convegno « Un ambiente per l’uomo»

Bologna, istituto Veritatis Splendor

Sono lieto di porgere il mio saluto deferente e cordiale agli organizzatori, ai relatori e a tutti i partecipanti del presente Convegno, che affronta un tema di evidente rilievo e d’indubbia attualità. E’ una problematica alla quale – come credente e come pastore – non mi ritengo estraneo, anche perché quando è in gioco l’uomo la Chiesa si sente sempre interpellata.

“ Un ambiente per l’uomo”: già a partire dal titolo devo dichiarare sùbito la mia sintonia con la prospettiva che qui ci raduna. “Per l’uomo”: il fine ultimo della preoccupazione ecologica non può essere che l’uomo, la sua dignità, il suo giusto comportamento, il suo avvenire.
E’ un principio che talvolta sembra messo in discussione da qualche singolare attitudine intellettualistica che sbocca poi in qualche avventuroso pronunciamento: fino a dar l’impressione di invertire addirittura i termini del dibattito. Ma senza chiamare in causa – e in posizione di preminenza – un essere che sia “dell’universo coscienza e voce” (come dice una preghiera liturgica) è difficile assegnare all’ambiente, preso unicamente per se stesso, un valore plausibile e una significazione che si regga.

Sant’Ambrogio nell’Esamerone, dopo aver esaltato il pregio di ogni singola creatura, arrivato all’uomo eleva il suo tono fino a trovare espressioni dove gli insegnamenti della divina Rivelazione si congiungono e si fondono con i convincimenti umanistici del mondo greco-romano. “E’ finito il sesto giorno – egli scrive – e si è conclusa la creazione del mondo con la formazione di quel capolavoro che è l’uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell’universo e la suprema bellezza dell’intera creazione” (Exameron IX,10, 75: “Completus est dies sextus et mundani opera summa conclusa est, perfecto videlicet homine, in quo principatus est animantium universarum et summa quaedam universitatis et omnis mundanae gratiae creaturae”).

In queste parole sembra di percepire accanto all’eco della narrazione genesiaca quella del celebre coro dell’Antigone di Sofocle:
“Molte sono le cose mirabili al mondo,
ma l’uomo le supera tutte” (Primo stasimo).
Per la verità, anche a una mera descrizione fenomenica l’uomo s’impone come il solo tra i viventi che è in grado di oggettivare l’ambiente e, pur ritenendosene parte, di percepirlo anche come problema da fronteggiare.

Con la sua intelligenza egli sovrasta ogni realtà diversa da sé e la piega al servizio delle sue esigenze. E anzi di ogni cosa sa cogliere l’eventuale bellezza, assaporandone quindi un godimento che eccede ogni guadagno puramente utilitaristico.
Ma proprio in tale superiorità e in tale dominio si annidano anche i guai, perché da questa innegabile supremazia deriva la triste capacità di farsi causa di deterioramento e di distruzione. Ed è così che si configura il “problema ecologico”.

E’ un problema che in qualche misura e in diversa modalità c’è sempre stato, ma solo con l’accelerato progresso della scienza e della tecnica ha assunto forme e dimensioni drammatiche.
Per la sua corretta impostazione c’è un asserto che vorremmo fosse riconosciuto come preliminare; ed è che non tutto ciò che è scientificamente e tecnicamente possibile è per ciò stesso consentito ed eticamente praticabile. Né la scienza né la tecnica possono avere l’ultima parola su ciò che si può o non si può fare. Le regole di comportamento devono essere date da considerazioni molto più alte e complesse che non la sola praticabilità di esecuzione materiale.

Certo, la ricerca di un’adeguata razionalità nella gestione delle risorse non può non basarsi in partenza sui dati offerti da una seria e gratuita osservazione scientifica, cui va assegnata, in sede conoscitiva, la più ampia facoltà di indagine. Ma in sede attuativa il governo dell’ambiente, prima e più che un problema scientifico, si presenta come un problema morale.

Nella scelta delle strade da percorrere occorre, per esempio, lasciarsi guidare dal principio di solidarietà più che dai particolari vantaggi economici; dal primato della persona umana (di tutte le persone umane, quale che sia la loro appartenenza etnica e culturale) sulle preoccupazioni di efficienza e di funzionalità; da argomentazioni certe, fondate, valutate serenamente in tutte le conseguenze, che non lascino il campo libero all’emotività e ai luoghi comuni ingiustificati e spesso forvianti.

In particolare, non vanno mai dimenticate o minimizzate le ineludibili responsabilità – ai vari livelli: individuale, sociale, internazionale – che gli uomini di oggi hanno nei confronti delle generazioni future, le quali avranno fatalmente quel tipo di ambiente che noi oggi stiamo loro preparando.

Si ha però l’impressione che le motivazioni di carattere squisitamente etico non facciano molta breccia nei cuori di chi in quest’area è chiamato a decidere e a operare. “Perché dovremmo darci pensiero dei posteri? I posteri che cosa hanno fatto per noi?”: viene il sospetto che questa battuta spiritosa e cinica si nasconda, inespressa, in qualche angolo di molte coscienze.

Forse è necessario che a proposito di questo difficile nodo della convivenza umana si giunga a oltrepassare un’eticità, per così dire, neutrale e laica, e si recuperi una visione francamente religiosa.
Cercherò di spiegarmi. Il grande sviluppo della scienza e della tecnica, che consente gli attentati più traumatici all’ambiente e le alterazioni più radicali dei nativi ritmi di vita della natura, si è di fatto accompagnato al diffondersi di una cultura che, anche quando non negava l’esistenza di Dio, ha imposto nei confronti delle ricchezze della terra un atteggiamento mentale psicologicamente ateistico o almeno deistico. Così si è andato delineando il disastro ecologico.

Per chi suppone, anche inconsciamente, che Dio non c’è o, se c’è, è un creatore disinteressato e distratto, l’universo è senza padroni e senza custodi trascendenti; ed è allora percepito quasi d’istinto come un grande magazzino di beni fruibili, che dall’assenza o dalla latitanza del proprietario è esposto indiscriminatamente a tutti i saccheggi.
E’ un caso particolare di applicazione del principio generale enunciato da qualche inquietante personaggio di Dostoevskij (principio che nessuno finora è mai riuscito a confutare in maniera razionalmente persuasiva): “Se Dio non esiste, tutto è lecito”. Tutto è lecito e, aggiungo io, niente è più regolabile.
E così, anche in questa occasione, non mi sono dimenticato dei miei compito primari e ho tirato l’acqua al mio mulino.

21/11/2003
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