il vescovo : riflessioni alla scuola di S.Ambrogio

Teatro comunale di Imola

Premesse

Questo mio intervento è motivato e giustificato soltanto dal desiderio di associarmi a voi nell’esprimere al vostro vescovo Giuseppe le felicitazioni e ogni affettuoso augurio nell’occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio. A lui mi lega un sentimento di sincera stima e di fraterna amicizia, oltre alla connessione sacramentale della sua ordinazione, da me presieduta nella cattedrale di Forlì, il 10 settembre 1989.

Mi è stato opportunamente suggerito di proporre qualche riflessione sulla figura del successore degli Apostoli entro il contesto della vita ecclesiale. Dal canto mio, ho pensato di farmi aiutare in questo compito dall’insegnamento e dall’esempio di sant’Ambrogio.

Tale scelta ha una ragione personale. Essendomi capitato di dover fare, per così dire, l’editore dell’Opera omnia del santo vescovo milanese, sono stato costretto a leggerne gli scritti. E si sa che a ognuno piace parlare delle cose che egli particolarmente conosce. Non dico solo di quelle, aggiungerebbe il Manzoni.

D’altronde, sant’Ambrogio non è un estraneo per voi: la sua “sollecitudine per tutte le Chiese” (cf 2 Cor 11,28) è arrivata fin qui. Scrivendo a Costanzo – un giovane vescovo, forse di Claterna, forse (e più verosimilmente) di Faenza – egli così si esprimeva: “Ti affido, figlio, la Chiesa che è in Imola <ad Forum Cornelii>, perché – dato che sei vicino – tu la visiti con una certa frequenza, fino a che per essa sia ordinato un vescovo. Io, occupato come sono per l’imminenza della quaresima, non posso spingermi così lontano” (Epistula 36, 27).

Perciò in questo incontro lasceremo parlare sopprattutto lui. Il che renderà le cose più facili per me e più fruttuose per voi. Sarà una piccola raccolta quasi rapsodica – senza pretesa di organicità e completezza – di alcuni pensieri ambrosiani sul tema che ci interessa.

L’amicizia tra vescovi

Per prima cosa mi farò confermare e incoraggiare nel valore dell’amicizia, specialmente sacerdotale, che è in fondo la vera causa della mia presenza di stasera.

Ambrogio così la raccomandava ai suoi presbiteri: “Conservate, o figli, l’amicizia che avete stretta coi vostri fratelli, perché è la più bella tra le cose umane” (De officiis III,132).

Egli per primo la coltivava coi suoi confratelli nell’episcopato, come dimostra questa bellissima lettera al vescovo di Como, Felice, che era stato ordinato a da lui:

“Ero fisicamente indisposto, ma quando ho letto le parole dettate dal tuo cuore, sono stato non poco aiutato a rimettermi in salute. Sono stato rinvigorito, per così dire, dalla dolcezza delle tue espressioni, e al tempo stesso dall’annuncio datomi che è prossimo il giorno (memorabile per entrambi), nel quale hai preso il timone del sommo sacerdozio.

“Ne parlavo poco fa col nostro fratello Bassiano <vescovo di Lodi>. Il discorso era cominciato a proposito della dedicazione della basilica da lui eretta in onore degli Apostoli, e si era finito col parlare di te, poiché egli mi diceva di desiderare vivamente la tua santa presenza per quell’occasione.

“Allora io introdussi nella conversazione un accenno al tuo anniversario, che sarebbe caduto proprio al primo novembre. Era quindi ormai prossimo e, salvo errori, sarebbe stato celebrato l’indomani. Sicché per il tempo successivo non avresti avuto scuse. Perciò ho promesso per te, perché anche tu nel caso puoi fare altrettanto per me…Presumo infatti che anche tu verrai, perché non puoi mancare.

“D’altra parte, la mia promessa non ti obbligherà più del tuo consueto modo di agire, perché è tua norma fare sempre ciò che si conviene. Devi cioè renderti conto che nell’assumere quell’impegno con un fratello sono stato non tanto audace nel promettere, quanto buon conoscitore del tuo animo. Vieni insomma, perché se no dovrai rimproverare due vescovi: te, perché non sei venuto; e me, perché sono stato troppo facilone nel promettere.

“Io accompagnerò il tuo giorno anniversario con le mie preghiere, e tu nelle tue non dimenticarti di me” (Epistula 5,1-3).

