La vostra presenza nella comunità cristiana non è di secondaria
importanza. Il «centro culturale» è uno dei luoghi in cui
il credente è aiutato a pensare la sua fede. E questo non è un
lusso per il cristiano: è una necessità strutturale e congiunturale.
Strutturale. La fede è assenso dato dalla mia ragione: un assenso reso
possibile dalla grazia. Inerendo alla ragione, essendo un modo di conoscere
la realtà , la fede esige di penetrare sempre più nella nostra
ragione.
Congiunturale. Oggi più che mai una fede non pensata è una fede
esposta o al dubbio o al fondamentalismo o al rifiuto della sua dimensione
conoscitiva. In tutti e tre i casi è destinata a morire.
Ma il vostro compito ha una connotazione precisa: il pensare la fede dentro
ai nodi più problematici della condizione umana, nei confronti delle
sfide più profonde.
La mia riflessione vuole essere un aiuto ad affrontare uno dei nodi più intricati
dell’attuale condizione spirituale dell’uomo: la questione dell’origine
in quanto questione della “figura paterna” nell’esperienza
umana.
Che la paternità infatti abbia attinenza all’origine è convinzione
che appartiene alle evidenze originarie dello spirito. Che cosa significhi,
quale sia il contenuto di questa attinenza è problema difficile da risolvere
dal punto di vista speculativo, e da vivere dal punto di vista pratico.
Partiamo da un fatto, il più evidente ed il più enigmatico:
il fatto del nostro esserci. Nessuno forse fra i moderni ha descritto meglio
di Montale lo «choc» che lo spirito vive quando si incontra col
fatto del suo esserci.
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compiersi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
Alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
[da Ossi di seppia,
in Tutte le poesie, Milano 1990, 42]
L’uomo «rivolgendosi», cioè guardando alla sua origine,
volendo sapere che cosa sta alle sue spalle, «con un terrore di ubriaco» ha
la percezione vertiginosa che non si è fatto da sé e vede «il
nulla alle sue spalle» e «il vuoto dietro di lui». La più inconfutabile
evidenza è che non ci siamo fatti da noi stessi!
Per prendere coscienza pienamente chiara di quest’originaria esperienza,
dobbiamo fin dall’inizio liberare il nostro spirito da un’illusione
che ci impedisce di entrare, semplicemente entrare, dentro al problema. Alla
domanda: «che cosa sta alla mia origine?» si può pensare
di rispondere immediatamente nel modo seguente. La mia origine è dovuta
a reazioni bio-chimiche che, come in una catena non interrotta di anelli,
perpetuano la vita di una specie vivente.
Questa risposta non solo non risolve, ma non tocca neppure il vero problema
di cui stiamo parlando: il problema di sapere perché esisti tu, perché esisto
io, quando chiunque altro avrebbe potuto esserci al tuo posto, al mio posto.
La risposta suddetta spiega perché esistono tanti individui destinati
ad essere sostituiti da altri individui. Ma il fatto da cui nasce la poesia
di Montale non è questo. E’ il fatto del mio «io» irripetibile
ed unico, che non trova spiegazione nei meccanismi della riproduzione della
specie.
Dobbiamo avere allora una coscienza molto intensa dell’esserci del nostro «io»:
della superiorità – direbbe Kierkegaard – del singolo sul
genere (o specie). E quindi di fronte al «nulla alle mie spalle, il vuoto
dietro di me» due sono le ipotesi verificabili: o sono stato voluto
da un Altro oppure la realtà è una favola, un inganno senza
consistenza. Nella poesia citata, noi vediamo un uomo proprio nel momento in
cui decide di non verificare neppure la prima ipotesi, per cui «s’accamperanno
di gitto/ alberi case colli per l’inganno consueto». E’ dentro
a questo dramma esistenziale che si pone la questione del Padre.
1.LA RISPOSTA DI F. KAFKA E DI TERESA DI G. BAMBINO
La questione del Padre ha percorso, ha attraversato tutta la modernità ,
dominata come è stata, nella sua riflessione, dal problema del cominciamento.
Verso la fine di questo percorso, due grandi esperienze spirituali ne hanno
come espresso i due esiti possibili: l’esperienza di F. KAFKA e l’esperienza
di S. TERESA DI GESU’ BAMBINO. Più precisamente mi riferisco per
il primo a la Lettera al padre (1919) e per la seconda soprattutto
al Manoscritto B e C.
In questo primo punto della mia riflessione cercherò di dare almeno
uno schizzo delle due risposte alla questione dell’origine, del modo
di essere di fronte al Padre da parte di questi due spiriti.
