conferenza sul tema “il mistero della zizzania”

Bologna, Palazzo del Baraccano

Vorrei proporre di riflettere su una famosa parabola del Signore, che ci è riferita soltanto dal vangelo di Matteo. Dopo la lettura e qualche osservazione generale, la esamineremo su tre livelli interpretativi: cosmico, ecclesiale, antropologico, per concludere con qualche annotazione d’indole pastorale.

A) La parabola di Gesù

Il testo evangelico

“Il Regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: ‘Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?’ Ed egli rispose loro: ‘Un nemico ha fatto questo’. E i servi gli dissero: ‘Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?’ ‘No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla: il grano invece riponetelo nel mio granaio’ ” (Mt 13,24-30).

“Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: ‘Spiegaci la parabola della zizzania nel campo’. Ed egli rispose: ‘Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l’ha seminata e il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del padre loro. Chi ha orecchi intenda!’ ” (Mt 13,36-43).

Osservazioni previe e generali

1° “Da dove viene la zizzania?” (Mt 13,27). Da dove è venuta questa erbaccia maligna e soffocatrice che infesta il campo di Dio?

È una delle domande più serie e decisive, e siamo tutti costretti a formularla quando ci poniamo di fronte al mistero dell’esistenza: o neghiamo l’evidenza del male (ed è un impresa disperata) o ci interroghiamo circa la sua provenienza .

2° Sulle labbra dei contadini della parabola l’interpellanza sembra esprimere non solo stupore, ma anche delusione e quasi una specie di rabbia. Sembra anzi marcata da un accento di velato rimprovero verso il padrone, che in fin dei conti è il primo responsabile della coltivazione: “Non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove dunque viene la zizzania?”.

Dobbiamo dire però che quei contadini almeno una fortuna ce l’hanno, ed è di avere un padrone con cui lamentarsi: è già una consolazione prendersela con qualcuno. A chi ritenesse che il campo non sia di nessuno e ogni accadimento sia in esso del tutto casuale, non sarebbe consentito neppure di protestare o di fare domande, per assenza di destinatari responsabili.

Se non esiste un proprietario del campo con un suo programma operativo, se tutto nell’universo è fortuito, allora, pur avvertendo ancora i morsi del male, non siamo più autorizzati né a lagnarci né a enunciare problemi, perché in quel caso non si dà spazio per nessuna verità e quindi per nessuna ricerca. Dove si prende per buona l’ipotesi del caso, non può sorgere alcuna plausibile investigazione.

Deve essere tremenda la condizione degli atei, e proprio per questo: per il fatto di non poter riconoscere di fronte a sé nessun interlocutore adeguato. Un ateo vero e coerente è in realtà il più sfortunato degli uomini perché, messo di fronte ai guai inevitabili dell’esistenza, si priva perfino della soddisfazione di protestare con qualcuno e di bestemmiare.

Mi torna alla mente ciò che diceva C.S. Lewis (l’autore delle famose Lettere di Berlicche), ricordando il tempo della sua incredulità: “Negavo l’esistenza di Dio ed ero arrabbiato con lui perché non esisteva”.

Personalmente devo confessare che, a essere sincero, io non posso fare a meno di un interlocutore trascendente. Certo, posso parlare anche con gli uomini, quando si tratta di questioni come la politica italiana o l’inflazione o il campionato dl calcio. Ma degli argomenti che davvero contano – come è appunto quello del bene e del male, e dell’enigmatica origine del male – con chi volete che ne possa trattare, se mi manca un Dio con cui entrare in dialogo?

Con chi volete che esamini il problema del senso ultimo della vita? Mica lo posso fare con l’on.Pannella. Con chi volete che affronti il tema del mio destino eterno? Mica ne posso chiedere conto a Vittorio Sgarbi. Per citare solo alcuni tra i “direttori spirituali” più noti del nostro tempo

Di queste cose – e sono le sole che veramente mi interessano – o sono costretto a tacere (censurandone in me irragionevolmente persino il pensiero) o ne devo discutere (e in realtà mi capita di farlo ogni giorno) unicamente con Dio.

