dedicazione della Cattedrale di San Pietro

Bologna, cattedrale

Oggetto della nostra affettuosa attenzione nella odierna liturgia è questo tempio, che non ci stanchiamo di ammirare nella sua veste rinnovata.
“Cattedrale” è parola che subito fa pensare a un’aula dove un maestro spezza dalla sua cattedra il pane della verità. Qui il maestro è il vescovo, e la cattedra che qui è collocata fa di questa chiesa la sorgente di tutta l’evangelizzazione e di tutta la catechesi diocesana.
Il comandamento che Gesù ha dato agli apostoli – e urge in tutti i loro successori fino ai nostri giorni – è quello di rendere tutti gli uomini alunni docili della sua parola di vita.

Questa parola è liberatrice da ogni falsità, da ogni oppressione, da ogni insidia mortale. Questa parola è la vera lucerna che illumina l’universo; fa piovere lo splendore delle realtà invisibili ed eterne sulle realtà visibili e periture, e rischiara i passi di ogni uomo, pellegrino sulle vie del ritorno al Padre. Questa parola ci rivela tutto il disegno di imprevedibile amore che Dio volle attuare a nostro favore, sicché l’uomo nel suo vivere e nel suo operare non è più un enigma a se stesso, il soffrire non è più un’esperienza insopportabile e assurda, e perfino la morte diviene una grande speranza.

Gravato del servizio primario e tremendo della parola di Dio, il vescovo deve cercare di farla giungere a tutti gli orecchi e a tutti i cuori, sempre attento a non mortificarne in nessuno modo la sovrumana potenza e a svilupparne tutta l’interiore vitalità. A tale compito egli associa i presbiteri, i diaconi, i ministri istituiti e ogni battezzato che si rende disponibile a entrare in questa impresa.
A tutti noi il nostro unico vero Maestro rivolge un ammonimento, attraverso un’immagine presa dal mondo dei contadini del suo tempo e dalle loro abitudini casalinghe: “Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”. (Mt 5,15)

Stiamo dunque in guardia, perché la luce del Verbo di Dio non venga schermata o soffocata sotto qualche moggio.
Non sotto il moggio di una condotta incoerente e contraddittoria: guai – ci dice san Paolo – a quelli che tengono la verità prigioniera nell’ingiustizia dei loro comportamenti (cf. Rm 1,18), perché essa esige di risplendere nelle opere prima che nelle parole.

Non sotto il moggio di una interpretazione personale e arbitraria: il vescovo e tutti i compartecipi della sua missione sono trasmettitori e non autori, servi e non padroni del messaggio che annunciano. “La parola che vi dico non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (cf Gv 14,24), dice il nostro Salvatore e Maestro. A più forte ragione noi “se dicessimo cose nostre, saremmo pastori che pascono se stessi e non il gregge; se invece diciamo cose che vengono da Dio, egli stesso pasce servendosi di chiunque”” (S. Agostino, Discorso 46, 1-2).

Non sotto il moggio di conformisti in voga o di intimidazioni da parte della cultura dominante. La verità è spesso scomoda agli uomini, e perciò càpita anche oggi, come ai tempi di Isaia, che essi dicano ai messaggeri di Dio: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni” (Is 30,10).

La lucerna – dice il Signore Gesù – non solo non va nascosta, ma va posta “sopra il lucerniere”; cioè – commenta san Massimo il Confessore – “sulla santa Chiesa, perché mostri a tutti lo splendore delle verità divine” (PG 90,670).

Sulla santa Chiesa: ciò che viene insegnato da questa cattedra non deve esprimere opinioni personali, ma ciò che crede e pensa la comunione dei vescovi col Successore di Pietro. Proprio da questa comunione la parola che qui risuona desume la sua certezza e la sua forza impegnativa.

Possiamo trovare egregiamente riassunta la funzione della cattedrale – come scuola della verità rivelata, che deve risonare poi fedelmente per tutta la diocesi in ogni chiesa e su ogni labbro di sacerdote, di diacono e di catechista – nell’esortazione appassionata di sant’Ignazio di Antiochia: “Vi scongiuro, non io ma l’amore di Gesù Cristo: nutritevi solo della sana dottrina cristiana e tenetevi lontani da ogni erba estranea, qual è l’eresia. Ciò avverrà, se non vi lascerete guidare dall’orgoglio e non vi separerete da Gesù Cristo e dal vescovo e dai comandi degli apostoli” (Ai Tralliani VI,1; VII).

Si potrebbe pensare che l’insegnamento che da qui si diparte, riguardando primariamente il Regno di Dio e la sua giustizia, sia remoto dall’uomo concreto, dalle sue ansie, dai suoi più assillanti problemi. Il contrario è vero.

Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che il cristianesimo è una proposta di verità e di vita che “risana ed eleva la dignità della persona, consolida la compagine dell’umana società, e immette nel lavoro quotidiano degli uomini un più profondo significato”; e così può “contribuire molto a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia” (Gaudium et spes 40).

Passa sul mondo un’ora che pare contrassegnata da un secolarismo praticamente ateo; e si ha l’impressione che tutto si inaridisca. Strappando ogni legame coi valori trascendenti dai fondamenti della convivenza umana, esso li rende più incerti e più deboli. E difatti proprio l’insicurezza e l’ansia caratterizzano la vita morale e intellettuale di questi ultimi anni del secondo millennio.

Il monito che la cattedrale, sorgente di evangelizzazione e di catechesi, rivolge a tutti i credenti, e particolarmente ai giovani, è di non accontentarsi di una fede stanca e passiva, ma di prepararsi a dare con le ragioni e con i fatti una testimonianza persuasiva alla splendida speranza che portiamo nel cuore.

22/10/1998
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