Ma indirizzato allo stesso vescovo Felice, c’è un altro biglietto davvero delizioso che ci rivela, oltre l’affetto, anche l’umanità di questi antichi santi, padri e maestri della nostra fede:

“Mi hai mandato dei tartufi, e per giunta di straordinaria e stupefacente grossezza. Non ho voluto tenermeli nascosti in grembo, come si suol dire, ma ho voluto mostrarli anche agli altri. Sicché ne ho dovuto destinare una parte agli amici e una parte l’ho tenuta per me.

“Regalo certo gradito il tuo; non tale però da impedire il mio giusto lamento, perché da tanto tempo neanche ti sogni di farmi visita, nonostante l’affetto che nutro per te. Non credere di poter compensare la lunga assenza coi tuoi regali o di potermi comperare con i tuoi doni.

“Sta sano e cerca di volermi bene, come te ne voglio anch’io” (Epistula 43, 1-3).

Senso di responsabilità

Ambrogio ha vivissimo il senso della rilevanza della missione episcopale, e particolarmente dei doveri di magistero che essa comporta. E non dimentica che, strappato improvvisamente e controvoglia alla sua attività di magistrato e di uomo politico, egli non ha avuto modo di prepararsi adeguatamente. Ma è fiducioso che il Signore non lo lascerà senza aiuti, dal momento che un vescovo non può rifuggire dall’insegnare la verità divina.

“Strappato dai tribunali e dalla magistratura ed eletto all’episcopato, ho cominciato ad insegnarvi ciò che io stesso non avevo imparato. E’ accaduto quindi che cominciassi a insegnare prima che ad imparare. Adesso devo perciò imparare e insegnare nello stesso tempo, dal momento che non ho avuto modo di istruirmi in precedenza” (De officiis I,4).

Egli dunque affronta la predicazione con un atteggiamento di umiltà e di acuta consapevolezza dei suoi limiti; ma anche con animo sereno, tanto che può con umorismo paragonarsi all’asina di Balaam, che per la presenza di un messaggero celeste è divenuta eloquente (cf Nm 22,28-30): “Diffidando del mio ingegno, ma stimolato dagli esempi della misericordia divina, oso esprimere le mie riflessioni: infatti per volere di Dio anche un’asina ha parlato. Se mi aiuterà un angelo, pur trovandomi sotto il basto di questa esistenza mondana, anch’io scioglierò la lingua rimasta a lungo muta. Perché colui che in quell’asina sciolse gli impedimenti della natura, può sciogliere altresì quelli dell’impreparazione” (De virginibus I,2).

Conosciamo però il grande impegno con cui si accingeva alla predicazione e vi si predisponeva anche remotamente.

Era straordinaria la consuetudine che quotidianamente intratteneva con la Sacra Scrittura, a cominciare dall’AnticoTestamento, che nei suoi testi egli richiama in tutte le sue pagine con dovizia di citazioni. Si aggiornava continuamente sugli scritti dei grandi teologi greci, favorito in questo dalla perfetta padronanza della loro lingua. E riversava poi questo patrimonio di sapienza in una ammirevole latinità, che affascinava e incantava anche un professore di letteratura ancora miscredente come Agostino.

Per tutta la vita egli sentirà fortissimamente la responsabilità di essere vescovo e sempre invocherà dal Signore la grazia della perseveranza.

Non si può leggere senza commozione l’applicazione che egli fa alla sua vicenda personale di ciò che secondo il racconto evangelico è avvenuto a Lazzaro, ancora quindici anni dopo la sua anomala e fortunosa vocazione al sacerdozio:

“Possa tu degnarti di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe!…Chiama dunque fuori questo tuo servo. Quantunque, stretto nei vincoli dei miei peccati, io abbia avvinti i piedi, legate le mani e sia sepolto nei miei pensieri e nelle mie opere morte, alla tua chiamata uscirò libero e diventerò uno dei commensali al tuo convito. E la tua casa si riempirà di prezioso profumo, se custodirai quello che ti sei degnato di redimere.

“Ci sarà certo chi dirà: ‘Eccolo lì, quello che non è stato allevato in grembo alla Chiesa, non è stato domato fin da ragazzo, ma è stato trascinato a forza dai tribunali, strappato dalle vanità di questo mondo; quello che, abituato un tempo alla voce del banditore, ha dovuto poi avvezzarsi al cantico del salmista: rimane nell’episcopato non per suo merito, ma per grazia di Cristo, e siede tra i commensali della mensa celeste’.