A lui posso rivolgermi con le parole di Geremia:

“Tu sei troppo giusto, Signore,

perché io possa discutere con te;

eppure ti voglio rivolgere ugualmente

una parola sulla giustizia” (Ger 12,1).

Anche a me, come a Giobbe è dato di proporgli:

“Io ti interrogherò e tu istruiscimi” (Gb 42,4).

E se mi parrà di aver di fronte, come un muro, il silenzio di Dio, anch’io come il profeta Abacuc vigilerò davanti a questo muro:

“Mi metterò di sentinella…

a spiare, per vedere che cosa mi dirà,

che cosa risponderà ai miei lamenti” (Ab 2,1).

Per la verità, il muro è già stato squarciato dalla divina Rivelazione. Abbiamo già avuto una risposta, e proprio da questa parabola di Gesù: si tratta solo di capirla bene e di lasciarci illuminare dalla sua luce.

3° Se il padrone del campo fosse stato un tipo irenico e postconciliare, si sarebbe rifugiato in una qualche rassicurante congettura naturalistica o accidentale. Alla domanda: “Da dove viene la zizzania?”, avrebbe probabilmente risposto: “Sapete com’è, le erbacce spuntano da sole, ci sono un po’ dappertutto, non bisogna farne un dramma; c’è il vento, ci sono gli uccellini che abbandonano nei solchi ogni sorta di seme imprevisto, è una cosa normale, anzi è un fatto ecologico”.

Invece quel padrone non ha esitazioni nell’assegnare al guaio che gli viene denunciato una causa personale, subdola e malevolente: “Un nemico ha fatto questo” (Mt 13,28), e il narratore della parabola ci conferma che la deduzione del padrone è ineccepibile. Le cose sono davvero andate così: “Mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò” (Mt 13,25).

Questo nemico, che opera nella notte i suoi malefizi e poi scompare, riesce a far perdere così bene le sue tracce, che molti anche tra i servi stipendiati dell’azienda agricola non tengono conto più della sua esistenza. Qualcuno non prende più sul serio nemmeno l’esistenza della zizzania; qualche altro dà l’impressione che non creda più addirittura all’esistenza del campo. Questo nemico riesce a ingannare tutti; tutti, tranne il padrone.

Sarà meglio allora che ricominciamo a fare più attenzione al parere del divino Agricoltore (cfr Gv 15,1), se vogliamo che la nostra indagine sul grano e sulla zizzania non sia vanificata in partenza.

B) Triplice livello interpretativo

Interpretazione “cosmica”

L’interpretazione cosmica è offerta direttamente ed esplicitamente da Cristo stesso quando dice: “Il campo è il mondo” (Mt 13,38).Secondo questa lettura, la parabola evangelica è un invito a riflettere sul male e la sua origine nell’universo.

L’insegnamento di Gesù a questo proposito è estremamente sintetico ma limpidissimo: il nemico che ha frammischiato l’erbaccia alla buona coltivazione di Dio è il diavolo (Mt 13, 39).

Mette conto che abbiamo a richiamare, sia pure in cenni rapidissimi, l’intera concezione della fede cattolica circa il male del mondo (concezione che è implicitamente evocata da questa breve frase del Signore). Essa oggi è così faziosamente e acriticamente contrastata dalla cultura dominante, che càpita di percepire una irritata meraviglia – quando non addirittura di sentir gridare allo scandalo – se il papa o qualche vescovo la ripropone nella sua semplicità e nella sua nativa interezza. Come se fosse impensabile, dopo tutte le aperture e gli irenismi, che ci sia ancora qualche cristiano che si attardi a pensare da cristiano.

Secondo il realismo della Rivelazione, il male – inteso senza ambiguità come colpevole prevaricazione morale – esiste. “Voi che siete cattivi” (Mt 7,11), dice tranquillamente Gesù ai suoi ascoltatori; e così ci ammonisce che non ci si deve fare illusioni di tipo illuministico sulla nativa bontà morale dell’uomo.

Le illusioni, tra l’altro, si sono rivelate storicamente molto pericolose. L’ottimismo naturalistico del secolo XVIII (che si contrapponeva, irridendoli, ai dati della fede) di fatto negli ultimi anni di quel secolo è approdato all’omicidio perpetrato, per così dire, su scala industriale, con indici inauditi di produzione resi possibili dalla geniale invenzione della ghigliottina. Le ideologie che si rifiutavano di credere alla malvagità del cuore dell’uomo, hanno dato vita ripetutamente in questi due secoli a forme esasperate di crudeltà.

