festa di san giuseppe lavoratore

Bologna, Cattedrale

Nel giorno che l’intera comunità civile dedica a esaltare il valore e la dignità dell’operosità umana, i cristiani – che anelano sì al Regno dei cieli, ma non per questo possono estraniarsi dalla vicenda terrena – si associano cordialmente a questa universale celebrazione; ma si associano secondo la loro indole propria e la loro inconfondibile identità.
Facendo memoria e ponendosi sotto la protezione di san Giuseppe che ha addestrato alla laboriosità lo stesso Figlio di Dio, essi si radunano in questo significativo appuntamento del primo maggio prima di tutto a pregare e a offrire il sacrificio di Cristo per il bene di tutti e specialmente per i lavoratori in difficoltà; poi a richiamare qualche rilevante insegnamento della dottrina sociale cristiana; infine a ripensare la nostra storia così da redimerla dalle letture spesso superficiali che la travisano.

Per chi pregheremo?
La nostra implorazione è rivolta quest’anno particolarmente allo Spirito Santo. Perchè sia largo dei suoi doni con tutti i cattolici; perchè conceda un supplemento di sapienza e di consiglio soprattutto a quelli tra noi che sono impegnati nell’azione pubblica a vari livelli; e perchè aiuti quanti vogliono restare discepoli autentici del Signore a orientarsi al meglio in un tempo di confusione e perplessità come il nostro.

L’insegnamento che vogliamo sia pur fugacemente ricordare è uno dei cardini del magistero sociale della Chiesa. Si tratta del così detto “principio di sussidiarietà”, del quale oggi si parla sempre più spesso ma non sempre con piena cognizione di causa.
Sarà bene non dimenticare che la sua chiara formulazione risale al 1931, ed è contenuta nell’enciclica Quadragesimo anno. In un’epoca e in una Roma in cui veniva teorizzato e conclamato prepotentemente l’ideale dello Stato totalitario, Pio XI – uno dei papi, più lucidi, più coraggiosi, più concreti della storia – contestava apertamente e radicalmente quella concezione aberrante, ammonendo che “come non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria”, analogamente “è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”.

Questo principio tipicamente cattolico – ignorato a lungo e anzi ostentatamente trascurato dalla cultura laicista – viene in questi tempi riscoperto e rivalutato a proposito dei corretti rapporti da istituire tra la nascente Comunità europea e i singoli stati che ne sono membri. Ad esso si appellano sempre più frequentemente anche i comuni, le provincie, le regioni, al fine di rivendicare e allargare le loro rispettive autonomie. Ed è un richiamo che ha una sua legittimità.
Ma, attenzione, la sua applicazione più autentica e coerente è quella di indurre le strutture politiche e amministrative di ogni livello (stato, regioni, provincie, comuni) ad autolimitare l’ambito dei loro diretti interventi, impegnandosi invece ad aiutare positivamente le famiglie, le comunità di culto, le libere aggregazioni perchÈ possano esse stesse attendere senza impacci al raggiungimento delle loro specifiche finalità.

Come si vede, non si tratta di lasciare alle realtà autonome solo ciò che gli enti pubblici non riescono ancora a fare in presa diretta (secondo la vecchia mentalità ancora oggi imperante); al contrario, si tratta di riconoscere la rilevanza sociale e la funzione pubblica degli enti non pubblici, e di favorirne in tutti i modi l’attività, naturalmente sempre nel rispetto e in vista del bene comune.
Sarà bene notare che questa dottrina non coincide se non parzialmente con le tesi del liberalismo classico; e anzi nella sostanza le supera decisamente. Non basta consentire una vera e larga autonomia alle così dette realtà intermedie. Occorre anche metterle concretamente in condizione di poter vivere, agire e attendere efficacemente ai propri compiti, assegnando ad esse i necessari sussidi perchÈ la loro autonomia non resti soltanto un diritto astratto e inattuato.