“Conserva dunque, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto nonostante che io ne rifuggissi. Io sapevo infatti di non essere degno di essere chiamato vescovo, perché mi ero dato a questo mondo. Ma per tua grazia sono ciò che sono, anche se sono senz’altro l’infimo e il meno meritevole tra tutti i vescovi. Tuttavia, siccome anch’io ho affrontato qualche fatica per la tua santa Chiesa, proteggine il risultato. Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quand’era perduto, hai chiamato all’episcopato” (De paenitentia II,71-73).

Cristocentrismo

Il centro della spiritualità episcopale di Ambrogio e il segreto della sua fecondità pastorale è senza dubbio la sua passione per il Signore Gesù: egli è letteramente un innamorato di Cristo.

Il Figlio di Dio crocifisso e risorto non è soltanto l’argomento quasi unico delle sue riflessioni: è anche l’interlocutore principale dei suoi discorsi. Quale che sia il tema della pagina che sta stendendo, si rivolge spesso direttamente a lui come per una naturale e invincibile propensione, e ogni sua considerazione diventa spontaneamente un colloquio con il suo Signore.

Gesù ha ai suoi occhi un’indole totalizzante: l’intero universo trova in lui il suo “seme” (In psalmum 43,39:”semen omnium Christus est”), il suo “capo” (In psalmum 61,18: “caput omnium Christus”), il suo compendio. E questo semplifica e riduce a unità l’intera sua vita spirituale: “Poiché ho Cristo, pur avendo nulla, ho tutto…Tutto c’è in Cristo, in virtù del quale tutto esiste e nel quale tutto sussiste. Avendo tutto in lui, non cerco altro guadagno, perché è lui il guadagno di ogni cosa” (De interpellatione David III,28).

Le citazioni su questo argomento si potrebbero moltiplicare all’infinito. Ma è per noi qui più urgente rilevare con quale attitudine interiore egli si pone di fronte alla comunità che gli è stata affidata.

La connessione esistenziale con la sua Chiesa

La Chiesa è ormai la sua famiglia, ed egli è perfino ardito nell’affermare i vincoli strettissimi che lo legano irrevocabilmente al popolo dei credenti.

In un anniversario della sua ordinazione così si rivolge ai milanesi che a tutti i costi l’avevano voluto come loro pastore:

” ‘Onora tuo padre e tua madre’. E’ bello per me che si legga questo passo della legge, oggi che è il giorno natalizio del mio episcopato; sembra quasi che il mio sacerdozio ogni anno cominci da capo e si rinnovi col succedersi delle stagioni.

“E’ bello che si legga proprio: ‘Onora tuo padre e tua madre’, perché voi per me siete come i genitori, voi che mi avete portato all’episcopato. Anzi siete al tempo stesso miei figli e miei genitori: uno per uno figli, tutti insieme genitori.

“Effettivamente con tutto il cuore vi vorrei chiamare sia miei figli sia miei genitori. Figli, perché sta scritto: ‘Venite, figli, ascoltatemi’; genitori, perché il Signore ha detto: ‘Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica’” (In Lucam VIII,73).

Il vescovo non ha altra ricchezza o altra speranza di guadagno, come dice in un’altra occasione:

“Voi siete tutto per me: voi siete l’interesse che si ricava dai prestiti, voi siete il reddito dell’agricoltore, voi siete l’oro, l’argento e le pietre preziose del costruttore. Nei vostri meriti sta tutto lo scopo delle fatiche sacerdotali, nei vostri animi risplende il frutto del lavoro del vescovo, nei vostri progressi brilla l’oro del Signore, viene moltiplicato l’argento, se conservate in voi le parole divine…Voi dunque mi renderete ricco come un banchiere, pieno di frutti come un buon coltivatore, stimato come un sapiente architetto. E non parlo da presuntuoso, perché non sto elencando le mie benemerenze, ma quelle che spero siano le vostre” (De fide V,9).

Quella del pastore è una dedizione che lo porta quasi a identificarsi col gregge e a farsi carico di tutte le sue vicende, penose o liete che siano.