L’iniquità umana c’è, ed è largamente diffusa. Così diffusa da costituire un problema: come mai gli uomini più o meno tutti sconfinano nell’ingiustizia? La Rivelazione cristiana risponde con la dottrina del peccato originale.

La verità del peccato originale come ogni mistero è oscura in se stessa, ma è illuminante per noi e per la nostra condizione. Indubbiamente si fatica a capirla nella sua natura e nelle sue cause; ma senza di essa tutto nel mondo e nell’uomo si fa ancora più impenetrabile, a cominciare dal mare di lacrime e di sangue che ricopre la nostra storia.

San Paolo nella lettera ai Romani richiama vigorosamente questo generale deterioramento, instauratosi all’alba dell’umanità, e ne fa la necessaria premessa per comprendere in tutta la sua valenza l’opera redentrice di Cristo: “Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini sicché tutti hanno peccato… Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rm 5,12.18-19).

A dire il vero, il libro della Genesi, raccontando la colpa di Adamo e di Eva come frutto della istigazione perfida del serpente, sembra insinuare che l’inizio assoluto del male nell’universo vada ricercato antecedentemente alla comparsa dell’uomo sulla terra. E il libro della Sapienza – implicitamente citato da san Paolo nella lettera ai Romani – dà una lettura teologica dell’antico racconto indicando nel demonio la prima fonte delle nostre sciagure: “La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,24).

Ci ritroviamo così all’identico insegnamento offertoci da Gesù appunto nella parabola che stiamo tentando di capire: “Il nemico che ha seminato la zizzania è il diavolo” (Mt 13,39).

Come si vede, la nostra meditazione sul male del mondo è stata progressivamente sospinta dalla verità del peccato personale a quella del peccato che dall’alba della vicenda umana universalmente contamina la nostra stirpe; e dalla verità del peccato originale a quella dell’esistenza del demonio, prima e oscura fonte di ogni perversione.

Siamo così invitati a risalire a poco a poco l’enigmaticità delle cose fino a raggiungere la soglia del mondo invisibile che precede la storia dell’uomo; vale a dire la soglia della realtà che sta al di fuori e al di sopra del nostro tempo.

I guai di cui ci sforziamo di renderci conto hanno, come si vede, radici lunghissime e premesse extratemporali. Léon Bloy ha una piccola frase splendente di verità: “Il male di questo mondo è di origine angelica e perciò non può essere espresso in lingua umana” (Le sang du pauvre, Conclusion).

Nella cristianità contemporanea è in atto invece un curioso processo di smarrimento, tanto che si arriva a percorrere in senso contrario la strada sulla quale, come s’è visto, siamo stati guidati dalla fede.

Tra i teologi c’è chi si impegna alacremente in un lavoro cosiddetto di smitizzazione, dopo il quale del demonio non resta neppure la coda. Questi teologi – diversamente da Gesù Cristo – pare che non pensino più a satana come a un essere reale concretamente e personalmente esistente; sembrano piuttosto ridurlo a una sorta di immagine simbolica della intrinseca inclinazione al male che c è nelle creature.

Ma – tolto di mezzo il diavolo – anche il peccato originale non è più plausibile; e infatti in molte odierne presentazioni teologiche esso fatalmente si estenua e si sbiadisce fino a essere la cifra dell’umana finitezza o al più la denominazione collettiva di tutte le colpe individuali. Le quali, a loro volta, tendono a essere considerate non tanto come peccati responsabilmente commessi quanto come turbe psichiche conseguenti a squilibri congeniti o alla violazione di tabù senza fondamento.

Insomma, prima si risolve l’idea del demonio in quella del peccato originale, poi l’idea del peccato originale in quella dei peccati dei singoli, infine l’idea dei peccati dei singoli in quella di un malessere senza colpevolezza. Così l’universo diventa una specie di innocente giardino d’infanzia, senza malvagità e senza malvagi, dove però non si capisce più perché tanto spesso ci si imbatta nella ferocia umana, e soprattutto non si capisce più che senso abbiano la morte, il dolore, la redenzione di Cristo.

