La prima considerazione, vedendo quante persone sono riunite oggi qui a Vidiciatico, riguarda cosa è grande. Un luogo, una persona, non lo sono per la geografia, per il potere, per i soldi, per il lusso, per il mettersi al centro. Il centro è sempre dove sta il Signore e grande è chi ama. L’amore rende grandi. Don Giacomo ha amato. E la seconda considerazione è che mi dispiace – come ha detto don Michele, e lo ringrazio insieme a don Filippo, a don Dominique e a don Racilio, decano di tutto il presbiterio della “Montagna” – che purtroppo tanti sono rimasti fuori, sulla piazza. Ma in fondo questo esprime tanto di don Giacomo, che ha sempre sentito la Chiesa dentro la vita del mondo e il mondo della Chiesa, ed è sempre andato incontro a tutti.
Ero molto tentato oggi di leggere la Parola di Dio che sarà proclamata domani nella festa di Santa Clelia Barbieri. Ella gli è stata vicino, l’ha sostenuto, tanto che Giacomo ne ha voluto il nome per la realizzazione di quell’opera che, forse più di tutte, rivela la sua sensibilità e creatività. La santità genera santità, la aiuta, ci persuade a viverla anche quando siamo pieni di dubbi e di incertezze. Il bene genera bene.
Tutti noi siamo frutto di amore di Dio ricevuto da incontri, parole, testimonianze, vicine e lontane nel tempo e nello spazio. E anche tutti noi lasciamo quel riflesso di Dio che è l’amore gratuito donato al prossimo, amore sempre materiale e spirituale che, come sappiamo, è quello che resta di ognuno di noi, il tesoro nel cielo dove i ladri non scassinano e la tignola non corrode. Niente è vano della santità. «Siate santi perché io sono santo». Siamo santi perché il mondo sia se stesso, ritrovi il senso per cui Dio lo ha voluto, sia bello e ad ognuno sia restituita la bellezza e la grandezza della vita, quella che il male vuole nascondere e rendere insignificante. Santa Clelia, piccola e grande amica, lo accoglie perché la santità è una compagnia che trova nella comunione dei santi la sua concretezza fisica, perché i santi non sono puri spiriti ma persone, storie, umanità, corpo.
Ci aiuta, come sempre, la Parola di Dio, lampada dei nostri passi. Significa che abbiamo bisogno di lei per camminare, altrimenti siamo al buio, ma anche che quando sperimentiamo la difficoltà del cammino abbiamo la luce per ritrovarlo. La prendiamo troppo poco in mano, perché ci abituiamo al buio, restiamo fermi o siamo ciechi convinti di vedere. Mi commuove vedere la Parola – seme di vita eterna – deposta su don Giacomo, la sua bibbia, molto consumata.
Quando leggiamo la Parola si accende il mondo intorno a noi, capiamo quello che non è vano, perché a volte il nostro sembra un affannarsi in fondo inutile, per certi versi sconsolato, come esprime il pessimismo di Qoelet quando constata che tutto è vano, si dilegua, finisce, per cui non c’è mai niente di nuovo sotto il sole e, quindi, di conseguenza niente vale il pane. Ecco perché abbiamo così bisogno della Parola che rinnova ciò che è vecchio, che è luce nelle tenebre del non senso, nel grigio del non amore. La Parola bussa alla porta del nostro cuore e libera dalla diffidenza e dalla paura che ce lo fanno chiudere, ma può entrare solo se noi dall’interno apriamo a Dio.
Solo se la facciamo entrare si siederà e diventerà nutrimento, compagnia, comunione che non finisce. Don Giacomo aveva un riferimento chiaro nella Parola, che univa a molta concreta, fisica, manuale praticità: il rigore di don Giuseppe Dossetti per la Parola di Dio, la bellezza di ascoltarla di Lercaro e di spiegarla di Gherardi, la sua passione indomita per metterla in pratica e renderla epifania della presenza di Gesù nelle opere di carità richieste a tutti, anticipo di quella che non finirà.
Una volta, alcuni anni or sono, non era rimasto contento dell’omelia del Vescovo e – direi per fortuna – me lo disse con una certa chiarezza, rivendicando proprio la centralità della Parola. Presi il suo invito – perentorio e diretto come i temporali di don Giacomo – come un monito, una critica che mostrava un amore per la Chiesa e per il Vescovo, critica che fa sempre bene a tutti, anche a me per cambiare.
Il profeta ci invita a tornare al Signore, che toglie ogni iniquità e accetta ciò che è bene. Vuol dire che l’iniquità non è l’ultima parola e la sua è sempre una Parola buona, che ritrova il buono anche se sepolto nel cuore. Don Giacomo ha voluto lasciare scritto: “Se la coscienza mi rimorde per i molti peccati, dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia (Rom 5,20) io canterò in eterno la misericordia del Signore (Ps 9,2). Dobbiamo smettere di chiamare “dio nostro” l’opera delle nostre mani. Non abbiamo bisogno di costruirci idoli, cioè comprare l’amore, pensare di scaldarci con l’amore per noi stessi.
Don Giacomo si assumeva fisicamente le cose che faceva, non si arrendeva, si lasciava “mangiare” (ripeteva spesso che il prete “è un uomo mangiato”), ma sempre attento a non cedere a qualsiasi forma di protagonismo, che considerava il vero pericolo della vita spirituale, e che a volte determinava in lui tratti quasi burberi e sbrigativi, un volersi tirare da parte. Era diffidente verso un certo attivismo e poi lui stesso non riusciva a stare fermo, doveva tradurre l’amore in azione. Raccoglieva di tutto: il suo camioncino trasportava e condivideva le cose più svariate, verdure di ogni genere anche se non proprio fresche, polli e altro. Ma lo accompagnava la salda certezza che il Signore opera come vuole Lui nella vita di ciascuno, e a Lui occorre rimettersi (si richiamava spesso a Teresa di Lisieux).