L’insegnamento della “Quadragesimo Anno”, anche su questo punto, prosegue nella linea della “Rerum Novarum”. Secondo l’osservazione sintetica di Alcide De Gasperi, tra il “lasciar fare” (teorizzato dal liberalismo ottocentesco) e il “fare direttamente” (proprio di tutti gli statalismi), l’ente pubblico secondo Leone XIII deve avere come principio ispiratore del suo comportamento “l’aiutare a fare”.
Questo principio di sussidiarietà – congiunto e integrato con quello di solidarietà – è la convinzione che più di ogni altra caratterizza la visione cattolica della società. Perciò chiunque nella sua partecipazione alla vita pubblica voglia richiamarsi con serietà e correttezza all’ispirazione cristiana, non può non attenersi ad esso nelle sue dichiarazioni, nelle sue proposte, nella sua linea d’azione.

Del resto, fino a che non c’è un’adeguata, efficiente, normale applicazione del concetto di sussidiarietà – che si contrappone a ogni totalitarismo statale e a ogni collettivismo, di qualunque colore e di qualunque matrice – non si può dire che sia davvero raggiunta una democrazia sostanziale.

Mi pare doveroso e bello ricordare adesso, nel cinquantesimo anniversario, la data del 18 aprile 1948: una delle più memorabili e determinanti della storia, sia della storia d’Italia sia di quella della nostra Chiesa.
Mi limito su questo argomento a presentare molto rapidamente alla vostra attenzione tre persuasioni che ritengo incontestabili; tre persuasioni che sarà bene proporre anche alle nuove generazioni, perchè non si spenga la giusta consapevolezza di ciò che è avvenuto e non si smarrisca mai la sua lezione di vita.
È certo che in quel giorno si è davvero operata una scelta di civiltà. Il nostro popolo si è davvero in quel giorno salvato dal tragico destino di schiavitù e miseria, che è toccato invece a tante nobili e sventurate nazioni. Li abbiamo visti tutti, a partire dal 1989, i risultati di quell’ideologia dissennata e di quel disumano sistema politico che mezzo secolo fa anche noi abbiamo corso il rischio di dover subire.

C’è una seconda certezza incontrovertibile. In caso di una scelta sbagliata, nessuno sarebbe venuto a tirarci fuori dai guai. Le democrazie occidentali – che forse (ma non è detto) avrebbero reagito a un’invasione militare o a un colpo di stato violento – non si sarebbero mosse davanti al responso di una corretta consultazione elettorale, paralizzate dai loro stessi convincimenti e dall’autorevolezza della loro pubblica opinione. E così avremmo dovuto attendere anche noi il 1989 per respirare.
Di una terza verità dobbiamo infine essere ben persuasi, ed è che il merito dello scampato pericolo spetta primariamente alla Chiesa italiana in tutte le sue componenti: pastori, organizzazioni, militanti attivi, popolo dei credenti.

Senza dubbio c’è stato anche il contributo generoso di appassionati uomini politici e di efficaci scrittori che pur non condividevano totalmente la nostra concezione del mondo e la nostra fede. Ma l’apporto risolutivo è stato dato dalla gente comune, che non aveva un grande bagaglio ideologico e non nutriva troppi interessi culturali: questa gente semplice e predisposta al buon senso è stata raggiunta e illuminata dall’impegno delle ventiduemila parrocchie della penisola. E’ stata questa gente, grande agli occhi di Dio, a decidere la vittoria. Che questo venga adesso riconosciuto o no, alla Chiesa non importa molto: la Chiesa è abituata all’ingratitudine.
Alla Chiesa interessa che, almeno da parte dei suoi figli più responsabili come sono i lavoratori cristiani, si sappia manifestare la più viva riconoscenza al Signore per questa salvezza felicemente conseguita. Ed è ciò che vogliamo fare oggi con questa celebrazione.

01/05/1998
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