1,1. Il documento kafkiano è dominato da un’insostenibile tensione
dialettica: da una parte esso manifesta un bisogno estremo di paternità ,
dall’altra esso diagnostica il fallimento totale dell’esistenza
a causa della presenza in essa della paternità . Ma cercherò di
procedere nel modo più analitico possibile.
“Da quando ho l’uso della ragione tanto mi tormenta il problema
della sopravvivenza spirituale che tutto il resto m’è indifferente
(= geistige Existenzbehauptung = affermazione spirituale dell’esistenza)” (F.
Kafka, Confessioni e diari, ed. Mondadori, Milano 1996, pag. 673). Che cosa
significa «affermazione spirituale dell’esistenza»? Pienezza
di significato nella vita: gli antichi parlavano di «beatitudine» e
Tommaso di «plenitudo essendi», pienezza di essere. Kafka è dominato
dal senso di un’intrinseca fragilità dell’esistere, «poiché io
non ero mai sicuro di nulla e ad ogni istante volevo una nuova conferma della
mia esistenza, poiché non possedevo nulla che fosse assolutamente, inequivocabilmente
, unicamente mio e determinato soltanto dal mio possesso, poiché in
fondo ero un figlio diseredato» (pag. 674).
Vedremo che Teresa vive la stessa identica esperienza, forse in un modo ancora
più drammatico: la consapevolezza di non possedere nulla di proprio.
La stessa esperienza di Montale. Ma continuiamo a percorrere il cammino di
Kafka.
E’ da questa consapevolezza che nasce in Kafka, e si struttura completamente
l’esperienza della paternità : invocata e condannata. Che cosa è accaduto
perché si giunga alla condanna più radicale della paternità ,
credo, pronunciata nella modernità , da parte di chi ha espresso anche
in modo unico il suo bisogno? “Talvolta mi par di vedere spiegata una
carta della terra mentre Tu vi sei disteso sopra trasversalmente. Allora
ho l’impressione che a me rimangono per viverci solo le regioni che tu
non copri e che sono fuori della tua portata. Secondo l’idea che mi sono
fatto della tua grandezza, le regioni sono poche e non molto gradevoli” (pag.
684). E’ accaduto che la presenza paterna è sperimentata come
un presenza invadente ed opposta alla sua libertà : esattamente la stessa
esperienza da cui inizia il figlio minore della parabola evangelica. Essa “dipende
dal fatto che tu in quanto mano che forgia e io in quanto materiale da forgiare
eravamo tanto estranei l’uno all’altro … e osavo muovermi
soltanto quando il tuo potere, almeno direttamente, non mi raggiungeva più” (pag.
650). Forse qui tocchiamo il punto nevralgico centrale dell’esperienza
di Kafka, e della modernità .
Biblicamente (cfr. Isaia e Geremia soprattutto), Kafka ricorre al grande
simbolo della «mano che forgia» e del «materiale da forgiare» per
definire il rapporto padre-figlio. Esso viene interpretato in ciò che
esprime di dipendenza, come estraneità : chi forgia non può non
essere completamente altro da chi è forgiato. E l’alterità non
può che essere pensata in termini di «padrone-servo»: “tu
ti ergevi davanti a me, e tutto ti sembrava ribellione, mentre era soltanto
la conseguenza naturale della tua forza e della mia debolezza” (pag.
650). Cioè: fra l’affermazione della dipendenza creaturale da
Dio-Padre e l’affermazione della libertà della persona creata
esiste contraddittorietà sul piano dell’esistenza, poiché si è perduta la
visione intelligente di ciò che significa «creare dal niente una
persona».
Kierkegaard in una pagina del suo Diario aveva visto con grande profondità che
su questo l’annuncio cristiano avrebbe giocato il suo futuro, sul piano
della sua ragionevolezza.
“La cosa più alta che si può fare per un essere, molto
più alta di tutto ciò che un uomo possa fare di essa, è renderlo
libero. Per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza.
Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti.
Ma se si vuol veramente concepire l’onnipotenza, si vedrà che
essa comporta precisamente la determinazione di poter riprendere se stessi
nella manifestazione della onnipotenza, in modo che appunto per questo la cosacreata
possa, per via dell’onnipotenza, essere indipendente.”
