messa crismale

Bologna, Cattedrale

Il tema – quasi il protagonista – del rito che oggi qui ci raduna è l’olio: questo regalo, questa benedizione per i figli dell’uomo, questo prodotto dell’antica pianta dell’ulivo.
L’olio è sempre inteso dalla parola di Dio come il segno della gioia; non di una gioia esteriore e chiassosa ma della gioia più intima e vera; quella dell’animo che si lascia permeare e si imbeve della luce e della grazia del Signore, “olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto” (Is 61,3), ci ha detto il profeta.

Noi, che abbiamo ricevuto la pienezza della Rivelazione, possiamo cogliere il senso del simbolo a una profondità ancora maggiore: nell’olio – che incontriamo nella celebrazione del battesimo, della cresima, dell’ordine, del sacramento dei malati – ravvisiamo la ricchezza soave e penetrante dello Spirito Santo; lo Spirito che, colmando di sÈ l’umanità di Cristo, trabocca poi su quanti formano con Cristo un unico corpo: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto” (Gv 1,16).
Il Dono pentecostale, del resto, è la calda e ineffabile felicità della vita trinitaria che, comunicandosi, diventa la nostra stessa allegrezza. Perciò san Paolo individua nella gioia – unitamente all’amore e alla pace – il primo frutto dello Spirito che ci viene elargito (cf Gal 5,22). Perciò gli Atti degli apostoli ci dicono che i discepoli di Gesù sono “pieni di gioia e di Spirito Santo” (cf At 13,52).

Il capolavoro dello Spirito Santo è la persona adorabile del Figlio di Dio divenuto Messia e pontefice della Nuova Alleanza, il quale ci è stato inviato proprio per dare finalmente un “lieto messaggio” a tutta la povertà e tristezza umana (cf Lc 4,18).
Il “lieto messaggio” è lui stesso, il “consacrato dallo Spirito”; è lui, il Signore Gesù, la gioia dell’universo. Egli è l’amore del Padre, reso visibile e testimoniato fino alla morte di croce: quella morte che con fede commossa contempleremo nella liturgia di domani.
Noi cristiani – noi che costituiamo tutti un “regno sacerdotale” (cf Ap 1,6), consacrati con Cristo dall’unzione dello Spirito, consacrati anzi dalla sua stessa consacrazione – da lui abbiamo ricevuto non solo una “buona notizia”, ma anche una sostanziale eredità di esultanza.

La nostra gioia nasce dal saperci amati oltre ogni misura. Ed è una gioia che chiede poi di ampliarsi – ampliarsi più della piccolezza del nostro essere – nella contentezza imparagonabile di riamare sopra ogni cosa colui che così grandemente e inspiegabilmente ci ha amati.
Nessuna consolazione mi può essere data – ciascuno di noi lo può dire – della “novità” che ancora una volta risonerà nella liturgia di questi giorni: il Figlio di Dio ha steso le braccia sulla croce per la mia salvezza e, risorgendo, è salito al Padre portando il mio nome nel cuore.

Di questa misericordia del Signore – di questa fortuna del popolo dei credenti – noi che siamo costituiti nel ministero apostolico siamo, dobbiamo essere, gli instancabili evangelizzatori.
Proprio per questo siamo qui radunati alla soglia del sacro triduo: perchÈ si faccia più limpida e acuta in noi la consapevolezza di quanto sia bella e rilevante nel disegno del Padre la nostra vocazione di annunciatori – ai fratelli e a tutti – della gioia pasquale.
La gioia pasquale è un’energia che attraversa e rinnova il mondo, ma non viene dal mondo. Può sì lievitare e impreziosire tutti i valori umani; ma non trova in essi nÈ la sua fonte, nè la sua garanzia nè il suo nutrimento. Essa scaturisce dalle profondità dell’amore di Dio e, mediante l’effusione pentecostale, penetra nella storia dell’umanità, pervade le vicende dei singoli, solleva le nostre speranze verso destini ultratemporali e ultraterreni.

La gioia pasquale, poi, sa coesistere anche con le sofferenze e i disagi di quaggiù; non elimina il dolore, ma lo purifica e lo finalizza. Perciò san Paolo può dire: “Sono pervaso di gioia in ogni tribolazione” (cf 2 Cor 7,4).
Per chi vive secondo lo Spirito, la gioia pasquale è un sentimento vero, reale, permanente, che, mantenendosi sempre composto e mite, rischiara e addolcisce anche le ore più buie, più amare, più inquiete dell’esistenza.
Poniamoci dunque tutti, cari sacerdoti, al servizio di questa gioia e cerchiamo di irradiarla attorno a noi per quel che ci sarà dato.
Il segreto per attuare efficacemente questo proposito è quello di diventare sempre più intimi dello Spirito Santo, di colui che Gesù nell’ultima cena ripetutamente chiama il “Consolatore”. Egli ci rassicurerà e ci incoraggerà, attestando continuamente al nostro spirito che siamo figli di Dio (cf Rm 8,16). Con il suo misterioso vigore verrà in aiuto di ogni nostra debolezza (cf Rm 8,26) e con i suoi “gemiti inesprimibili” (ib.) avvalorerà presso il cuore del Padre le nostre implorazioni.
Sarà lui a far sgorgare quotidianamente dal nostro mondo interiore, irrigato dalla sua grazia, un’onda inesauribile di letizia a vantaggio dei nostri fratelli.
Così potremo rasserenare le molte pene e i molti smarrimenti che ci avverrà di incontrare nel nostro non facile impegno pastorale.

09/04/1998
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