giornata della vita consacrata

Bologna, Cattedrale

“Secondo la legge di Mosè portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore” (Lc 2,22). Si avverava così un’antica profezia e arrivava al suo compimento un grande mistero.

La profezia è quella di Malachia, che abbiamo ascoltato: “Entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; ecco viene l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate” (Ma 3,1). Il mistero è quello dell’ingresso salvifico personale dell’Unigenito del Padre, a lui consostanziale e coeterno, nel mondo religioso e cultuale ebraico che in tal modo raggiunge il suo traguardo e la sua piena verità: Israele, avendo con sé l’Emmanuele (il “Dio con noi”), comincia a configurarsi come il “nuovo popolo di Dio”, destinatario di una “alleanza eterna”; e il “tempio” diventa figura della santa Chiesa Cattolica, dove ormai si adora “in spirito e verità” (cfr. Gv 4,23). Alla stagione dei puri simboli e dei preannunci, subentra quella dei “sacramenti”, cioè della realtà divina già presente e posseduta, sia pure sotto il velo dei “segni”.

Possiamo allora dire che con la presentazione di Gesù al tempio si profila in maniera aurorale, nella storia del giusto culto da rendere al vero Dio, la realtà della Chiesa: la Chiesa, vale a dire la “dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21,3), il “sacramento universale di salvezza” (Lumen gentium 42); non solo aspirazione e profezia ma già anche presenza “misterica” nella storia degli uomini e attualità palpitante in mezzo a noi del Regno eterno di Cristo (cfr. Lumen gentium 3).

Di tale “regno” escatologico anticipato, voi, carissimi fratelli e sorelle che vi siete posti sulla strada di una speciale consacrazione, siete (per così dire) l’oggettiva delibazione, l’iniziale inveramento e, per tutti i discepoli di Gesù, il richiamo più pungente e più forte.

E’ molto bello, perciò, che siate qui, come ogni anno, a celebrare col vescovo questo mistero della “presentazione del Signore”.

E’ un incontro per me consolante. E io spero che anche per voi possa essere consolante questa festa di luce, che media tra il dolce chiarore natalizio e lo splendore glorioso della Pasqua. E mi auguro che oggi possiate ripartire da questa cattedrale resi più lieti, più sereni, rianimati nei vostri propositi e confermati nella fedeltà alla vostra vocazione.

Quel giorno a Gerusalemme, come s’è detto, un evento grande e decisivo si iscriveva nella vicenda della redenzione umana. Eppure non se ne è accorto nessuno: l’ “angelo dell’alleanza”, che era l’anèlito di ogni cuore, il “Signore che noi cerchiano” (cfr. Ma 3,1), ha attraversato sulle braccia di sua madre una città indifferente; è entrato nello spazio sacro dei vasti cortili senza che nessuno lo notasse; è stato presentato anonimamente ai sacerdoti, sconosciuto e indistinto in mezzo agli altri primogeniti offerti e riscattati in quel giorno.

E’ un po’ sempre lo stile di Dio, che attua le sue meraviglie preferibilmente nell’umiltà e nel silenzio. Ma non senza assicurarsi l’attenzione, la simpatìa, l’intelligenza soprannaturale di alcuni “testimoni prescelti” (cfr. At 10,42).

In questi “testimoni prescelti” ci è consentito e utile trovare dei modelli di una perfetta dedizione al Signore e scoprire dei precisi insegnamenti per la vita del nostro spirito.

La più umile di quei testimoni è Anna, una donna che è vissuta di fede per tutta la sua lunga esistenza. Vecchia di ottantaquattro anni, era rimasta vedova dopo soli sette anni di matrimonio. Non si era più risposata, perché voleva riservare al Signore tutta l’attenzione di un cuore indiviso: “Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere” (Lc 2,37).

In virtù di questa fede, semplice e povera, custodita nel silenzio per uno spazio interminabile di tempo, adesso Anna diventa addirittura un’evangelizzatrice eloquente, e comincia ad annunziare a tutti che il Messia redentore è finalmente arrivato: “Sopraggiunta in quel momento si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38).

Simeone è invece l’uomo della speranza incrollabile. In questa speranza lo Spirito Santo lo aveva sorretto durante innumerevoli anni desolati e delusi, mormorandogli senza strepito di parole, nelle profondità della sua anima, che “non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Messia del Signore” (Lc 2,26).

I giorni scivolavano via veloci, il tempo scorreva implacabile, e il grande Atteso non compariva. Alla giovinezza subentrava la maturità, alla maturità la stagione gelida della vecchiaia; e Simeone si vedeva sempre inesaudito, sempre incompreso nella sua tensione solitaria.

Eppure egli si riscaldava al saldo ricordo della divina promessa, come a una fiamma gelosamente custodita nel cuore e difesa da ogni vento avverso di scoraggiamento e di sfiducia. Si comprende allora la sua appassionata “benedizione” al Dio fedele, e l’inno commovente che esce dalle sue labbra tremanti quando può stringere finalmente tra le braccia quel bambino che era la “gloria di Israele” e la “salvezza di tutti i popoli”: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” (cfr. Lc 2,29-32).

Ma la testimone più alta, più attendibile, più completa delle grandezze di Dio è senza dubbio la Madre, colei che “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (cfr. Lc 2,19.51).

Maria visse sì di fede e di speranza, ma soprattutto è colei che nella maniera più perfetta è sempre vissuta d’amore. Amare significa prima e più di ogni altra cosa – è un chiaro insegnamento di Cristo – fare la volontà del Padre; e Maria – creatura che dal primo all’ultimo istante dell’esistenza è stata sempre assolutamente conforme al disegno divino – ha obbedito e servito al suo Creatore senza alcuna riserva: “Io sono la serva del Signore” (Lc 1,38), è la sola definizione che ella ha dato di sé.

In tutto assomigliante al suo Figlio unigenito (il “Servo di Jahvé” predetto dal profeta) e a lui indissolubilmente connessa, sarà anche lei provata e sacrificata dal dramma dell’obbedienza redentrice.

“Anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35): è il vaticinio che le riserva Simeone, il quale, essendo un autentico uomo di Dio, non indulge al fatuo sempiterno ottimismo che caratterizza i falsi profeti.

E’ verosimile che in quel momento Maria non abbia compreso in tutta la loro analitica tragicità quelle parole. Si incaricherà a farglieli intendere l’incalzare di avvenimenti sempre più penosi e tremendi, ai quali ella risponde sempre con totale e amorosa docilità: l’esilio egiziano, l’odio dei capi del suo popolo che arriva al ripudio e alla condanna del vero Re, figlio di Davide e figlio di Dio, la crudele volubilità della folla, l’atroce martirio della croce, la vista del sepolcro che sembrava la fine di tutto.

Ma la sua capacità d’amare, che non veniva mai meno, le salvava in cuore, anche nei momenti di pena più lacerante, una letizia vera e inalienabile: la gioia di essere sempre unita al suo Figlio adorato, al centro con lui del progetto di salvezza del Padre a favore dell’intera famiglia umana.

Credo sia superfluo aggiungere qualche commento a questa lezione e a quest’esempio di vita interamente donata a Dio, che ci viene da Anna, da Simeone, dalla Vergine Maria, i tre preziosi testimoni della “presentazione del Signore”.

02/02/2001
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