[S. Kierkegaard, Diario 1840 1847, vol. 3, a cura di C. Fabro, ed. Morcelliana,
Brescia 1980, pag. 240]
Ritornando a Kafka possiamo per così dire segnalare i seguenti momenti
fondamentali nel suo percorso di rifiuto della paternità . Il
punto di partenza va situato nel problema della «geistige Existenzbehauptung » (affermazione
dell’esistenza spirituale), cioè dell’affermazione di sé come «libertà sensata». Secondo
momento: questo bisogno si scontra colla consapevolezza del «non
possedere nulla che sia assolutamente, inequivocabilmente, unicamente» dell’uomo
e «determinato dal suo possesso». Terzo momento: questa
condizione di tensione fra bisogno – mancanza – affermazione pone
la persona nella necessità logica ed esistenziale di cercare una pienezza
fuori di sé. Quarto momento: Kafka rifiuta che possa trovarsi
in un esperienza di paternità , poiché questa connota pura affermazione
di se stessa contro ogni affermazione dell’altro.
Ed allora l’universo dell’essere viene così configurato: “il
mondo era diviso per me in tre parti: nell’una vivevo schiavo, sottoposto
a leggi inventate solo per me e alle quali io, non so per quali ragioni, non
sapevo pienamente assoggettarmi; nella seconda, infinitamente lontano dalla
mia, vivevi tu, partecipe al governo, occupato a dare ordini e a irritarti
quando non erano obbediti; ed infine c’era un terzo mondo dove la gente
viveva felice e libera da comandi ed obbedienze” (pag. 648).
Vorrei attirare la vostra attenzione sull’ultima parte della citazione.
Kafka ipotizza qui la possibilità di una salvezza (cfr. Confessioni
e diari, ed. Mondadori, Milano 1972, pag. 794 “…il Signore
passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: costui
non rinchiudetelo più. Ora viene con me”) oppure prelude
già al gaio nichilismo contemporaneo come unica uscita di sicurezza? “Era
un congedo intenzionalmente prolungato che prendevo da te; solo che, da te
costretto, questo distacco volgeva però nella direzione da me voluta” (pag.
672). Quale direzione? Evidentemente da una paternità sperimentata come
negazione della propria esistenza spirituale ad una paternità come affermazione
della libertà senza alcuna estraneità (“figlio tutto ciò che è mio, è tuo”:
Lc. 15,31). Fu «presentimento» nell’infanzia, “poi
come speranza, più tardi ancora come disperazione” (pag. 672).
1,2. E’ singolare che il cammino percorso da Teresa di Gesù Bambino
sia esattamente lo stesso di quello di Kafka nelle prime tre tappe, nei primi
tre momenti sopra indicati. La divaricazione essenziale accade dal quarto momento
in poi. Questa divaricazione ora cercherò di descrivere.
Il punto di partenza di Teresa è la consapevolezza incredibilmente
intensa in una ragazza della sua età , della miseria umana da una parte,
e dall’altra della presenza nel cuore umano di desideri infiniti: il
filo d’erba assetato, di cui parla Agostino.
E’ in questa condizione che Teresa scopre la paternità di Dio
come unica soluzione vera per la ragione e buona per la libertà , al
problema posto dalla condizione paradossale dell’uomo. In che cosa consiste
questa scoperta? Quale è il suo contenuto?
Essa non consiste precisamente nella pura accettazione della propria debolezza,
che condurrebbe l’uomo o alla disperazione oppure alla visione pagana
della vita (creatura=limite) oppure al gaio nichilismo contemporaneo (mi accontento
della mia debolezza). Essa non consiste neppure nella unilaterale esaltazione
dell’Onnipotenza-Misericordia di Dio (come fece Lutero: la gloria di
Dio sulle ceneri dell’uomo!): questo distrugge l’uomo, come vide
chiaramente Kafka.
La scoperta della paternità di Dio consiste nell’incontro bruciante
delle due affermazioni suddette: paternità di Dio significa intrinseco,
naturale e libero orientamento di Dio a donare pienezza di essere al «vuoto» della
creatura; essere creatura significa riceversi completamente nella consapevolezza
del “povero nulla” della propria persona. La regione dell’essere
non è contesa da due abitanti estranei l’uno all’altro,
come in Kafka. Essa è la glorificazione dell’Amore che dona gratuitamente.
L’immagine che spaventava Kafka, e l’esperienza dalla quale egli
ha cercato, senza riuscirvi, di uscire con la professione e il tentativo di
matrimonio, diventa l’attrazione di Teresa: quella dell’infanzia
che si riceve interamente dal Padre. Essa, quindi, non connota nessuna falsa
mistica debolezza e nessun desiderio di annullarsi nella propria soggettività singolare
ed unica. Al contrario. E’ la risposta al problema della «geistige
Existenzbehauptung» o, nei termini di Teresa, al «voglio tutto».
