Festa della Dedicazione della Cattedrale di Imola

Il Giubileo è sempre una grazia, un’opportunità per smettere le abitudini che ci comandano. Il Giubileo ci ha aiutato a fermarci – come faremmo noi, così compulsivi, a stare ai piedi di Gesù per scoprire chi siamo e chi è il prossimo? – e a riscoprire questa casa piena di Dio.

La nostra vita ha bisogno di concretezza, perché la vita non è virtuale, e sappiamo in realtà la differenza tra il remoto e la presenza. È importante perché contiene la cattedra del Vescovo, colui che presiede nella comunione la comunione. È la casa dove contempliamo tutte le nostre comunità. Siamo noi le pietre vive e qui sentiamo la presenza dei nostri fratelli e sorelle che sono avanti a noi nella strada verso il cielo, la nostra vera casa.

Quanta storia! Quante persone ha visto questa casa nei suoi settecentocinquanta anni! E anche quanti cambiamenti, fisici e spirituali. La storia ci aiuta a comprendere la complessità del nostro cammino e anche a relativizzare alcune enfasi nelle quali la cronaca ci coinvolge e irretisce.

Sempre, “tutti i giorni”, Gesù è stato con loro e con noi, ha svelato quel mistero di amore che si lascia raggiungere eppure è sempre innanzi a noi perché vuole portarci tutti fino alla nostra vera casa, la cattedrale del cielo, dove saremo tutti davanti alla cattedra del vero pastore, al suo trono di Re di amore infinito, insieme al popolo di ogni razza, tribù e nazione che parlerà per sempre la lingua di Dio.

È davvero importante comprendere la storia: ci libera dalla cronaca e dall’enfasi del presente, dalla polarizzazione dei nostri sentimenti, ci aiuta a capire che non siamo un caso ma frutto di tanto amore. Il cielo si osserva partendo da un punto concreto e guardare il cielo ci rende universali sulla terra, pieni di un amore senza confini, senza calcoli, senza misura, perché l’amore vero non ha limiti, li supera tutti.

Ringraziamo Dio di questa storia sua e nostra, lunga, di santità, di amore donato gratuitamente, e non per merito, alla nostra debole umanità, segnata com’è dal peccato. Il fariseo non si pensa peccatore. Si sente giusto. Il suo occhio ipocrita e infastidito è pieno di confronti ma vuoto di amore: condanna e si crede salvato. Anche Dio vede, ma scruta il cuore, non le apparenze. Egli, come abbiamo ascoltato dal Libro del Siracide, non fa preferenze di persone.

Noi amiamo le preferenze, ci fanno credere forti, diversi, importanti! Io non sono come lui! Io sono meglio! Curiamo i nostri pregiudizi perché ci fanno credere di conoscere qualcuno per la sua conformazione, per la sua pelle o per l’apparenza che troviamo abbondante in internet.

Quante preferenze dettate dalla convenienza economica, sociale o fisica, per cui scegliamo chi pensiamo ci possa dare qualcosa o quelli che reputiamo importanti. Di loro ci informiamo e sappiamo tutto, mentre di altri non conosciamo e non ci interessa nulla. Di qualcuno che si esibisce, spesso con storie superficiali e non vere, sappiamo e ricordiamo tutto, mentre di tante persone che pure vediamo tutti i giorni non sappiamo dire nulla. Trascuriamo “la supplica dell’orfano e le lacrime della vedova”.

Qui non ci sono preferenze. Il fariseo non sa vedere nel pubblicano altro che il male, la pagliuzza. Si pensa a posto per alcune cose che fa e che gli sembrano sufficienti. Dio è amore e cerca quello! Il pubblicano chiede a Dio di avere pietà. Il fariseo non gli chiede nulla. Il pubblicano si guarda dentro. Il fariseo ha paura di farlo, guarda fuori e cura l’apparenza. Uno si umilia. L’altro si esalta. Uno cerca pietà, l’altro solo il riconoscimento e la ricompensa. “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

L’altro sa dire: “Dio guarda quanto sono bravo”. Il pubblicano non accusa altri, non se la prende con situazioni che lo hanno indotto a diventare così: chiede pietà. In questa preghiera c’è qualcosa di drammatico, come un pianto a dirotto, una disperata richiesta di aiuto, l’amara consapevolezza di qualcosa di irreparabile oppure di tanta incertezza che ci fa sentire perduti. Adesso sappiamo che proprio questa nostra richiesta, della quale a volte ci vergogniamo, sarà accolta!

