Messa alla Tre giorni del clero

Quanta gioia ritrovarci insieme qui a San Domenico, a contemplare la comunione tra noi, con le nostre comunità e con questo fratello e maestro! Domenico ci aiuta a scoprire e riscoprire la storia e la bellezza della nostra Chiesa e di ogni nostra comunità. Lui e i suoi frati sono un dono antico e recente per tutta la nostra città, in maniera evidente e misteriosa, secondo l’energia dello Spirito. Le sfide che San Domenico affrontava non erano diverse da quelle di oggi.

Ci aiuta a superare pessimismi, rinunce o presunzioni. Alla sua epoca Bologna e l’Europa vivevano una mini globalizzazione in atto. Era possibile incontrare qui gente straniera, probabilmente con i problemi che questo sempre provoca. La sua comunità accoglie varie provenienze, come raffigurato nella tavola della Mascarella. Anche il nostro mondo è in transizione, con tanta conseguente incertezza, con la paura che fa guardare al passato e conservare, ma anche con il desiderio e la gioia di costruire il futuro. Domenico era solo un frate e come tale si voleva presentare ed essere ricordato. Non aveva bisogno di altro. Si pensava non da solo ma con la sua comunità.

Chi parla di lui parla sempre della comunità e sempre con gioia, nell’intimità fraterna della tavola. Lui si pensava solo come un membro della comunità, uno dei compagni. La sua prima biografia è contenuta nelle Vitae Fratrum, insieme agli altri, perché è il tutto che dona senso alla parte. Molti convengono che al tempo di San Domenico e nei luoghi da lui scelti, le università, vi era un senso emergente di fraternità universale. Giordano di Sassonia lo descriveva così: «Poiché amava tutti, era amato da tutti». La fraternità arriva dappertutto e permette presenze e relazioni altrimenti impensabili, cambia i cuori, addolcisce gli animi, trasforma, comunica energia. Il suo carattere era “gioviale, accogliente, paterno”, sapeva essere “duro come un diamante e tenero come una mamma”, e si confronta con i poveri e ad essi si relativizza perché “non potevo studiare su pelli di animali morti, quando i miei fratelli che sono vivi, muoiono di fame”.

Rispose alle obiezioni del vescovo Folco, che non voleva mandasse i suoi primi frati a studiare a Parigi e a Bologna: “So quello che faccio. Il grano ammassato ammuffisce, seminato porta frutto”. Ecco perché, come suggerisce Timothy Radcliffe, il cristianesimo oggi potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei nostri contemporanei, presentarlo non come un codice morale ma come uno stile di vita, coinvolgere in un’avventura radicale e non una spiritualità gentile. È facile cercare altri codici morali, soluzioni che ci offrano rapidamente la risposta e che con fatica accettano di lasciare fare allo Spirito. Nei cambiamenti ci interroghiamo sul senso del nostro servizio, soprattutto, mi sembra, su che senso hanno le nostre scelte se facciamo qualcosa che potrebbe fare chiunque. Desideriamo che tutti vivano il sacerdozio del popolo di Dio: non ne siamo gelosi, ma contenti. Davvero fossero tutti profeti! Ma noi siamo, come Domenico, le nostre comunità, le viviamo, le sentiamo come la nostra famiglia, ci pensiamo totalmente per esse e per questo abbiamo promesso il dono di tutto noi stessi, presidiamo nella comunione e con comunione. L’Eucarestia, che davvero ne è il centro e il fulcro, accoglie sempre tutti quei molti per cui Gesù spezza e offre se stesso. Con la nostra vita personale e insieme, dentro e dietro le nostre comunità, li andiamo a cercare.

Siamo per prima cosa uomini di preghiera. Solo così possiamo riconoscere la preghiera nascosta nel cuore degli uomini. La preghiera è sempre larga, per tutti, intercede per le doglie di quel parto così pieno di sofferenze che fa gemere tutta la creazione, prega per i re e per quelli che stanno al potere, cioè fa sua l’intercessione di tutta la nostra città degli uomini “perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”. Per pregare e alzare al cielo mani pure bisogna liberarsi dalla collera e dalle contese ed è l’impegno a cambiare il nostro cuore. C’è un legame stretto tra la qualità della nostra preghiera e la qualità delle nostre relazioni e una nutre l’altra, perché l’affidarsi a Dio riempie il cuore dello Spirito e lo affranca dalla miseria della nostra e della umanità degli altri.

Riconosciamo anche noi la fede di questo centurione, pagano, lontano, ignorante di cose religiose eppure sorprendentemente maestro di fiducia? Ci interroga tanto la sofferenza, quella per cui “non c’è perché”, forse dobbiamo dire le sofferenze, che segnano molto più di quanto l’ingannevole benessere fa credere, comprese quelle dell’anima e della psiche, dolorose e invisibili, certo anche infragilite da troppa medicalizzazione e dalla inconsistente e poco responsabile fraternità.

Dobbiamo permettere che emergano, che arrivino a noi, che ci coinvolgano. La sofferenza inquieta tutti, anche se il nostro mondo sembra chiudere le domande, scappare dal dolore anestetizzando tutto con il benessere. Quel centurione sente parlare di Gesù. Ecco perché parlare sempre di Lui con la nostra vita, come don Fornasini che andava dappertutto senza aspettare ed era cercato da tutti proprio per la sua disponibilità. Certo, il centurione non riconosce immediatamente tutto del Signore! Lui ci insegna a credere che la Parola è sempre efficace, anche se non lo vediamo immediatamente, lo controlliamo secondo le nostre convinzioni.

Lo possiamo fare se noi stessi non abbiamo confini, se parliamo con tutti, superiamo i pregiudizi, i limiti, se siamo leggeri nella sensibilità per gli altri, anzi siamo ali che fanno volare, che aiutano ad andare in alto, noi che abbiamo ricevuto il dono di volare più in alto, di cercare Dio, l’amore, di distaccarci dai sentimenti, dalle abitudini di sempre. Il prete non è mai senza gli altri, non vive di autosufficienza: è come la campana della chiesa che suona e che ama gli altri, è l’uomo del “noi”. Non deve dire tutto, ma tutto con amore. Possiamo in questo tempo così difficile cogliere la tanta sofferenza e farla incontrare con la speranza di Gesù, attraverso la nostra predicazione e la predicazione della nostra vita, che fanno sentire compresa la vita di chi ci ascolta e rendono vicina la misericordia di Dio, attraente e umana la sua verità. “Se impariamo a leggere i volti, in tutta la loro complessità umana, vedremo il volto di Dio cento volte al giorno” ci dirà Timothy.

L’amore ce lo affida Gesù. Oggi ricordiamo san Giovanni Crisostomo. Scriveva: “È venuto a prendere come sposa una prostituta. Se dico com’è sporca è perché tu riconosca l’amore folle dello sposo. Questo suo amore folle non esige il regolamento dei conti per i peccati, ma perdona trasgressioni ed offese. È amore folle perché ama anche quello che è difforme, la ama follemente e la fa creatura nuova. Come un pastore la pasce, come uno sposo la prende in moglie, come un altare si sacrifica per lei, come sposo la conserva nella bellezza e come sposo si preoccupa del benessere di lei. O sposo che rendi bella la difformità della sposa!”.

Ecco, questo amore folle, di più delle nostre ragioni e paure, è l’amore che ci salva e che ci è affidato.

Bologna, basilica di San Domenico
13/09/2021
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