Perché Teresa ha trovato questa risposta? Dove ha scoperto questa risposta?
Non è semplicemente una questione di pensiero, di sentimenti, di atteggiamenti,
di scelte.
“Detto altrimenti: paternità di Dio e infanzia dell’uomo
resterebbero irriducibilmente distanti – per quanto piccolissima si faccia
la creatura, per quanto ella voglia ciecamente abbandonarsi – se la «piccola
via», che si estende fra l’una e l’altra non fosse, in realtà ,
ontologicamente offerta in una concreta persona, essenzialmente filiale, la
cui duplice natura umana e divina garantisce lo scambio realizzato tra l'infinita
ricchezza di Dio e l’infinita povertà della creatura”.
[A.M. Sicari, La teologia di S. Teresa di Lisieux dottore della Chiesa, Ed.
OCD/Jaca Book, Milano 1997, pag. 449).
E’ solo nell’incontro con Cristo, l’Unigenito Figlio, che
noi alla fine scopriamo la paternità di Dio: “ Dio nessuno l’ha
mai visto [ecco la condizione dell’uomo – Kafka]; proprio il Figlio
unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv.
1,18). In Cristo noi scopriamo che il Mistero stesso di Dio è il mistero
di una natura posseduta in eterna consustanziale relazione paterna-filiale
nella comunione dello Spirito Santo: una relazione fatta tutta di dono. L’essere
del Padre è tutto e solo nel donare; l’essere del Figlio è tutto
e solo nel ricevere. E’ in questa relazione che ciascuno di noi è stato
pensato e voluto, come figlio: figlio nel Figlio. La filialità definisce,
alla luce della fede, la nostra costituzione ontologica.
2. CHI HA RAGIONE: KAFKA O TERESA DI LISIEUX?
L’esperienza di questi due grandi spiriti, se attentamente meditata,
ci conduce ad alcune domande fondamentali, ai «nodi teoretici» della
questione del Padre e dell’origine: nodi teoretici che decidono la risoluzione
ultima della verità dell’esistenza per l’uomo itinerante
nel tempo. Li richiamo brevemente.
2,1. Nella riflessione teoretica contemporanea (e moderna) è andata
completamente smarrita la verità della creazione. Non ho detto: l’affermazione
dell’atto creativo. Sto parlando dell’oscurarsi completo dell’intelligenza
della verità della creazione. Ciò è dovuto in ultima analisi
al rifiuto della ragione di passare dai fenomeni al fondamento: alla spiegazione
radicale e fondante dell’universo dell’ente. Ma non è su
questo che ora voglio attirare la vostra attenzione.
Dal punto di vista teoretico, la verità della creazione è il
punto di arrivo dell’esigenza metafisica che l’ente finito ha di
essere fondato radicalmente sull’essere infinito, pena altrimenti la
necessità o di negare ciò che l’esperienza attesta inconfutabilmente
o di affermare il contraddittorio. Il «dal nulla» che entra nella
definizione dell’atto creativo non indica altro che l’inconsistenza
fondamentale dell’ente finito se separato dalla causa del suo essere.
L’essere finito non presuppone all’atto creativo un soggetto o
materia di derivazione: da sé l’essere finito è puro
nulla. L’atto creativo lo pone in essere tutto. Nella creatura non c’è nulla
che non sia da Dio, ma tutto è da Dio perché da se stessa la
creatura è nulla. La creatura è dunque relazione al Creatore,
nel senso preciso che essa dipende totalmente nel suo essere da Dio.
2,2. Ma è qui che si pone un secondo nodo teoretico, che dal punto
di vista esistenziale è quello decisivo da sciogliere. Se questa è la
costituzione ontologica della creatura, essa allora è – nulla:
solo Dio è. Ricordate la figura di Kafka: l’universo dell’essere è come
una regione sulla quale il Padre è disteso ed occupa ogni posto.
L’essere di Dio e l’essere della creatura non sono univocamente «sommabili»:
Essere increato + essere creato = Essere totale. E’ in senso analogico
che parliamo di essere creato: la luce del sole non diviene più splendente
se cresce il numero degli oggetti illuminati. Questi non aggiungono nulla alla
luce del sole, dal momento che ricevono interamente da esso la loro luminosità :
non posseggono nessuna luminosità che non derivi loro dal sole.