Un mondo così sarà anche bello, ma ha l’inconveniente di non esistere affatto.

Verso la miseria umana questa è, a ben guardare, una falsa pietà, che ritiene di liberarci dal male negandolo e aiutandoci a non credere più nel demonio, a vanificare la dottrina della colpa d’origine, a banalizzare l’idea stessa di responsabilità personale.

La vera misericordia – quella di Dio – batte la strada opposta.

Il grande avversario comincia a essere sconfitto non nel momento in cui lo si relega tra le favole ma nel momento in cui lo si prende sul serio, in modo da prendere sul serio la vittoria ottenuta su di lui dalla morte e dalla risurrezione del Figlio di Dio; vittoria che quotidianamente si impianta nella vicenda di ognuno di noi mediante la nostra crescente partecipazione al mistero pasquale.

L’universale decadenza della natura umana può essere superata solo partendo dalla persuasione che Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia (cfr Rm 11,32).

E dal mio peccato personale incomincio con la grazia divina a risorgere non nel momento in cui lo ignoro o lo censuro psicologicamente, ma nel momento in cui, pentendomi, lo riconosco come atto veramente cattivo e veramente mio.

Questo è il senso della proposta evangelica della “metànoia” (della conversione), che Gesù ci ha indicato come necessaria premessa della nostra salvezza. Il Vangelo non è la notizia che siamo già tutti innocenti per incapacità di intendere e di volere o perché i fatti non costituiscono reato; è la notizia che siamo tutti peccatori e, proprio per questo, siamo i fortunati destinatari dell’invincibile misericordia del Padre.

II

Interpretazione ecclesiologica

La parabola può legittimamente essere posta al servizio di una giusta visione ecclesiologica, contro la tentazione di concepire la comunità cristiana come una aggregazione di soli santi, dalla quale perciò sarebbero da ritenere esclusi quanti vivono nella incoerenza e nel peccato.

Come tutte le vere tentazioni, anche questa possiede innegabilmente un suo fascino, e non ci meraviglia che si sia ripetutamente presentata nella cristianità a partire dai primi secoli, e che riaffiori ogni tanto qua e là anche ai nostri giorni. Possiamo anzi dire che non c è appassionato dibattito pastorale in cui presto o tardi, in forma più blanda o più radicale, qualcuno non arrivi a domandarsi se non sia il caso di inseguire con maggior severità l’ideale di una Chiesa composta solo di gente che viva davvero secondo il progetto esistenziale di Cristo; di una Chiesa dunque capace di estromettere dal suo seno coloro che nell’itinerario evangelico non tengono perfettamente il suo passo.

La Chiesa però – pur conservando l’istituto della scomunica secondo le istruzioni ricevute dal suo Signore (cfr Mt 18,15 -18), per i casi più gravi e sempre con intento dichiaratamente medicinale – non ha mai pensato a se stessa come a un’accolta di soli giusti. Anzi, secondo lo spirito del Messia, è sempre stata riluttante a spegnere il lucignolo fumigante e a spezzare del tutto la canna incrinata (cfr Is 42, 3).

“Lasciate che il frumento e la zizzania crescano insieme” (cfr Mt 13,30), dice sorprendentemente il padrone ai servi, che invece avevano già dal canto loro optato per la linea della chiarificazione, cioè della durezza e della scelta immediata.

Quei dipendenti avranno certamente mugugnato tra loro: “Che razza di padrone! Non si rende conto di com’è difficile che in queste condizioni il grano possa crescere bene? Non si accorge che con un campo così – con una Chiesa così – fa una brutta figura anche lui agli occhi di tutti? Non riesce a prevedere le sofferenze che sta per infliggere sia alla graminacea buona sia a quella cattiva con una coabitazione così eterogenea e reciprocamente fastidiosa”?.

Ma il padrone è irremovibile: “Lasciate che crescano insieme”.

