Festa di San Petronio, patrono della città e dell’arcidiocesi

Il Patrono ci spinge a contemplare il soggetto che protegge, la nostra città di Bologna, e, ad essa profondamente connessa, l’intera area che le gravita intorno. Lo facciamo in questa casa che a lui dedicò il popolo della nostra città, come espressione di un legame che la rende una comunità unita. Questa casa ha tanta “lunghezza”, per orientare il cammino nell’incontro con Colui che è con noi e avanti a noi; ha “ampiezza”, per esprimere tanta accoglienza, lo spazio per tutti, perché l’incontro con Dio ci aiuta a vivere in comunione tra noi ma prepara sempre un posto per ciascuno e per chi ancora non c’è. L’altezza, quasi incredibile oggi tanto più pensando all’epoca, che rende vicino il cielo, spazio di incontro tra questo e la terra, altrimenti immensità che ci sgomenta, ma anche aiuto a guardare in alto per liberarci dalla meschinità e per ricordarci che non è il nostro orgoglio a sollevarci ma l’amore che ci rende grandi.

Sento la grazia di questa celebrazione, perché abbiamo tanto bisogno di ritrovarci dopo tanto isolamento, e anche pensando alle sfide decisive che abbiamo davanti per ricostruire quello che il terremoto della pandemia ha distrutto e per pensare al futuro che, come sempre, inizia oggi. E dipende da ognuno di noi! L’ideologia dell’individualismo, con i suoi riti, le sue regole ed interessi digitali, si scontra con San Petronio e con la Chiesa che vive nella città e ne sente la gioia e la responsabilità. Anche nella sua raffigurazione San Petronio non smette di mostrarci il noi della città e le persone che in essa vivono e che non sono numeri, oggetti o anonimi viandanti o consumatori.

La tiene stretta a sé per dire che la ama e ce la presenta per chiederci di amarla. È l’amore che colora la vita, che dona all’altro volto e storia, tanto che l’altro non è un anonimo: è il tuo prossimo. Gli uomini di Dio non vivono fuori dal tempo, ridotti o autoridotti in una dimensione intimistica e individualizzata. Petronio ha tra le mani la città degli uomini perché la custodisce ma senza possederla, la serve ma non la comanda. Il cristiano ama e l’amore non è possesso, ma comunione e relazione. Il cristiano non si occupa solo dei “nostri”, di quelli come lui o che gli convengono. Tutto e tutti sono suoi nell’amore e questo diventa di volta in volta anzitutto preghiera, intimità con Dio e con il prossimo, ma anche solidarietà, gratuità, ascolto, protezione, accoglienza, condivisione, prestito.

Il discepolo di Gesù non ha altro interesse che questo e per questo ha al centro la persona, il prossimo, ad iniziare sempre dai fratelli più piccoli di Gesù. È di tutti, ma particolarmente dei poveri, e proprio perché è dei più piccoli è di tutti. I poveri danno fastidio al benessere senza prossimo, ma ci rendono umani e ci fanno trovare il senso di quello che siamo e che abbiamo. La Chiesa è di tutti perché al centro c’è Gesù, l’unico maestro che si è fatto servo di tutti, pastore delle pecore rimaste come di quelle perdute. Anzi: sembra tralasciare quelle rimaste perché va in cerca della perduta, ma in realtà le fa sentire amate tutte proprio perché se la cerca significa che ognuna è importante.

È Lui l’unico maestro e questo ci libera dal crederci noi tali, dalla presunzione e supponenza dei sapienti e degli intelligenti o dall’ossessione di doverlo diventare noi. Non tanti maestri che fanno lezione e alla fine non stanno più a sentire nessuno perché si parlano addosso, ma dei piccoli che servono, che uniscono nell’amore, lo rendono realtà, possibile, vicino e mettono in gioco tutto se stessi.

Nella pandemia, credo, abbiamo compreso, ed è una consapevolezza che si perde facilmente nella forza delle abitudini e nell’egoismo “sdrucciolo” che facilmente si impadronisce dei nostri cuori: non ci si salva da soli e se ne esce solo insieme. Quante domande attendono risposta e quante sofferenze vanno consolate! Inizierà tra poco per la Chiesa italiana, e quindi anche per noi, il cammino sinodale che vuole ascoltare questi interrogativi, non per amore di distaccate rilevazioni ma per comprendere noi oggi l’essere cristiani e aiutare tanti a incontrare l’amore di Cristo.

La sofferenza, il limite è sempre una grande domanda sull’uomo e su Dio. E quanto ci aiuta a trovare le parole ascoltarle! Solo l’ascolto fa sentire vicine le parole che pronunciamo! Ne abbiamo bisogno tutti. Tutti. Un grande latinista di Bologna, il prof. Alfonso Traina, recentemente scomparso, mi ha commosso perché nella raccolta di poesie che ha voluto pubblicare solo post mortem, quasi come suo testamento, ha scritto quella che sento come una richiesta lacerante e umanissima: “Quando starò davanti a te, Signore, se non perdonerai chi non si è unito al coro degli osanna, forse perdonerai chi ha confessato, Signore, di soffrire la tua assenza”. Ecco perché ascoltare e dialogare, camminare insieme, scoprire assieme l’agognata presenza.

