Ci ritroviamo tutti nello stesso luogo con Maria. San Luca è come la stanza al piano superiore (At 1,13) dove erano soliti riunirsi. E da qui scende sempre lo Spirito buono che protegge le case degli uomini, la comunità di destino che in realtà popola la nostra città. La casa di Maria è la casa della Comunità. È casa. A casa ritroviamo noi stessi, perché il posto che Gesù va a preparare in cielo lo capiamo già qui sulla terra. A casa con Maria vuol dire intorno alla mensa di suo Figlio Gesù, presenza che lei continua a generare perché siamo figli e non estranei, fratelli e non colleghi, amici e non sconosciuti o, peggio, nemici. Erano insieme. Non è affatto scontato in una generazione che ha tanta paura di pensarsi insieme, come se il legame sia limitante e contrario all’io. Quella intorno a Maria è la famiglia di Gesù non un insieme indistinto, generico, interscambiabile, a somiglianza di qualcuno.
È famiglia, dove le differenze esaltano la somiglianza. Gesù affida sua madre a noi. “Questa è tua madre”. Che vuol dire anche: abbine cura, custodiscila perché lei ti possa custodire, difendila. È tua, non di qualcun altro. Non parlarne male. Non ferirla con l’indifferenza: vive per te. Non essere sufficiente verso di Lei. Lei pensa tutta la sua vita per te e ti aiuta ad amarla. Non interpretarla come fosse un partito: è tua madre e gli altri sono fratelli e sorelle non correnti o concorrenti. Non lasciarla sola: come farà con tanti figli da aiutare? Ha solo te, ha solo noi! Non offenderla con parole irriverenti, difendendo le tue ragioni come se fossero le uniche, guardando tutto con malevolenza, difendendoti da chi ti ama, cercando solo il negativo come se questo difendesse la nostra famiglia, mentre come ogni divisione la indebolisce, la rende solo esposta al nemico, a quel drago che vuole non generi la vita.
Questa Madre è tua non perché solo tua o di quelli che la pensano come te, ma proprio perché madre gioiosa di tanti figli, che ti aiuta ad allargare il cuore, a gioire di tanti fratelli e sorelle che ti chiede di amare con tutto il tuo amore. Proprio per questo Papa Francesco ha voluto che il giorno dopo la Pentecoste fosse la celebrazione di Maria Madre della Chiesa. Per questo la Chiesa non sarà mai un’associazione di filantropia o di volontariato, anche se fa tante cose per gli altri. I poveri sono fratelli, non utenti! Per questo la Chiesa non diventa un club o un partito, perché famiglia di Dio che chiede tutto il cuore, l’amore, non è un condominio, qualche volta pure rissoso. Insieme non vuol dire uno accanto all’altro, tante isole che restano tali. Solo con Maria e insieme scende lo Spirito. Scende su ognuno e su tutti, riempiendoci tutti di amore.
Lo Spirito è amore. È mio e nostro, fin dall’inizio. È possibile essere se stessi e insieme, senza che questo significhi protagonismo, sopraffazione, potere, individualismo, vanto, orgoglio? Possibile che mi pensi per gli altri e sia me stesso senza dover dire “o si fa come dico io oppure non faccio niente?” Oppure fare qualcosa solo se mi conviene? Questo è proprio il contrario dell’unità, della concordia. Possiamo essere pieni di amore e pensarci gli uni per gli altri e non gli altri per me? Non accettiamo che per essere noi stessi dobbiamo fare da soli, senza gli altri o usandoli! Il servizio è dono, disponibilità. Quante volte sento dire “è bravo, mas non sa lavorare con gli altri.
Ha tante cose importanti, ma se le tiene per sé perché non le usa per amare. Perché per essere noi stessi dobbiamo essere protagonisti, cioè imporci, invece che umili lavoratori, cioè tutti per davvero? Che ci facciamo con il nostro coraggio e a cosa serve quello che abbiamo se non lo usiamo per il prossimo? E la Chiesa è madre di tutti. Tutti, senza chiedere certificato e senza vanto. È Madre. Essere cristiani non significa pensarci in relazione agli altri e non viceversa? Capiamo che la nostra vita ha senso se è per il nostro prossimo, non viceversa, secondo il relativismo del mondo che persuade a credere che tutto ha importanza se diventa mio.
Iniziano a parlare la stessa lingua. Vuol dire anche tra di loro. La pace inizia così e questo significa vincere tanta violenza che nasce proprio dal non capirsi, dal lasciare soli, o dal dire parole dure, pregiudizi. Che non significa dire le stesse cose, ma parlare la stessa lingua d’amore. A volte facciamo fatica. Ma se siamo pieni di Spirito, cioè santi, parleremo senza accorgercene e gli altri ci capiranno. Santi, che vuol dire riflettere il suo amore, non perfetti.