“Il vescovo – dice sant’Ambrogio – corre pericolo per tutti, è angosciato per quanti sono stretti da difficoltà. Egli sopporta nella sua persona le sofferenze degli altri; e quando sono liberati coloro che versano in pericolo, è liberato anche lui” (De obitu Theodosii 36).

Le sue preoccupazioni per il bene di questa sua Chiesa sono multiformi e vanno saggiamente armonizzate. “Al vescovo soprattutto tocca adornare il tempio di Dio con giusto decoro, perché con la sua cura faccia risplendere la casa del Signore. Ma deve anche impegnarsi nell’esercizio della misericordia; deve elargire ai forestieri quanto è opportuno e appropriato, fornendo aiuti non sovrabbondanti ma conformi ai dettami dell’umanità. E con il suo clero non deve essere né troppo severo né troppo indulgente” (De officiis II,111).

Coraggio e libertà di parola

Rispettoso dell’autorità, Ambrogio non ha timore, per difendere la vita religiosa della sua gente, a esprimersi nei confronti del potere politico con una franchezza fino allora inaudita, che è rimasta esemplare.

“Non si addice a un imperatore – scrive a Valentiniano II – negare la libertà di parola né a un vescovo tacere ciò che pensa…Questa è la differenza che c’è tra i prìncipi buoni e quelli cattivi: i buoni amano la libertà, i cattivi la schiavitù. E in un vescovo non c’è nulla di così rischioso davanti a Dio e di così vergognoso davanti agli uomini quanto il non proclamare apertamente il proprio pensiero” (Epistula 74, 2).

Con questa chiarezza, egli stabilisce per la prima volta dei precisi confini all’assolutismo statale, deducendoli dal primato di Dio e dall’autonomia della Chiesa nel suo campo:

“Mi si dice che all’imperatore tutto è lecito, che egli è padrone di tutte le cose, nessuna esclusa. Ebbene io rispondo: Non assumerti la responsabilità, o imperatore, di credere di avere qualche diritto sovrano sulle cose che appartengono a Dio. Non montare in superbia; ma, se vuoi regnare più a lungo, sii soggetto a Dio, poiché sta scritto: ‘Date a Dio ciò che è di Dio, date a Cesare ciò che è di Cesare’. All’imperatore spettano i palazzi, al vescovo le chiese. A te è stato affidato il diritto sugli edifici pubblici, non su quelli sacri” ( Epistula 76,19).

Generosità e saggezza

Paolino, suo segretario ricorda che egli fu “straordinariamente sollecito dei poveri e dei prigionieri; e quando fu ordinato vescovo diede alla Chiesa e ai poveri tutto l’oro e l’argento che possedeva. Anche i poderi di sua proprietà donò alla Chiesa, riservandone l’usufrutto alla sorella, e non tenendo per sé nulla che potesse dire suo” (Vita Ambrosii 38,4-5).

Ma nell’amministrazione del denaro era equilibrato e senza complessi. Non aveva difficoltà a parlare di soldi anche in chiesa: a testimonianza di Agostino, che lo aveva personalmente ascoltato, non esitava a sollecitare nelle prediche la generosità dei fedeli per le spese di culto (cf Possidio, Vita Augustini 24,17).

In particolare, non riteneva che ci fosse tra i doveri degli ecclesiastici anche quello di lasciarsi imbrogliare.

Per esempio, l’amministratore dei beni che la sua famiglia possedeva in Africa – un certo Prospero – si era molto rallegrato per la notizia della elevazione di Ambrogio all’episcopato, perché riteneva di potersi tenere tutto per sé e di “non restituire ciò di cui si era appropriato”. Ma si vede che non conosceva il novello vescovo, il quale gli invia subito il fratello Satiro (e non era un viaggio da poco) con l’incarico, che viene brillantemente assolto, di mettere bene in regola tutti i conti e di riscuotere tutto il dovuto (cf De excessu fratris I,24).

Sempre a questo proposito, sono ancora di viva attualità i consigli che il vescovo dà ai suoi preti per il giusto e prudente esercizio della carità:

“La liberalità deve avere un limite per evitare generosità inutili. Specialmente i sacerdoti devono usare criterio, in modo da distribuire non per esibizione ma con senso di giustizia, perché con nessun altro c’è maggior avidità di richieste come con loro.