Ci aiuta l’Apostolo Paolo che ci ricorda di non valutarci più di quanto è conveniente. La vera valutazione è, infatti, pensarci relativi a Dio e necessariamente quindi con il nostro prossimo. La vera valutazione non ce la indica l’orgoglio, non ce la fanno conoscere la sola introspezione o le infinite interpretazioni che ci fanno credere quello che non siamo oppure ci costringono a verifiche continue. È l’utilità la vera valutazione, e questa si misura con il corpo della Chiesa e di questa comunità umana che è la città, nel quale ognuno ha una sua parte.

Il protagonismo individualistico riduce tutto al proprio ruolo. Solo se membra l’uno dell’altro capiamo quanto siamo importanti perché utili e quanto sono importanti gli altri, perché necessari a noi. I doni diversi non devono diventare uguali, ma servono per migliorare tutto il corpo, per fare stare bene tutti, per cercare l’eccellenza che ci libera dalla mediocrità. Che ci facciamo di un dono se lo pensiamo da solo o lo usiamo per noi? Si perde, diventa inutile.

E questo è vero anche per il dono della nostra città, della sua storia e delle sue possibilità. Lo Spirito, che è comunione, ci ha fatto diversi “secondo la grazia data a ciascuno di noi”. L’individualismo ha svuotato l’io, lo tradisce in realtà, e una città di persone ridotte a individui diventa pericolosa per tutti, perché davvero l’uomo non è un’isola. Scegliamo di rendere la nostra città, naturale crocevia e da sempre luogo di accoglienza, una città che vive lo spirito, la cultura, la relazione di quel sogno di Dio che è “Fratelli tutti”. È anche il mio augurio per il nuovo rettore dell’Alma Mater e anche a chi vincerà la competizione elettorale e sarà chiamato al nobile incarico di rappresentare tutta la citta: ci faccia vincere tutti, cercando sempre il meglio da chi lo può portare, anche se non è della sua parte, perché se è dalla parte della persona e del bene comune è dalla parte giusta.

Questo anno, così decisivo per noi e per il mondo intero, perché è il mondo intero che soffre, sento così importante avere dei cardini sicuri che permettano di restare allo stesso tempo uniti e di muoversi. Senza cardine si resta bloccati, vittime delle paure e di una sicurezza che diventa una prigione oppure si gira intorno a se stessi, perché, come commenta il libro dei Proverbi con sintesi lapidaria, “la porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto”. Il vero cardine sul quale la nostra vita può girare permette di aprirsi verso l‘altro per trovarsi, perché la porta del cuore si apre sempre verso l’esterno. Ecco, il vero cardine è Gesù.

Vorrei allora indicare le quattro virtù cardinali, che poi sono anche quelle che reggono le altre, spirituali e umane, per tutti e di tutti al di là della fede. La prudenza, che non è rimandare le scelte ma l’indispensabile discernimento, libertà dalla pericolosa incoscienza digitale che impone i suoi tempi e nasconde i limiti di ognuno. La giustizia, che non è facoltativa, che difende dalla corruzione e cerca le stesse opportunità per tutti, a ciascuno nella misura necessaria, iniziando ad aggiustare l’ascensore sociale, quello dello studio e del lavoro ma anche quello che fa salire il prossimo nella nostra personale valutazione.

La fortezza, che ci libera dalla fragilità per cui ci sentiamo vittime o finiamo per credere forza l’aggressività o l’esibizione di sé, perché la fortezza ci libera dalla paura di amare, ci fa combattere il peccato ma sempre con tenera misericordia per il peccatore. Infine la temperanza, la moderazione del proprio io, che altrimenti si riduce a istinto, indotto sempre da qualche interessata pornografia della vita, perché solo dominando l’istinto ci impadroniamo per davvero del nostro io, scopriamo i fratelli con un amore più resistente delle delusioni.

Sia benedetta la città degli uomini, dove incontriamo la presenza di Dio. Scegliamo sempre i suoi fratelli più piccoli. Tutti possiamo fare qualcosa. Non c’è mai nessuno che non possa aiutare qualcuno più povero di lui, ricordava il grande vescovo brasiliano Helder Camara. Aiutiamo San Petronio e la sua Chiesa, con l’intercessione dei beati Marella e Fornasini, amando la città e le persone, riflettendo ovunque con la santità di ognuno di noi l’amore che rende preziosa sempre e per tutti la fragile e meravigliosa avventura della vita.

Bologna, basilica di San Petronio
04/10/2021
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