Festa del Battesimo del Signore e candidatura di 7 uomini a Diaconi permanenti

«Consolate, consolate il mio popolo». È un invito rivolto a noi. La Parola ci dona sempre la forza, le parole, i gesti per farlo. Consolate, perché c’è un’enorme sofferenza nel cuore e nelle relazioni delle persone, da riconoscere e da consolare. L’indifferenza non vede nulla: ha sempre gli occhi chiusi e non si accorge, e se si accorge si gira dall’altra parte, pensa che non è affare suo, a volte addirittura giudica chi soffre come se avesse una colpa, cercando una loro responsabilità per giustificare il non fermarsi. I poveri si amano perché poveri, non perché buoni! Quante lacrime che, se le vediamo, ci fanno piangere, davanti alle quali serve solo piangere, rimanere in silenzio, non azzardarsi a dire banalità, vergognarsi per tanto insopportabile e ingiusto dolore, scegliere di cambiare, di prenderle sul serio, e stare vicino, aiutare, insomma, consolare! Consolare non vuol dire cavarsela con poco ma restituire quello che il male toglie e che fa disperare, che fa sentire tutto senza valore, senza gusto, come quando si precipita nella depressione e non si ha da soli la forza di venirne fuori. Consolare non richiede grandi scelte, quelle che immaginiamo tanto difficili così da diventare impossibili oppure talmente esigenti che non troviamo sufficiente motivazione per farle. Consolate, perché ci fa piangere un mondo così con le lacrime di un bambino che ha paura e sente il mondo come una minaccia che non capisce, di una bambina che resta ore da sola naufraga in mezzo al mare dopo avere perduto i suoi cari, di una mamma che non vedrà suo figlio. Sono, insomma, le moderne vicissitudini del libro Cuore, le cui pagine sono scritte oggi dalle cronache dei giornali, ma che non trovano il coinvolgimento affettivo necessario, anzi, i contemporanei di Mario, e la sua Giulietta, vengono criminalizzati!

Non si consola con parole vuote, di circostanza o di banale opportunismo, che possono far sentire a posto o credere di avere fatto quanto necessario per averle dette o scritte, magari con WhatsApp, ma che in realtà non aiutano affatto, anzi, a volte risultano abrasive facendo sentire non capiti, trattati con paternalismo o con superficialità, tanto che chi è nel dolore finisce per pensare di non valere niente o di essere solo un peso. L’amabilità e la benevolenza sono il primo modo per consolare. Mi permetto di insistere su questi atteggiamenti possibili a tutti e che cambiano con efficacia le nostre relazioni, che permettono una comunicazione altrimenti impossibile e negata. Amabilità significa smantellare le difese, le antipatie, gli atteggiamenti che ci rendono impenetrabili, aggressivi, difensivi, tanto da respingere il prossimo o sconsigliarlo di rivolgersi a noi. Scegliamo di liberarci dalla trave e anche dal cercare la pagliuzza che non ci fa amare o condiziona il nostro amore. Qualcuno reputa che l’amabilità significhi adeguarsi all’altro, rinunciare alla verità come se questa fosse necessariamente contundente. Gesù è attento, pieno di sensibilità, anzi si indegna quando i suoi discepoli sono arroganti verso i piccoli o cercano di zittire un povero cieco che grida. La sua accoglienza verso chi soffre non è mai condizionata ad un riconoscimento previo che permetta di essere accettata. Il suo amore non è retributivo ed è donato perché la verità è l’amore stesso, e chi conosce la Sua misericordia conosce Lui e trova la fede.

Consolate, allora, consoliamo con l’unica consolazione che può asciugare le lacrime, che è la speranza di Gesù, del quale facciamo conoscere la concretezza della Sua presenza, della Sua parola che diventa amore attraverso il nostro amore. La consolazione vera non è far dimenticare – come si fa? Sarebbe giusto? Crediamo si possa dimenticare o far finta di niente? – ma aiutare a vedere la speranza e a far sentire oggi quello che sarà domani. Consoliamo, perché Gesù, nostra speranza, ha pianto con noi e per noi, ha asciugato le lacrime facendole Sue e chiamando dalla morte alla vita. Le speranze offerte con facilità dal mondo scompaiono davanti alla cattiveria del male che rivela chi è pastore e chi invece è quel mercenario che appena vede il lupo scappa e lascia terribilmente soli. La speranza cristiana piange sotto la croce ma è asciugata la mattina di Pasqua. Non c’è speranza cristiana senza la croce, perché è proprio vero che «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Non c’è croce che non veda la resurrezione! Chi ama, e quindi è amabile e benevolente, diventa lui stesso seme di speranza per il prossimo.