Ognuno con il suo riflesso originale. E un poco di questa luce illumina molto di più di quello che pensiamo! Peccatori amati e perdonati, pieni della sua grazia e non perfetti che si lasciano amare. Gli apostoli pieni di Spirito si mettono a parlare con tutti, estranei, diversi, confusi come la Babele di questo mondo. La Chiesa non vive per se stessa, non è un circolo di iniziati che si protegge dal mondo. Accoglie e va incontro. Sono pieni di uno Spirito che è fuoco, che fa ardere il cuore. Ecco la forza che viene dalla nostra unità. E quando siamo divisi siamo più deboli. L’unica forza che abbiamo è l’amore! In questo mondo ferito, confuso, incerto, dove le persone non si capiscono tra loro perché ognuno parla la sua lingua, c’è bisogno di cristiani che parlano con tutti la lingua dell’amore, la lingua di Abele e non quella di Caino, la lingua di Dio, quella che si parla in cielo, quella del futuro che possiamo già usare oggi. Per dire parole di amore a tutti e che tutti capiscono. È l’amore che cambia la faccia della terra.
È amore suo, per noi e per gli altri. Parliamo di amore in un mondo che lo spiega ma non lo vive, che accetta tanti muri, pieno di isole che non comunicano. Dobbiamo parlare con fraternità a tutti, vincere l’anonimato, salutare, andare incontro con amore e non con diffidenza. Ecco che cosa ci permette la Pentecoste: parliamo con ogni persona e vedrete che ci capirà nella sua lingua nativa, cioè nel profondo del cuore, ci sentirà familiare e lo diventeremo. Ci saranno sempre Parti, Medi, Elamìti, abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, ma il cristiano è familiare con tutti perché parla di Gesù. Se parliamo con amore conosceranno Gesù che è amore. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Non pensiamo da soli ma insieme, per come siamo ma uniti. Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Guardiamo tutti con occhi buoni, di attenzione, che vuol dire aperti, attenti.
Tanti doni. Oggi ricordiamo quello di una caro fratello, Mons. Ernesto Vecchi, che a San Luca amava venire perché univa l’amore per Maria, l’amore per la bicicletta e l’amore di incontrare e parlare con tutti. È sempre rimasto un parroco. La foto che aveva sul suo tavolo lo commuoveva: era quella della sua gente del Cuore Immacolato di Maria, a Borgo Panigale. Ha amato la Chiesa di un amore esclusivo e per questo le è sempre stato ubbidiente, anche nei momenti di qualche umana difficoltà. Desidero ricordare la sua amicizia con Marcella transessuale che accolse nel 2009, quando lei era già in chemioterapia e preferì andare a renderlo partecipe del suo dramma esistenziale. “Nel collegio apostolico hanno trovato posto tanto Filippo e Andrea, uomini aperti alla mediazione e al dialogo, quanto Giacomo e Giovanni, gli intolleranti figli del tuono.
Nella dinamica ecclesiale – che recepisce l’azione dello Spirito Santo – ciò che è importante è parlare chiaro, con libertà e parresia, ma anche ascoltare con umiltà le ragioni degli altri, per approdare insieme verso la missione”. “Quante strade deve percorrere un uomo per riconoscersi uomo?”. La risposta, canta il ritornello, “sta soffiando nel vento“. È vero – disse allora il Papa – ma non nel vento che disperde, ma nel vento dello Spirito di Cristo presente nell’Eucaristia. Ecco alcune delle sue parole che tanto descrivono il suo carattere e anche la sua convinzione che Cristo parlasse alla persona nella sua storia. Diciamo, in bolognese! Con un carattere molto rigoroso e fedele aveva imparato da Lercaro a vivere tutto in modo solenne e non banale. Da Biffi, aggiungeva lui, a farlo con intelligenza. Il suo riferimento essenziale era “con il Vescovo”, chiunque fosse in quel momento. “Se nella Chiesa accettiamo la logica mondana della contrapposizione, lasciamo spazio al serpente antico (Ap 12, 9) che, attraverso la menzogna, ci frantuma, espelle Dio dalla storia e fa prevalere l’antica Babilonia, la città del caos ( Is 24, 10) sulla “nuova Gerusalemme”. “Mi ha sempre aiutato la consapevolezza dell’importanza primaria della successione apostolica, che connette la Chiesa dei nostri giorni al Signore risorto.
Negli Arcivescovi Lercaro, Poma, Manfredini, di venerata memoria, e nei loro successori, gli Arcivescovi Biffi e Caffarra, al di là delle loro diversità contingenti, ho sempre visto il principio sacramentale dell’unità della nostra Chiesa e la garanzia di non lavorare e correre invano (Fil 2, 16). Poteva avere anche un pensiero iniziale diverso, ma tutto alla fine doveva raccordarsi perfettamente con questo primato. Senza questa paternità non si muoveva. Discuteva molto e con molti, ma poi li ricercava e cercava di fare pace. Sapeva chiedere scusa. Per capirlo dobbiamo pensarlo legato all’Eucaristia, al breviario e al rosario, nella preghiera e all’altro breviario laico che era la lettura attenta dei giornali. “Desidero solo una cosa: essere segno e strumento di comunione anche se la mia caratteristica di figlio del tuono (Mc 3, 17) potrebbe far pensare il contrario”. Oggi celebra l’Eucarestia nella pienezza della vita, nella casa del Signore, con Maria. Ringraziamo Dio per il dono della sua vita. In pace.