Non è difficile supporre le ragioni – tutte di misericordia – che soggiacciono a questa decisione divina,

Di là dall’ immagine, qui si tratta di uomini, che si comportano di volta in volta da figli del Regno e da figli del Maligno (cfr Mt 13,38). E per gli uomini come tali si può sempre evangelicamente sperare, prima che con la morte i giochi si chiudano, nel totale ravvedimento; ravvedimento che va in tutti i modi facilitato, non reso più arduo.

E poi, chi di noi può dire di essere compiutamente coerente con la propria fede? Se l’incoerenza – sia pur grave – estromettesse dalla Chiesa, chi di noi potrebbe presumere del suo buon diritto di farvi parte? E infine, se ci abbandonassimo ad accusarci a vicenda, con criteri che spesso sono opinabili e cangianti, di indegnità ecclesiale – singoli contro singoli, gruppi contro gruppi, movimenti contro movimenti – che cosa resterebbe alla fine del popolo di Dio?

Il Signore vuole appassionatamente che la sua Chiesa viva in forma sempre più estesa e profonda la sua vita di “sposa” e di “corpo” di Cristo, e perciò desidera che non si stanchi di proporre a tutti i suoi membri in modo forte ed efficace il traguardo della perfezione evangelica. Ma sa altresì che essa, finché camminerà sulle strade polverose della storia, sarà sempre una comunione santa di uomini peccatori, e di deboli che cercano senza scoraggiarsi di vivere da figli di Dio, di agire da creature rinnovate, di comportarsi da fratelli in Cristo, pur nella consapevolezza di non riuscirci mai in misura adeguata e soddisfacente.

Il costruttore della celeste Gerusalemme è esigente, e ha disposto fin d’ora che non entrerà in essa nulla di impuro (cf Ap 21,27). Ma solo alla fine dei secoli la discriminazione piena e definitiva sarà fatta: “Come si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,40-43).

A prevenire ogni equivoco, sarà bene ricordare che la tolleranza vicendevole, indispensabile tra cristiani sempre imperfetti e sempre un po’ incoerenti, non significa affatto attenuazione nell’impegno a combattere l’errore né ambiguità nella condanna del male.

La coesistenza del grano e della zizzania nello stesso campo di Dio vuol dire che dobbiamo avere molta pazienza con la concretezza dei casi umani. Lo stile cristiano rifugge dagli attacchi personali, ma questo non significa che dobbiamo rassegnarci a trattare con la stessa benevolenza la luce e le tenebre, né che si debba dare la stessa cittadinanza nella Chiesa, magari con la scusa del dialogo, alla verità rivelata e all’eresia, né che si possa mantenere un’amabile neutralità nella guerra tra le “porte degli inferi” e la Chiesa di Cristo (cfr Mt 16,18).

Chi vuol vivere in pienezza la vita ecclesiale, è chiamato ogni giorno a lottare con lucidità e con energia, senza lasciarsi incantare dai programmi di cedimento e di resa, che di questi tempi sembrano configurare nella cristianità una smobilitazione generale dei credenti, con pochi precedenti nella storia. Ma anche senza mai pretendere che nella compagine ecclesiale restino soltanto coloro che sono perfettamente adeguati ai modelli assoluti di perfezione o, peggio ancora, agli schemi di vita ecclesiale che un singolo o un gruppo ha percepito come vincolanti.

III

Interpretazione antropologica

La lettura antropologica – che si propone di riferire la figura del campo al mondo interiore dell’uomo – è giustificata non tanto dalla narrazione della parabola in se stessa quanto da un’immagine che ripetutamente ritorna nella rivelazione. Essa perciò potrà avvalersi solo di quegli elementi del racconto evangelico che convengono a questa particolare tematica.

Già Isaia aveva parlato di Israele come della vigna amorosamente coltivata dal Signore (cfr Is 5,1ss), la sua piantagione preferita (Is 5,7), che però ha deluso il suo agricoltore producendo uva immangiabile (cfr Is 5,2).

L’esortazione a produrre buoni frutti, che appaghino il Coltivatore, ritorna sulle labbra di Gesù nei discorsi giovannei dell’ultima cena: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto” (Gv 15,8); “io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto” (Gv 15,16).

Di questi frutti, che ciascuno di noi deve maturare per il suo Dio, san Paolo fornisce qualche elenco significativo: “Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,9); “il frutto dello spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

Tutta questa spirituale fecondità è possibile perché è instancabile l’Agricoltore divino che si prende cura di noi.

