Funerale di monsignor Ernesto Tabellini

Accompagniamo con tanta tenerezza, in questo tempo di Natale, di luce nell’oscurità, di lotta con le tenebre, la vita lunga e piena di giorni di don Ernesto, sazio, anche se, in realtà, solo l’eternità sazia la fame di futuro, di compimento e di giorni, che accompagna la nostra vita.

Ecco il senso dell’Epifania di Dio a noi che siamo sempre raggiunti dall’ombra di morte che solo il sole che è sorto illumina. Ci ha lasciato proprio il primo giorno dell’anno, come ad iniziare la nuova vita nella pienezza del tempo, quel tempo che prende inizio proprio dalla nascita di Cristo e nel giorno di Maria Madre di Dio e quindi madre nostra, affidata a noi e noi a lei, Madre che genera Dio nel mondo perché l’uomo del mondo nasca alla vita del cielo. Che mistero di amore quello che contempliamo con gli occhi della fede e dell’amore, quelli che non illudono, anzi liberano dalle illusioni. Sono gli occhi che vedono nel profondo, che vedono ciò che è nascosto nella realtà, nella storia, che non ci fanno scappare – come le illusioni – collocandoci fuori dal tempo e dallo spazio.

Il cristiano non si rifugia fuori dal mondo, come le tante illusioni digitali, come le dipendenze che servono proprio per sfuggire dalla durezza di una realtà, che in tanti modi appare insostenibile, o per evitare la necessità di scelte, di annullare il limite perché non sappiamo superarlo, di sentirsi forti senza mai risolvere la propria costitutiva fragilità. Ecco, crediamo che adesso le sue mani sono in quelle di Colui dal quale nessuno può rapirci. Chi, infatti, ci separerà dall’amore di Dio? Sono le mani alle quali don Ernesto ha affidato tutta la sua vita ed ha insegnato a tanti a farlo con la sua predicazione e con il suo esempio. Adesso noi non possiamo più nulla per lui. E ringrazio di tutto cuore i suoi familiari e in questi mesi le sorelle della casa del clero, per la protezione, sempre accompagnata dalla esigente sensibilità richiesta da don Ernesto, con cui è stato protetto.

Una delle immagini della morte e dell’abbandono in Dio è quella degli acrobati del circo che sanno che a un certo punto debbono lanciarsi nel vuoto, non possono, come la paura suggerisce, restare aggrappati al loro pur fragile seggiolino. È la fiducia di abbandonarsi in Dio, di credere nell’amore, cioè che qualcuno dall’altra parte ci afferra, così come aveva fatto don Ernesto seguendo caparbiamente la chiamata di Gesù, che ci aiuta a non restare prigionieri di noi stessi, delle nostre angustie.

L’acrobata ad un certo punto deve tendere le mani verso qualcuno e sa che il suo compagno, dopo un vuoto senza sicurezze, gli stringerà le mani perché non caschi a terra, per tirarlo su. Ecco il senso dell’abbandono a Dio nel buio della morte, dove possiamo solo affidarci, dove non c’è sicurezza alcuna che toglierebbe significato proprio al credere nell’amore. Gesù quando “si fece buio su tutta la terra” – perché la morte di un uomo non è mai un fatto individuale, mai, per nessuno – consegnò il suo spirito nelle mani del Padre, perché anche noi possiamo sperimentare la dolce sicurezza di un amore che ci attende, che ci protegge e ci proteggerà.

Certamente anche per questo non vogliamo che nessuno sia lasciato solo ma sia confortato, come Gesù, dalla presenza dolce di Maria. Tutta la vita è seguire lo sguardo che ci fa incontrare l’Agnello di Dio, Gesù, e cercare la risposta alla domanda: dove abita, dove lo vedo, dove lo vedrò, dov’è la casa di Dio, dove trovo la risposta a quello di cui ho acuto bisogno, che mi è necessario e di cui ho sempre un disperato bisogno?

La risposta è sempre la stessa, come l’invito alla fine della vita è, nel Vangelo, sempre quello dell’inizio: seguimi. Vieni e vedi. Non si vede senza seguire. E anche quest’ultimo tratto del suo e nostro cammino (quando si accompagna qualcuno si percorre anche con lui lo stesso itinerario) avviene solo affidandosi all’amore, al vieni perché solo così si vede. È nel seguire che troviamo la risposta, non viceversa, vedere per poi andare. È stato così anche nella vita vissuta in maniera personale, originale, seguendo Gesù e in fondo anche se stesso, cercando e comunicando quello che aveva nel cuore.