La ragione che va alla ricerca ultima del fondamento scopre che la «logica» intima
dell’essere è ternaria: essere (principio di identità ),
ricevere (principio di causalità -partecipazione), donare (principio
di finalità ). La fede ci rivelerà che l’Essere è trinità di
persone. Hegel, pone una «logica binaria»: fenomeno-realtà ,
finito-Infinito, per cui l’essere finito non possiede nessuna consistenza
sino a quando non è pensato come necessaria manifestazione dell’essere
Infinito. Nel nichilismo attuale l’universo diventa universo di puri
dati dove non esiste più nessun Donatore.
“Non è più la situazione di esseri che sanno di non essere
l’essere ma di averlo avuto (…), e di averlo a loro volta per
darlo … Ormai la situazione è quella di esseri che assurdamente
si considerano come, uno per uno, posti, non si sa come, in assoluto, di contro
ad altri esseri che si considerano a loro volta posti in assoluto”
(G. Sommavilla, Il bello e il vero, ed. Jaca Book, Milano 1996, pag. 57).
2,3. E siamo così al terzo ed ultimo nodo teoretico della questione
del Padre: quello della libertà , della realtà di una libertà creata «di
fronte» alla libertà di Dio. La più grande analisi moderna
di questo problema è quella di S. Kierkegaard in La malattia mortale.
E’ possibile sul piano del pensiero, è realizzabile una vera libertà creata?
Tre sono le possibilità (a) Dire libertà creata è dire
circolo quadrato: è la risposta di Sartre. Non è pensabile l’affermazione
della libertà in una visione creazionistica. Ma questa affermazione
della libertà fatta a spese della verità della creazione costa
un alto prezzo: la negazione che l’uomo sia libero per qualcosa. E’ una
libertà in-sensata. (b) Dire libertà creata è dire libertà in
opposizione alla libertà increata o in schiavitù della stessa.
Ma questa affermazione della libertà conduce dove giunge Kafka: alla
morte della soggettività umana. (c) Dire libertà creata è dire
libertà del consenso dell’amore (libertà mariana)
sul piano della fede e libertà di teonomia partecipata sul piano della
ragione.
La verità della creazione ci mostra il volto di Dio rivolto alla persona
creata come eminente Amore-che-dona: il porre in essere è «donare
tutto». “L’«amore-che dona»: questo è il «Volto» con
il quale Dio «Ã¨ rivolto verso il contingente»” (F.
Rivetti Barbò, Dio Amore vivente. Lineamenti di teologia filosofica,
ed. Jaca Book, Milano 1998, pag. 102). Esso pertanto coinvolge eminentemente
la libertà creata.
“La creazione dal nulla esprime a sua volta che l’onnipotenza
può render liberi. Colui al quale io assolutamente devo ogni cosa, mentre
però assolutamente conserva tutto nell’essere, mi ha appunto reso
indipendente. Se Iddio, per creare gli uomini, avesse perduto qualcosa della
Sua potenza, non potrebbe più rendere gli uomini indipendenti”.
[S. Kierkegaard, op. cit., pag. 241]
CONCLUSIONE
La riflessione che abbiamo condotto, come avete potuto constatare, entra nel
dramma essenziale del destino umano. E non c’è dubbio che è stato
grande merito della modernità l’averlo fatto emergere con tale
intensità . E’ stato un percorso che ha avuto in molti come esito
la perdita dell’esperienza della paternità , e quindi della filialità .
E’ l’insidia più grave tesa all’uomo. Agostino aveva
già in percepito il «nodo» della questione:
“Credo in Dio Padre onnipotente. Come si fa presto a dirlo,
ma quanto è grande! Egli è Dio, egli è Padre; Dio per
la potestà , Padre per la bontà . Come siamo felici di avere come
padre il nostro Dio! Crediamo dunque in lui e tutto ci possiamo ripromettere
dalla sua misericordia perché egli è l’Onnipotente: noi
infatti crediamo in Dio Padre onnipotente”.
[Discorso 213,2; NBA XXXII/1, pag. 205]
Gli fa eco S. Kierkegaard, che pure visse un’esperienza col suo Padre
terreno che richiama quella di Kafka:
“Soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre
si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui
che riceve. L’onnipotenza di Dio è perciò identica alla
sua bontà . Perché la bontà è di donare completamente
ma così che, nel riprendere se stessi in modo onnipotente, si rende
indipendente colui che riceve”
(l.c. pag. 240)
E’ in questa «sintesi» di paternità -onnipotenza tutto
il mistero della nostra origine.