convegno “scienza e conoscenza : verso quale razionalità”

Bologna, oratorio San Filippo Neri

“Avete attaccato la ragione. Questa è cattiva teologia”. E’ la risposta data da Padre Brown – nel primo dei racconti polizieschi di Chesterton – a uno stupefatto Flambeau (ladro di fama internazionale) che si domandava come mai il suo perfetto travestimento clericale e la sua conversazione esemplarmente devota non fossero riusciti a ingannare il piccolo prete: “Avete attaccato la ragione”.

L’abbaglio di Flambeau è ancora molto diffuso. Ed è il primo equivoco da dissipare, se si vuole discutere con qualche risultato di “conoscenza”, di “razionalità”, di “scienza” in un’occasione e in un contesto esplicitamente ecclesiali come è la celebrazione di un Giubileo. Contrariamente a una persuasione che è ancora di molti, i veri credenti sono lontanissimi dal pensare che per un affermazione o un rilancio della fede sia necessario o almeno utile un deprezzamento della ragione.

Nella fede cristiana e quindi anche nella teologia cattolica – che altro non è se non la stessa fede in quanto è accolta, vive, si sviluppa in una intelligenza adulta, matura, e perciò instancabilmente indagatrice e contemplativa – non c’è e non ci può essere disistima o sospetto verso l’uomo che pensa con la sua testa, che si attiene alle leggi intrinseche della logica, che rispetta le corrette metodologie proprie di ogni singola disciplina.

Al contrario. La dimensione teologica del conoscere, non che deprimere l’uomo, ne fonda più solidamente il valore (asserendolo immagine somigliante di Dio): di conseguenza ne esalta anche l’ingenita disponibilità all’attività razionale e la connaturalità verso il “vero”; tutto il “vero”, nella sua veste multiforme e fin nei suoi angoli più remoti.

Nessuna verità che sia effettivamente tale può per se stessa infliggere qualche disagio al credente meritevole di questa qualifica. Nessuna verità che sia effettivamente tale – quale che sia il campo del sapere nel quale essa è emersa o il percorso euristico ed ermeneutico del suo conseguimento – può essere ritenuta incompatibile con il patrimonio della Rivelazione. Anzi, essendo oggettivamente sempre un riflesso del Logos divino, vale a dire della “luce che illumina ogni uomo” (cf Gv 1,9), ogni verità è sempre “santa” e almeno indirettamente salvifica.

E’ il principio illuminante e liberatorio, espresso già nel IV secolo da un autore non identificato, che Erasmo da Rotterdam ha convenzionalmente chiamato “Ambrosiaster”: “Quidquid verum a quocumque dicitur, a Sancto dicitur Spiritu” (In primam ad Cor. XII,123); principio particolarmente caro a san Tommaso d’Aquino che lo cita ben quattro volte in questa forma: “Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est” (I-II, q. 109, a.1, ad 1um; In Johan. c.8, lect. 1; In primam ad Cor. c.12, lect. 1; In secundam ad Tim. c. 3, lect. 3).

Il cristiano non si rallegra affatto di una ragione psicologicamente sfiduciata; allo stesso modo che non approva chi, per le ripetute delusioni patite, arriva a un pessimismo sconsolato a proposito dei suoi simili. Condivide pertanto il giudizio che Platone mette in bocca a Socrate: “Che non ci càpiti il guaio di diventare nemici dei ragionamenti, ëmisologi’ come ci sono i ëmisantropi’, giacché non c’è peggior guaio per l’uomo che prendere in odio il ragionare” (Fedone 39).

Meno ancora il cristiano – e a maggior ragione il teologo – si compiace di una ragione teoreticamente “depressa”, che contesti la nostra radicale capacità di “conoscere le cose come stanno”; o che svigorisca l’idea stessa di “verità” fino a ridurla programmaticamente a semplice “ipotesi” o a fragile e cangiante “opinione”.

Qui – a ben guardare – è in gioco la stessa dignità inalienabile dell’uomo, la quale primariamente consiste appunto nell’autonoma facoltà di ricercare, raggiungere e dire la verità. Ed è implicitamente in gioco lo stesso religioso ossequio che si deve a colui che è la fonte di tutto l’essere, perché – nota san Tommaso – “detrahere perfectioni creaturarum est detrahere perfectioni divinae virtutis” (Summa contra Gentiles III,69).

D’altra parte, alla dignità del Creatore l’uomo attenta anche per la strada contraria di un’autoesaltazione che lo induca a pensarsi lui come l’assoluto e l’incondizionato, non riconoscendo nessuno sopra di sé; o quantomeno che gli suggerisca l’auspicio che Dio stia confinato oltre la zona del nostro concreto esistere e dei nostri interessi.

Il contraccolpo gnoseologico di questa specie di “arroganza metafisica” è di supporre che non ci sia, o non sia attingibile, altra verità che quella attinta dalla ragione con le sole sue forze; o quantomeno di negare ” a priori” la possibilità stessa di una divina Rivelazione, contestando cioè un po’ comicamente a Dio quel diritto a parlare nei modi e nelle forme da lui liberamente scelte, che egli fieramente rivendica per sé.

Questa è una tentazione che, almeno in maniera implicita, s’insinua con qualche facilità negli uomini di pensiero, perché è innegabile il fascino che esercita sull’uomo la prospettiva di possedere l’unica luce di conoscenza, di essere lui il “signore della verità”, di potersi ritenere la “misura di tutte le cose” (come diceva Protagora). E’ il guaio – opposto a quello della ragione “depressa” – della “presunzione intellettuale”, “quae mater est omnis erroris” (per citare ancora una volta san Tommaso d’Aquino).

Depressione e prevaricazione sono rischi diversi e antitetici nei quali può incorrere la ragione naturale. Sono diversi e antitetici, ma ambedue portano a uno stato invalicabile di alienazione, perché ci precludono il senso ultimo della realtà e ogni speranza esistenziale che non sia effimera.

La nostra aspirazione è che tra fede e ragione cessino finalmente i malintesi, e anzi si addivenga a un loro stabile matrimonio; un matrimonio che, se riuscirà a superare le ricorrenti crisi per incompatibilità di carattere tra i nubendi, certamente gratificherà la conoscenza integrale dell’uomo di una nuova fecondità.

La storia culturale e spirituale d’Italia – se ripercorsa senza censure o alterazioni ideologiche – ci può offrire a questo proposito qualche speranza, dal momento che le sue epoche più splendenti sono contrassegnate appunto da quegli auspicati sponsali. E’ stato autorevolmente notato che, se le cattedrali di pietra sono una gloria soprattutto francese, le cattedrali del pensiero sono segnatamente un vanto italiano: Tommaso d’Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Dante Alighieri – ispirati da una forte e limpida fede in Cristo e nel suo Vangelo – hanno innalzato monumenti alla verità, al rigore speculativo, alla bellezza che non temono confronti.

Tornare almeno ad ammirare questi capolavori potrebbe essere un buon ricostituente per il pensiero esangue e un po’ deperito dei nostri tempi.

Mi scuso di avere un po’ abusato della pazienza dei convenuti. In sostanza, la mia intenzione era solo di porgere il saluto cordiale della Chiesa di Bologna e di esprimere il voto sincero di un buon lavoro.

05/09/2000
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