Servire gli altri fa capire agli altri cosa serve la nostra vita. Perché possiamo collezionare interpretazioni della nostra vita, istruzioni per l’uso per trovare il nostro io e la sicurezza di non essere delusi, ma capiamo chi siamo solo quando sappiamo specchiarci nell’altro e troviamo la nostra vera immagine non come Narciso ma come Gesù che ama, che si pensa per e con l’amato, pienamente, senza diaframmi e difese. E quando ci specchiamo in Gesù ci liberiamo dalle nostre maschere e impariamo a farlo anche con il prossimo. Gesù è il miglior specchio per capire chi siamo, incluso quel buio che ci rende brutti e che nascondiamo, o al quale ci siamo abituati, che Gesù ci fa riconoscere senza mai condannarci, anzi aiutandoci a recuperare la bellezza che abbiamo! Spesso pensiamo: “Io non posso consolare, ho io molti problemi!”. Se cerchiamo speranze che non fanno pensare, legare, appassionare, piangere con il prossimo, ma che ci risolvano subito e con facilità i problemi, senza sforzo e sempre rassicurandoci che va tutto bene, e se ci fermiamo alle prime difficoltà pensando alla nostra convenienza, non capiamo il Vangelo. Solo se dividi il pane con l’affamato e introduci in casa i miseri, se vesti uno che vedi nudo, allora, “la tua ferita si rimarginerà presto “(Is 58,8). Il “salva te stesso” non è speranza, ma solo un grande inganno.

La speranza genera vita, e trova se stessa proprio nella vita che va oltre e la rende piena. Anche lo strappo della morte, il parto doloroso di questa, che tanta sofferenza provoca in chi parte e in che resta, diventa il passaggio ad una vita nuova, che non finisce. Il prezzo della speranza è preparare nel deserto la via anche quando sembra inutile o non la si trova immediatamente. C’è! Inizia! Il terreno accidentato si può trasformare in piano ma occorre credere che sarà bellissimo, che vi potranno pascolare dolcemente le pecore madri e vi troveranno protezione gli agnellini.  Se togliamo tanti ostacoli nelle relazioni tra noi, e tra noi e i poveri, se ci liberiamo dai pregiudizi, dalle abitudini che addormentano, se capiamo il peso delle parole non dette come delle conseguenze di quelle dette senz’amore, se contrastiamo gli odi con il perdono e la riconciliazione, si rivelerà per tanti la gloria del Signore. Anche per questo non possiamo accettare che la violenza sia giustificata, tollerata, diventi abitudine. Ci preoccupa l’uso diffuso del coltello, compagnia frequente in troppe tasche e in tante mani, spesso di giovani. Condanniamo l’inaccettabile e mai estinto seme dell’antisemitismo e condanniamo con fermezza la violenza contro le Forze dell’Ordine. Ci auguriamo, che straziati dal dolore per tutte le vittime, per i bambini e ogni innocente che muore, tutti si impegnino a porre fine al conflitto, disarmino il cuore dall’odio e dalla violenza e il dialogo prenda il posto della guerra.

Oggi finisce il tempo del Natale, dell’Epifania di Dio. La Sua luce ci è affidata e la portiamo noi nel cuore: teniamola in alto e facciamola vedere con il nostro amore! Si deve vedere la nostra Epifania, cioè mostriamo cosa significa essere cristiani, battezzati e unti dal quel Gesù che ci rende suoi fratelli, che ci dona una Madre e ci genera a suoi figli affidandoci il suo potere. Oggi alcuni fratelli, accompagnati dalle loro famiglie e dalle loro comunità, famiglia di Dio ma non meno famiglia, saranno ammessi tra i candidati al sacramento dell’ordine nel grado del diaconato. Si preparano per il servizio alla comunità. Il cristiano, il battezzato non vive per se stesso e non vive da solo ma in una comunità, che tutti serviamo e che ci aiuta a servire la folla, sino ai confini della terra. Ogni cristiano è chiamato, come oggi i nostri candidati. È il miglior posto per candidarsi e al quale essere ammessi: il servizio! Gesù si assume il desiderio di cambiamento di tutta quella gente che in Giovanni cercava una risposta. Siamo pellegrini di speranza per aiutare a rispondere alla richiesta di speranza che è in ogni persona, spesso sepolta sotto tanta rassegnazione e fatalismo. Mentre stava in preghiera il cielo si aprì e discese sopra di Lui lo Spirito Santo, e venne una voce dal cielo. La preghiera apre il cielo e rende vicina e umana la vita di Dio. La preghiera apre il cielo e ce lo fa sentire dentro di noi e scoprirlo tra di noi. Gesù è l’amato e noi amati con Lui. Non abbiamo paura!  La testimonianza di questi nostri fratelli ci aiuti, ciascuno con la sua vocazione, a metterci tutti a servizio della comunità, nella quale nessuno è sfaccendato e tutti possiamo aiutare a renderla bella e piena di amore, casa dei chiamati. Tutti possiamo rendere le nostre comunità Epifania della presenza di Dio, e aiutare i pellegrini a trovare oggi la speranza per raggiungere quella del cielo che in Gesù è venuta a manifestarsi sulla terra.

Cattedrale di San Pietro, Bologna
12/01/2025
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