Due grandi comunità, Zenerigolo e Altedo, e poi Castelfranco dove con passione ha comunicato la sua voglia di vivere e la gioia del Vangelo fino alla strepitosa festa dei 100 anni, orgogliosamente condivisa. Ecco il segreto della lunga vita di don Ernesto. Vita benedetta e sempre sospinta dal desiderio di raggiungere Anania e tutti i suoi cari, i genitori, i fratelli, ritrovare quella presenza che tanto l’ha accompagnato e che ha sentito protezione per sé, per la sua vocazione.

Si cerca il cielo e si trova la terra, si cerca Dio e si trova il prossimo. Il germe divino rimane in lui e non può peccare perché è stato generato da Dio. Cioè non è la parola ultima: quando vediamo la pagliuzza non solo non capiamo l’altro, ma offendiamo il germe divino che pure il Signore ha posto in ciascuno, quindi anche nel prossimo. Un cristianesimo forte, vibrante, non da sacrestia, ma nemmeno da salotto.

Mi colpì il fatto che aveva a casa tutte le opere di Mazzolari, nell’edizione originale. Era il suo riferimento. Colto nell’essenziale, ma attento a cogliere e a vivere le novità del Concilio che ha vissuto pienamente. Voleva pagare il debito di amore verso Anania. Sua sorella aveva detto prima di morire: “Voglio offrire la mia vita anche per la vocazione di mio fratello, affinché possa uscire un sacerdote fedele e zelante e possa così salvare tante anime”. Venne ordinato durante la guerra. Il Cardinale Nasalli Rocca nell’occasione disse: “La vita è un bel ricamo. Guardandolo a rovescio non tagliate alcun filo: rovinereste tutto”. Don Ernesto ha sempre cercato di guardarla nel verso giusto, in maniera anche ironica, sorprendente, con il gusto della parabola e della vita vera, diretta ma non scanzonata, sempre aderente alla realtà.

Voleva che il Vangelo raggiungesse tutti. I lontani erano vicini, magari li prendeva bonariamente in giro. A Piumazzo disse, lasciando la parrocchia, che la sua amarezza era quella di non avere conosciuto tutti e soprattutto le tante nuove famiglie. Ha scritto di lui un fedele: Cosa è stato? Un prete! Non a caso, sempre quando lasciò Altedo, parlò del prete di domani, una riflessione di Jean Guitton.

“Credo che ci sarà domani un’osmosi tra preti e laici: ognuna si rianima nel mistero dell’altra. Sarà un prete comunitario il prete di domani, e per questo personale, perché votandosi alle cose comuni si scopre e si forgia la personalità. Sarà un prete colto, ma sempre prete, non un buon compagnone, un collega e nemmeno un pastore protestante. Sarà un uomo di Dio, perché in un mondo desacralizzato le persone chiedono di vedere Dio da vicino”.

Con una certa arguzia (era un uomo che amava mettere alla prova con tanta simpatia!) al saluto ad Altedo disse: “Voi siete miei creditori, di preghiere, di speranza, di tempo, di benedizioni, di buon esempio, di carità, di perdono, di tolleranza, di compatimento, di speranza, e di tanto affetto. Vi chiedo perdono. Vorrei saldare questo grosso debito, vorrei pagare ma sono povero. Paga per me il Signore, lo spero, anzi ne sono certo. Sono fiducioso che anche voi mi farete credito. Avrei voluto esser per voi il gradino per arrivare a Cristo. È calpestato, ma viene buttato via quando non è più luce trasparente di Cristo. Non mi rimane che concludere con una frase di S. Paolo e ripeterla: Signore ho combattuto la buona battaglia. Signore ho terminato la corsa. Signore ho conservato, questo sì, la fede. E vi pare poco?”.

Grazie don Ernesto, e da decano non dimenticare di pregare, insieme ad Anania, perché nella Chiesa ci siano tanti buoni laici e tanti sacerdoti di domani, comunitari, colti e uomini di Dio.

Il Signore ti abbraccia nella luce senza fine che tu hai donato in anticipo qui con la tua lunga vita. In Pace.

Piumazzo, chiesa parrocchiale
04/01/2022
condividi su