“Si presentano uomini robusti, vagabondi di professione che vogliono carpire i sussidi dei veri poveri e dare fondo ai mezzi disponibili. Non contenti del poco, esigono sempre maggiori aiuti, cercano di ottenere soddisfazione alle loro pretese, ostentando abiti dimessi; e, falsando la loro condizione familiare, si sforzano di far salire il guadagno. Se si presta loro fede, si esauriscono in un batter d’occhio le riserve destinate al mantenimento dei bisognosi.

“La distribuzione dell’elemosina abbia un limite così che nessuno se ne vada a mani vuote; ma neppure diventi preda di imbroglioni ciò che è riservato alla sussistenza degli indigenti. La misura sia dunque tale che non venga mai meno un senso di umanità, e la vera necessità non resti senza aiuto.

“Ci sono poi moltissimi che fingono di avere debiti: si accerti la verità. Altri si dicono vittime di furti: ne facciano fede o la costatazione del danno patito o la conoscenza della persona” (De officiis II, 76-77).

Buon senso e concretezza

Come si vede, Ambrogio era un pastore di gran buon senso e di molta esperienza.

Sant’Agostino – ce lo riferisce il suo biografo Possidio – ancora nella sua vecchiaia “ripeteva che nella vita e nella condotta di un uomo di Dio deve essere osservata la norma che egli aveva imparato dall’insegnamento di Ambrogio di santa memoria. E cioè: non chiedere mai moglie per nessuno, non raccomandare nessuno che volesse un posto nelle cariche pubbliche, non partecipare a banchetti nella propria città.

“Di ognuno di questi comportamenti dava le seguenti ragioni: perché nel corso dei loro litigi i coniugi non maledicessero il vescovo che li aveva messi insieme…; perché, nel caso che il raccomandato per un pubblico impiego si comportasse male, non se ne desse colpa a chi l’aveva raccomandato; perché, frequentando conviti tra i propri concittadini, non andasse perduta la linea di sobrietà che ci si era proposti di seguire” (Vita Augustini 27,4-5).

Si potrebbe spigolare ancora a lungo tra le testimonianze e gli scritti che sono arrivati fino a noi. Ma a questo punto mi parrebbe più utile e conclusivo delineare sinteticamente, per quel che ci riesce, la sua figura di pastore e l’indole del suo episcopato.

Un “capo” forte e umano

Entrato inopinatamente nel sacerdozio dalla carriera dello stato, Ambrogio continuò a essere uomo di governo, nel senso migliore e più intenso del termine. Certo, uomo di un governo ben diverso di quand’era “consularis” – rappresentante dell’imperatore – della Liguria e dell’Emilia (un territorio che comprendeva anche le regioni attuali della Romagna, del Piemonte e della Lombardia). Ma non per questo meno costituito in autorità, sia pure di un’autorità “apostolica” e “pastorale”, e non per questo meno cosciente di essere un “capo”, responsabile primo di una comunità di uomini affidati alle sue cure.

Benché fosse gracile e di non eccelsa statura, tutti hanno sùbito colto in nei suoi atti e nelle sue parole un’energia che non si affievoliva, anzi si accresceva nelle difficoltà, e un coraggio che gli consentiva di resistere impavido a ogni prepotenza.

Eppure questa attitudine virile si accompagnava in lui a una dolcezza di temperamento, che lo rendeva facile a commuoversi davanti a ogni tipo di miseria umana, e gli consentiva tra l’altro di essere un delicato e comprensivo indagatore dell’animo femminile.

Molteplicità di attenzioni

Il suo episcopato si caratterizza per la molteplicità delle sue attenzioni, senza arbitrarie preclusioni e senza accentuazioni ideologiche.

Per la carità non esitava a compiere anche gesti insoliti, che gli attiravano incomprensioni: “Una volta – scrive – sono stato aspramente criticato perchè avevo spezzato i vasi sacri per avere di che riscattare i prigionieri… In quell’occasione ho preferito consegnarvi degli uomini liberati che tenere sotto chiave al sicuro il vostro oro. La folta schiera dei prigionieri tornati a libertà mi è parsa cosa più bella della bellezza dei calici” (De officiis II,136,139).

Ma gli sta molto a cuore anche la magnificenza dei luoghi sacri. E’ stato un costruttore grande e geniale di edifici destinati alla celebrazione dei divini misteri. Erige basiliche ampie e ammirevoli come la “basilica apostolorum” (San Nazaro) e la “basilica martyrum” (Sant’Ambrogio). E dà alla sua cattedrale un battistero insigne, dove Agostino sarà rigenerato alla grazia.