“Voi siete il campo di Dio” (1 Cor 3,9), è la sintetica e illuminante conclusione di Paolo.

el resto, sempre nel capitolo 13 di Matteo, immediatamente prima della parabola della zizzania, il Signore, spiegando la parabola del seminatore, nel terreno aveva visto rappresentato appunto il cuore dell’uomo (cfr Mt 13,19), dove il seme della parola di Dio può incontrare a seconda dei casi una sorte ben diversa e avere una ben diversa fertilità,

Una volta identificato il “campo” della parabola col nostro mondo interiore, alcuni spunti di riflessione si impongono immediatamente.

In primo luogo nasce in noi un vivissimo sentimento di speranza e di serenità. Noi, come dicevamo, siamo il campo di Dio : il divino Coltivatore è sempre all’opera su di noi, sicché, anche dopo ogni deludente raccolto, possiamo sempre confidare in un avvenire fruttuoso. Non può rimanere del tutto infecondo un terreno che è sottoposto alle cure sapienti e perseveranti del Signore.

In secondo luogo, è chiaro che quanto di buono è prodotto nella nostra esistenza si deve all’eccelsa qualità del seme di cui siamo stati arricchiti: “Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7).

Ma l’approfondimento più prezioso ci è dato dalla scoperta che – quale che sia il grado di santità a cui si è arrivati – nel nostro mondo interiore il cattivo loglio, poco o tanto, si mescola sempre al buon grano. Il demonio, che pure è già stato sostanzialmente sconfitto da Cristo, esercita ancora – e la eserciterà sino alla fine della storia – la sua triste prerogativa di tentatore, e continua a profondere nella nostra anima i suoi germi malvagi.

Il nostro cuore – dobbiamo persuadercene – è dunque perennemente afflitto dalle molte erbacce di male, che mirano a soffocare in noi la coltivazione di Dio.

Se non siamo troppo superficiali o vanesi, facciamo l’esperienza quotidiana della nostra molteplice perversità, ed è una rivelazione che ci incute spavento. In una famosa battuta, amara ma ricca di universale verità, Amleto dice impietosamente di sé: “Io sono più o meno onesto, eppure potrei accusarmi di tali cose, che meglio sarebbe se mia madre non mi avesse messo al mondo. Io sono orgoglioso, vendicativo, ambizioso, posso con un solo tratto evocare più peccati che non abbia pensieri per meditarli, immaginazione per dare loro forma o tempo per compierli. A che giova che esseri come me striscino fra la terra e il cielo?” (Shakespeare, Amleto III,1).

Dopo una introspezione molto simile a questa, san Paolo nella lettera ai Romani conclude con un grido di angoscia: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,24).Ma risponde subito al drammatico interrogativo con una esplosione di riconoscenza per la liberazione che ci è stata donata: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (Rm 7,25).

Chi mantiene acuta la consapevolezza di questo suo stato interiore di propensione al male – che può però essere sempre vittoriosamente contrastato dalla grazia di Dio – vive in un atteggiamento di profonda umiltà; ed è un’umiltà che naturalmente si traduce in un attitudine di dolcezza e di indulgenza verso gli altri: la coscienza dei nostri limiti e dei nostri errori ci fa passare la voglia di farci critici aspri dei limiti e degli errori altrui.

È ovvio che per questa interpretazione antropologica non varrà l’invito a lasciare che la zizzania cresca indisturbata insieme col buon frumento. Al contrario, vedremo come si imponga un lavoro assiduo di ripulitura del nostro campo interiore: ogni giorno riconosceremo che dentro di noi il loglio è ripullulato, e ogni giorno dovremo darci da fare a estirparlo.

Qui si profila per il cristiano l’evidente rilevanza di un robusto e tenace impegno ascetico. Chi si appagasse dell’annuncio inebriante della liberazione e della nuova realtà esistenziale regalataci da Cristo, e non attendesse contestualmente all’opera di purificazione dei propri pensieri, del proprio linguaggio, delle proprie tendenze, delle proprie abitudini di vita, rischia di ingannare se stesso e di illudersi pericolosamente.

