Abbiamo capito l’isolamento e il peso che questo genera. Non possiamo farne luoghi di incontro, di preghiera con gli anziani, sempre con tanta attenzione sanitaria, ma anche con la preoccupazione di superare l’isolamento perché si sentano parte della nostra famiglia e per aiutare le famiglie?

Ascoltare
Per prima cosa dobbiamo ascoltare, non presumere di conoscere già, perché spesso non conosciamo, e farci raccontare è comunque diverso perché fa sentire interesse per la condizione in cui l’altro vive! Solo se ci lasciamo toccare il cuore da questo ci metteremo a cercare le risposte e soprattutto daremo la prima risposta che è starci, essere vicino, mostrare attenzione. Non siamo un registratore e nemmeno un analista. Ascoltare è il primo modo per prendere sul serio, per capire, per renderci conto. Quante volte ci siamo chiesti davanti alla manifestazione di qualche sofferenza: perché non mi ha chiesto aiuto? Perché non ho capito quello che aveva? Ma il problema è suo o nostro? L’isolamento ci ha colto in tanto individualismo. Quanti si interrogano: se succede qualcosa chi starà vicino? Gli infermieri e i medici ci raccontano di quanta fame di raccontare, di confidarsi c’è in chi è isolato. Quante persone non hanno nessuno con cui parlare! Ascoltare vuol dire chiedere, interessarsi, con intelligenza e tanta sensibilità. A volte non ascoltiamo niente perché non chiediamo nulla oppure perché siamo respingenti, giudichiamo subito o l’altro pensa di essere giudicato. E poi ci stupiamo che nessuno ci chiede nulla!

Annunciare
Parliamo di Gesù? Invitiamo a pregare assieme o a partecipare alla Santa Eucarestia, ad esempio per intercedere per qualcuno che è malato o per ricordare chi ci ha lasciato? Gesù non è un racconto fuori dal tempo, ma dentro la storia. Possiamo parlare di Gesù in maniera diretta, personale e anche chiederci come possiamo farlo insieme, con leggerezza, semplicità ma anche tanto coinvolgimento personale. Iniziamo alcuni gruppi famiglie intorno al Vangelo, per pregare, per capire cosa la Parola di Dio ci dice in questa situazione o davanti alle domande vere della vita che sono emerse così prepotenti. Il Vangelo è proprio la risposta alla nostra difficoltà. Possiamo aiutare le famiglie a camminare in maniera rispondente alla loro vocazione e missione, consapevoli della bellezza dei legami e del loro fondamento nell’amore di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo.

Accoglienza
L’accoglienza, cioè il contrario di essere a distanza, significa invitare nei luoghi comuni delle nostre comunità ma anche nelle nostre case, aiutare a fare stare assieme i ragazzi, gli anziani, abitarli con la nostra relazione, cioè amicizia. Accogliere significa non fare pesare, fare sentire attesi, circondare di riguardo, rendere insomma le nostre case e le nostre comunità “casa”.

La carità
È quella che il Signore ci insegna. Lo sappiamo, è proprio il dono più grande, perché è sinonimo di amore. La famiglia si trova nella famiglia di Dio e viceversa. Le famiglie sono poco ecclesiali (perché spesso rinchiuse in se stesse oppure perché la Chiesa è un’esperienza lontana, o poco personale). Cambia quando si stabilisce una relazione diretta! Ma anche le nostre comunità sono poco famigliari. Non si tratta di rivedere la pastorale famigliare, quanto piuttosto di trasformare tutta la pastorale in una prospettiva famigliare. Più la parrocchia diventa essa stessa famiglia a cominciare da un stile familiare, quindi attento, premuroso, fraterno. Una famiglia che vive in essa l’amore di Gesù e una Chiesa che sia sempre più famiglia.

Un’estate diversa
Vorrei tanto che questo anno riuscissimo a compiere uno sforzo davvero straordinario per aiutare le famiglie con i giovani, organizzando tante “estate ragazzi” e campi scuola, incontri, cammini, il più possibile aperti a tutti, specie a quelli che abitualmente non vengono, invitando cioè anche altri ragazzi che non conosciamo. Se potessimo trovare, sempre nei modi consentiti dalla condizione sanitaria, tanti posti dove riunire “gruppi famiglie”, insomma costruire una comunità che sia la famiglia di famiglie dopo un tempo così difficile, di tanta fatica, logoramento, difficoltà. La Caritas sta già programmando risposte per il problema economico, che sarà molto grande e tanta sofferenza provoca nelle famiglie. Anche su questo credo sarà necessario uno sforzo straordinario delle nostre comunità.

La festa
Festa è quella che celebreremo alla fine di questo anno, ma forse dobbiamo dire: è la festa che prepariamo superando l’isolamento, il distanziamento, il pensarci da soli, abbassando le mascherine che nascondono il volto dell’altro e per mostrare il nostro volto amico. Siamo chiamati ad accompagnare, ad ascoltare, a benedire il cammino delle famiglie; non solo a tracciare la direzione, ma a fare il cammino con loro; a entrare nelle case con discrezione e con amore, per dire ai coniugi: la Chiesa è con voi, il Signore vi è vicino, vogliamo aiutarvi a custodire il dono che avete ricevuto.

L’Amoris Laetitia
Non manchi, in questo anno nel quale siamo invitati a riflettere a cinque anni dall’Amoris Laetitia proprio sulla recezione di questo documento così importante, l’accompagnamento delle persone separate o divorziate, ricordando anche la sofferenza dei figli di queste situazioni di sofferenza e i cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali.

I banchi in casa e le sedie di casa in Chiesa
Insomma le nostre sedie di casa possiamo sentirle come fossero dei banchi della Chiesa e viceversa, sentirci a casa in Chiesa. Sempre con tanta collaborazione tra noi, col sorriso, la gentilezza, la gratuità di amare tutti: ecco cosa significa metterci in gioco. Contempleremo Gesù che si fa riconoscere nello spezzare il pane. Quel pane buonissimo, unico dell’Eucarestia diventa anche condivisione e amicizia tra noi e con quella famiglia che Gesù è venuto a generare, rendendoci suoi e chiedendoci di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato. È la nostra risposta alla pandemia.

Mettiamoci in gioco.

11/04/2021
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