Rimase celebre una sua omelia in cui suggeriva: “Non sempre occorre ‘fare’: provate a non fare nulla!”. E questo rivela la radice profonda del suo instancabile spendersi su e giù fra l’Appennino e Bologna (credo conoscesse a memoria la Porrettana) nei servizi più umili e concreti (raccolta di carta e ferro vecchio, Banco Alimentare), ma soprattutto nel suo spendersi per le persone, accogliendo anche casi difficili e ingrati (monache “fuori squadra”, un confratello processato, una famiglia rom accompagnata da molti problemi) e quindi pure le critiche e le resistenze del paese. La radice del suo fare erano sempre preghiera e contemplazione. Le cose non servono se non servono per le persone, perché queste sono il centro di tutto. Non dire che ho dei prossimi da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare prossimo io degli altri.
E don Giacomo questo lo aveva chiaro, mettendo sempre al centro i nonni, i lavoratori, il prossimo, i fratelli più piccoli. Non le opere che poi impongono la loro logica, le regole, ma esattamente il contrario. Questo può creare qualche problema amministrativo, diciamo così, a chi doveva garantire quella che solennemente verrebbe chiamata sostenibilità. Per don Giacomo la sostenibilità era sicura, perché quello che contava era la compassione. Anche il samaritano non sapeva quanto era il di più di cui ci sarebbe stato bisogno! Ma era sicuro di trovarlo. L’Altro voleva che le sue opere andassero avanti, per cui valeva sempre la pena… Iniziava tanti processi perché, come dice Papa Francesco, bisogna privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. Il Vangelo ci ricorda la caratteristica di ogni discepolo. Uno che è mandato, quindi non vive per se stesso, non si impadronisce di Gesù ma è di Gesù per andare incontro agli altri. Per don Giacomo qui a Vidiciatico sono stati gli anziani, prima chiusi nelle loro case vecchie durante tutto l’inverno, quasi abbandonati a se stessi, poi la trasformazione dell’asilo che non ospitava più i bimbi e le bimbe e dove le persone sole e anziane hanno trovato accoglienza e socialità. Questa è stata quasi una rivoluzione.
Raccattava gli “scarti di umanità”, persone sole ed ammalate che nessuno voleva o poteva più gestire a casa, che cercava in ospedale per poi prendersene cura nella sua canonica che voleva fosse casa. Dal nulla, a fronte di mille diffidenze iniziali, ha costruito una realtà grande: Porretta Terme (Villa Teresa) e Camugnano (Pensionato San Rocco). Ha gestito e garantito questo servizio di “carità cristiana” contro tutti con forza e coraggio, sfidando spesso amministratori locali e regionali. Ecco cosa significa essere prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. La sintesi era il suo sorriso, decisamente furbo ma anche disarmante nella sua semplicità. Fidarsi del Signore, di quella che si chiama provvidenza, cioè del suo amore che non lascia solo il discepolo, tanto che possiamo non preoccuparci di come o di che cosa dire «perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi». Spesso noi facciamo esattamente il contrario. Ci preoccupiamo di quello che pensiamo di dover dire, ci spaventiamo per non saperlo fare, studiamo tutte le difese, le sicurezze, e restiamo pieni di paure. La nostra forza è essere pieni del suo amore e solo questo ci darà la risposta. Ecco la fiducia del discepolo. Prudente, altrove Gesù dirà astuto, furbo. E non possiamo dire che don Giacomo non lo fosse per le cose di Dio. Allo stesso tempo era semplice, trasparente, diretto, senza calcolo, esigente per questo. Ha costruito e amato la sua comunità.
Ricordo quando alcuni ragazzi, ubriachi, distrussero un crocifisso. Don Giacomo ottenne il giorno dopo una lettera di scuse ma si interrogò sulle nostre responsabilità, quando alcuni ossessivi falsi difensori della verità dichiararono che era la prova del cristianesimo attaccato in occidente e dell’assuefazione dei cristiani rinunciatari. Don Giacomo ha fatto riparare e rimettere a posto il crocifisso Santo Matto, santo perché di Dio e matto per un mondo dalle misure avare, larghe per sé e calcolatrici per gli altri. Per tutti, mai solo per i chiesaioli, ma guai ad offendere la Chiesa. Neppure il male incurabile che ne ha provocato la scomparsa è riuscito a togliergli in sorriso dalle labbra, il bisogno di continuare a vedere il positivo e la presenza del Signore nel quotidiano e di scoprirne la bellezza. Ha affrontato la malattia guardandola negli occhi, senza farsi condizionare da questa, con una forza incredibile che è proprio quella dell’amore. “Sono sereno” diceva negli ultimi tempi a chi andava a trovarlo, magari aggiungendo una transitoria nube di bellezza. Sempre vivace, partecipe e accogliente, ma con un accento più disteso e luminoso, come uno che vede avvicinarsi la meta. “Se la coscienza mi rimorde per i molti peccati, dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia (Rom 5,20). Io canterò in eterno la misericordia del Signore (Ps 9,2). Non dire che ho dei prossimi da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare prossimo io degli Altri. Così canterò in eterno la misericordia del Signore”. Prega per noi, per la tua Chiesa di Bologna.