Ecco, questa è la casa della misericordia. Lo avete sperimentato, con abbondanza. La cattedrale è la casa di ciascuno e dell’intera comunità, perché qui contempliamo, anche quando è vuota, tutta la Chiesa di Imola. Tutti, Vescovo e comunità, siamo insieme intorno a Gesù.

Quando ci dimentichiamo del padre restiamo soli, si diventa facilmente una monade, senza fratelli. Cassiano era un educatore. Il maestro, lo sappiamo, è solo Gesù e se ci lasciamo noi educare da Lui, addomesticare avrebbe scritto qualcuno, saremo noi in grado di aiutare gli altri a trovare se stessi e a trasmettere la vita che protegge la vita, la verità che ne svela il senso e aiuta a trovare il proprio io, la via in cui possiamo camminare e che ci porta dove siamo diretti, quella che si apre davanti a noi. Il vero educatore vive quello che trasmette. L’educatore semina amore anzitutto con la sua vita: il cristiano non fa lezioni per poi avere la vita da un’altra parte.

Abbiamo bisogno gli uni degli altri e gli altri hanno bisogno di te, e non è affatto uguale se viviamo come viene o se ci doniamo al prossimo. Questa casa ci affida il suo dono più prezioso, la comunione ecclesiale, che ci associa fin da adesso a quel mistero di amore che vivremo pienamente in quell’unica casa con molte dimore. La comunione è qualcosa di “divinamente efficace”, diceva Papa Benedetto. È affidata alla responsabilità di ciascuno. Essa è come la carne della Chiesa che, se è raggiunta dalla linfa creatrice dello Spirito di Dio, trasforma l’umanità con il suo soffio di amore.

Amiamo e difendiamo sempre e sopra tutto la nostra comunione. Sia questa l’unica ragione da difendere, anche a costo di metterne da parte qualcuna se ci divide. Affiniamoci nel gusto della vita comune, nella premura concreta verso il fratello, dimostrando che non possiamo fare a meno di lui, preoccupandoci del suo ruolo e non del nostro.

Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3). Ogni santo è una missione, è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo. Essere poveri nel cuore, questo è santità. Reagire con umile mitezza, questo è santità. Saper piangere con gli altri, questo è santità.

Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità. Guardare e agire con misericordia, questo è santità. Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità. Seminare pace intorno a noi, questo è santità. Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità. Ricordiamoci sempre quello che doveva Santa Teresa di Calcutta: «Sì, ho molte debolezze umane, molte miserie umane. […]

Ma Lui si abbassa e si serve di noi, di te e di me, per essere suo amore e sua compassione nel mondo, nonostante i nostri peccati, nonostante le nostre miserie e difetti. Lui dipende da noi per amare il mondo e dimostrargli quanto lo ama. Se ci occupiamo troppo di noi stessi, non ci resterà tempo per gli altri». Facciamolo, sempre con tanta letizia, non da soli ma sempre nella comunione. Quella che questa casa esprime, ma che ci accompagna in tutte le nostre comunità, piccole e grandi e nelle nostre case. In un mondo come il nostro, pieno di persone sole e soprattutto isolate, nascoste nell’intimo tanto da non trovare relazione con il prossimo e con se stesse, ringraziamo di questa casa, la amiamo e diciamo ancora al Signore: grazie. Farò di tutto per renderla bella e perché un pezzo di questa casa, di questa comunione, attraverso di me diventi luce, consolazione, amore per tutti. Prego perché avvenga qui quello che è scritto su una lapide a Santa Maria in Trastevere: “Da questa casa nessuno esce triste”. Perché qui si entra per trovare Gesù e si esce pieni del suo amore per incontrare il prossimo.

Imola, Cattedrale
22/10/2022
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