Attende personalmente ogni anno alla iniziazione dei nuovi cristiani e alla loro formazione catechetica. A questo proposito Paolino, suo segretario e biografo, arriva a scrivere: “Era resistentissimo nel compiere i sacri riti, al punto che dopo la sua morte a stento cinque vescovi riuscivano a compiere quello che lui era solito compiere da solo nella cura dei battezzandi” (Vita Ambrosii 38,3).

L’ideale di una Chiesa “piena”

Sant’Agostino ha una parola forte e significante nel definire la comunità cristiana che fioriva sotto il magistero e il ministero di Ambrogio: “Videbam plenam Ecclesiam, et alius sic ibat, alius autem sic” (Confessionum VIII,1,2). Il giovane intellettuale pieno di problemi morali e di dubbi a Milano si è imbattuto in una Chiesa “piena”, che in virtù di questa sua “pienezza” consentiva ai suoi membri itinerari diversi, ciascuno secondo il suo dono.

Era un popolo che aveva trovato in Ambrogio una guida dalle qualità eccezionali, e si manteneva con lui in perfetta comunione di intenti e di sentimenti. Guidato da lui combatteva la battaglia per l’integrità della fede, contro l’insidia ariana che cercava di scoronare Cristo dell’aureola della divinità. Affascinato dalle sue composizioni poetiche e musicali, sapeva cantare le lodi di Dio anche nelle ore più difficili e alimentava la sua ricchezza spirituale andando alla scuola della genialità liturgica del suo vescovo.

La Chiesa di Ambrogio è una Chiesa “piena”, lieta e certa nella sua fede cattolica, educata sia ad apprezzare la santità dell’amore coniugale sia a esaltare il dono della verginità consacrata. Una Chiesa che riscopre la memoria dei suoi martiri e ne ravviva il culto. Una Chiesa che possiede altresì una “pastorale della cultura”, con l’attività di un circolo neoplatonico animato dal presbitero Simpliciano, oltre che con la sapiente e prudente utilizzazione degli antichi scrittori pagani da parte del suo vescovo.

E’ una Chiesa che vive intensamente il comando evangelico della carità, preoccupandosi di tutte le situazioni di emergenza, ma – come s’è visto – non ha alcun dubbio sull’opportunità di predisporre costruzioni anche vaste e solenni, per la gloria di Dio e per la miglior vita ecclesiale dei suoi figli.

Conclusione

Ambrogio è stato un vescovo assolutamente eccezionale, che ha avuto un’attività pastorale davvero inimitabile.

Ma c’è qualcosa che ogni vescovo può e deve imparare da lui; ed è lo spirito con cui ha atteso alle sue fatiche ministeriali. Egli ha fatto tutto, ispirato da un amore instancabile e totale per la sua gente, che poi non lo ha dimenticato più. Anzi Ambrogio ha fatto tutto nell’intento di far arrivare efficacemente alla sua Chiesa, incarnato in una intelligente azione pastorale, lo stesso amore salvifico del suo Signore.

La parola stupenda con cui egli chiama il Principe degli Apostoli conviene certo anche a lui; ma deve convenire altresì a ogni successore degli Apostoli. Il vescovo, entro la famiglia di credenti che ha ricevuto in consegna è, prima e più che ogni altra cosa: “vicario dell’amore di Cristo” (cf In Lucam X,175).

Per inverare questa sua intrinseca vocazione ad amare, ogni vescovo è l’araldo instancabile del Vangelo, cioè della “buona notizia”; la notizia antica e sempre nuova che è la sola capace di ridare agli uomini una solida ragione di speranza.

E’ giusto allora che tutta la comunità cristiana preghi per lui, perché la sua voce non si affievosca e non tremi, e perché egli non si stanchi di invitare tutti, anche i più lontani e riottosi, a entrare nel bellissimo gioco di Dio.

Al tempo stesso, tutta la comunità cristiana che si mantiene in comunione col proprio vescovo si deve rendere sempre più consapevole di essere necessariamente coinvolta con lui nella sua meravigliosa avventura e nella sua stessa missione: quella di far arrivare la verità e la grazia del Signore Gesù alla mente e al cuore di ogni uomo, perché ogni uomo possa alla fine conoscere e accogliere liberamente il destino di gioia e di luce che è stato pensato per lui.

16/05/2000
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