Dalla parabola possiamo però raccogliere l’invito ad avere pazienza anche con noi stessi e coi nostri difetti sempre rinascenti.

Il Padrone – che nel racconto esorta i servi alla calma e all’attesa – esorta anche noi a non lasciarci prendere, nei nostri tentativi di combattere le continue rinascenze del male, da una insofferenza che poi potrebbe concludersi con lo sconforto e la resa.

Abbiamo un buon Padrone, che cura il suo campo con amore forte e tranquillo. Noi però siamo chiamati a lavorare con lui, in modo che il terreno risulti il più possibile mondo e ubertoso. Noi – ci dice ancora san Paolo – “siamo collaboratori di Dio” (cfr 1 Cor 3,9); cioè dobbiamo dargli sul serio una mano nell’opera della nostra salvezza e della nostra interiore coltivazione.

C) Osservazioni conclusive

Non ci rimane ormai che indicare alcuni pochi propositi pratici quasi a frutto di questa inconsueta meditazione.

1. Non ci lasceremo incantare né dalle vecchie ideologie né dai “nuovi messaggi”, che si offrono a noi vantandosi di avere i programmi infallibili per eliminare radicalmente il mondo dal male.

Il male ha la sua vera scaturigine dal cuore dell’uomo, e per estirparlo non basterà mai né il cambiamento delle strutture né il facile ottimismo di prospettive puramente naturalistiche.

“Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini – ha detto Gesù – escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza” (Mc 7,21-22).

Ci si può e ci si deve anche adoperare ad avere forme più giuste e più efficienti di aggregazione sociale; ma il reale miglioramento del mondo passa soprattutto attraverso la strada difficile e lunga della conversione dei cuori.

E poiché nei cuori umani il male, come s’è visto, è suscitato in ultima analisi dall’opera di potenze oscure e sovrumane, com’è quella del demonio, i nostri soli mezzi non servono a debellarlo.

“La nostra battaglia infatti – dice san Paolo – non è contro creature di sangue e di carne – <cioè, diciamo noi, non è contro gli squilibri psicosomatici o gli ostacoli di tipo politico-sociale> – ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male” (Ef 6, 12). Perciò noi non possiamo sperare di vincere da soli, ma dobbiamo combattere sempre unitamente al Figlio di Dio, il quale proprio per questo “è apparso, per distruggere le opere del demonio” (1 Gv 3,8).

2. Poiché il Signore accoglie e mantiene nella sua Chiesa anche coloro che a noi sembrano cattivi cristiani, e poiché noi stessi probabilmente non siamo ai suoi occhi cristiani del tutto buoni, dobbiamo vivere la nostra vita ecclesiale senza intolleranze e senza durezze verso i nostri i fratelli nella fede (cfr Gal 6,10)

“Non giudicate per non essere giudicati” (Mt 7,1): è uno dei comandi più chiari e vincolanti del Signore Gesù. “Gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10), è l’esortazione che san Paolo rivolge alle sue comunità, e quindi anche a noi. E san Giacomo ci mette in guardia contro lo zelo amaro e lo spirito di contesa, che talvolta guasta, credendo di realizzarlo, anche un amore sincero per la verità e per la Chiesa (cfr Gc 3,14).

È bello a questo proposito ricordare l’esempio di san Francesco, il quale non ha mai fatto del suo ideale evangelico di vita ragione di rimprovero per chi si comportava in maniera ben diversa da lui né causa di divisione e di accuse all’interno della cristianità. Scrive al riguardo una delle più antiche biografie: “Insisteva perché i fratelli non giudicassero nessuno, e non guardassero con disprezzo quelli che vivono nel lusso e vestono con ricercatezza esagerata e fasto, poiché Dio è Signore nostro e loro, e ha potere di chiamarli a sé e di renderli giusti. Prescriveva anzi che riverissero costoro come fratelli e padroni”.

3. Il terzo proposito riguarda la nostra continua rettificazione interiore, perché il male del mondo si combatte prima di tutto nel cuore.

Lo esprimiamo con le parole di san Paolo ai Colossesi con le quali vorrei concludere questa meditazione: “Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra…Deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri…Rivestitevi, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,5.8-9.12-13).

 

04/05/2000
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