Messa in suffragio del Papa emerito Benedetto XVI

In questo tempo del Natale di Dio uomo tra gli uomini, luce nelle tenebre drammatiche di questo mondo, contempliamo la grandezza e la bellezza tutta umana e divina di nostra madre Chiesa. Maria, umile si lascia innalzare, piena di grazia, e il suo grembo continua a generare la presenza di Cristo in questo mondo, via che non finisce, verità che spiega il mistero, vita piena e pace. La Chiesa, madre di comunione, unisce intimamente Dio con noi e le nostre persone tra loro, tanto da renderle un cuore solo e un’anima sola. È dono che consideriamo poco, qualche volta offendiamo o diamo per scontato, al quale preferiamo l’organizzazione. Quando manca la comunione il cuore dei cristiani si inaridisce, la vita si sclerotizza, l’organizzazione non trova l’anima e facilmente diventiamo una realtà solo umana. Niente di male, ma, attenzione, finiremmo omologati a tante realtà anche benemerite, ma non saremmo la Chiesa di Cristo che vive la radicalità del Vangelo, il di più dell’amore, un’organizzazione che è servizio, confronto coinvolgente e sempre commovente con le folle “stanche e sfinite perché senza pastore”.

A questa comunione dei santi, dimensione fisica e affettiva che coinvolge tutte le nostre persone, che è ben più di un’appartenenza idealizzata o di una relazione di scopo, che ci fa sentire parte di quella comunione che unisce la Chiesa tutta molto più di quanto sappiamo riconoscere, affidiamo il Papa emerito Benedetto XVI che nasce alla vita del cielo. Nell’intercessione di suffragio esercitiamo tutti la responsabilità della comunione. Lui stesso ebbe a dire che la vita non è un cerchio che si chiude, ma una linea che tende a quella pienezza di amore, dove tutto è e sarà ricompreso, dove ci presentiamo senza nulla di nascosto che non viene rivelato. Nel nostro tempo di imperante individualismo, ossessionati dall’essere gli unici giudici di noi stessi, finendo poi per essere dipendenti da quelli tarocchi e interessati degli uomini, il Papa emerito Papa Benedetto ci aiuta a sentire l’amore di un padre e ad affidarci in questa e nell’altra vita al Signore Gesù. Scrisse pochi mesi or sono, in quella che forse è la sua ultima lettera pubblica: «Sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto, ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio Paraclito. In vista dell’ora del giudizio mi diviene così chiara la grazia dell’essere cristiano. L’essere cristiano mi dona la conoscenza, di più, l’amicizia con il giudice della mia vita e mi consente di attraversare con fiducia la porta oscura della morte».

Il Papa emerito ha vissuto questa comunione servendola sempre con molto rispetto, gentilezza, e senza alcun aspetto mondano, libero da riduzioni a politica ecclesiastica. Anche per questo poteva con fermezza indicarne la sporcizia, contrastarla con un affronto rigoroso, sapendone chiedere perdono, scegliendo la giustizia e la misericordia che non ne limita affatto l’esercizio. Ha amato la Chiesa ben consapevole che resta sempre meretrix per la nostra umanità, ma casta perché pienamente di Dio.

La sua preoccupazione ultima, come ha indicato nel suo testamento spirituale, e che ha segnato tutta la ricerca di Benedetto XVI, è la difesa della fede, perché resti tale e non assecondi, anche con le migliori intenzioni, la logica del mondo, omologandosi e non dialogando, quindi, credendo così di parlare con i nostri compagni di cammino. Non ha certo, al contrario, slegato la fede dalla vita, dalla fatica della ricerca; non l’ha ridotta ad una verità abbacinante, non attraente, difensiva, ridotta a codice morale, attenta ai “no” e incapace di essere attraente e di coinvolgere nei “sì” che Dio continuamente rivolge ai suoi.

La fede ci introduce ad una vita più bella, umanamente più ricca di quella del mondo. «Rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere!», ha indicato nel suo testamento. «Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede». Non ha mai rinunciato ad affrontarlo con intelligenza e rigore, senza preconcetti o con un approccio assertivo, che riduce la verità a ideologia. Ha affrontato il “groviglio delle ipotesi” senza ammiccamenti pericolosi e ambigui, libero da ignoranti contrapposizioni da scontro, che invece di scioglierlo, affrontandolo com’è, lo spezzano e pensano che il dialogo sia cedevolezza, camaleontismo, annacquamento della verità. Il Papa emerito ha sempre affrontato con serenità l’indispensabile e a volte faticosa ricerca, nella convinzione che la fede illumina pienamente la ragione, senza subalternità o supponenza, e non ne fa a meno. La ragione si nutre della fede e questa nutre la ragione.

Era preoccupato di una riduzione sociologica del mistero della Chiesa, perché solo la fede ci permette di entrare nella vera realtà ecclesiale e di cogliere le strutture fondamentali, intangibili, della vita della Chiesa, perché volute da Dio. Proprio come Giuseppe, di cui porta il nome, ha custodito questa sua sposa con tutto se stesso, servendola e proteggendola, mai in maniera banale, sempre attento alle persone ma senza compiacenze, libero da protagonismo e personalismi, generoso e attento a collaborare come metodo.

Non ha smesso di ascoltare il sogno di Dio, obbediente come umile lavoratore, studiando e interrogando la Parola, in una personale vita spirituale, fondamento della sua ricerca teologica, attento che non si perdesse il deposito nell’avventura del momento ma neanche in una conservazione ottusa e ripetitiva. Il cristianesimo per lui era sempre un incontro e non una morale, e sempre legato ad una dimensione comunitaria. La fede è necessariamente ecclesiale e la Chiesa non è un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti.

Al centro solo Cristo, mistero di amore che ha contemplato e spiegato con profondità e semplicità. «Chi crede, non è mai solo – non lo è nella vita e neanche nella morte». Era attento, per questo, che Dio non scomparisse nella vita delle persone, non tanto per una logica interna quanto perché si tradiva il senso del vangelo e le persone perdevano se stesse. Come Giuseppe era giusto, sempre disponibile a superarsi per amore di Dio, a fare quello che non avrebbe desiderato ma che accettava e faceva suo. Non ha temuto di seguire la Parola, obbedendo liberamente, cioè con tutto se stesso. Con quella stessa libertà ha scelto di trasformare il suo servizio quando si è accorto che non avrebbe potuto essere tale come era necessario. Libero per obbedienza a Cristo e per obbedienza libero. «Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi. Uno riceve la vita proprio quando la dona», sperimentando la sicurezza «nell’abbraccio della comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e tutti appartengono a lui».

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». E questa diventa una compagnia affidabile, piena di amore, che ha bisogno della verità per non essere un sentimento effimero e come questa ha bisogno dell’amore perché non tradisca se stessa. Nelle varie stagioni a volte c’è maggiore bisogno di sottolineare l’uno o l’altro aspetto, ma essi sono e restano sempre intimamente uniti. Diceva: «Chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio», e l’amore è in fondo l’unica luce che «rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire».  Non si chiudeva affatto in una minoranza spaventata ed ermetica, ma viveva quella sempre creativa perché piena dello Spirito e libera di comunicare il Vangelo nel mondo.

La sua vita si è sviluppata essenzialmente prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, evento che ha segnato personalmente tutta la Chiesa e particolarmente la sua generazione. Certo, avvertiva alcune difficoltà. Come quella di esprimere la bellezza della celebrazione liturgica, l’orientamento, l’ars celebrandi, non per far credere che sia un ritorno al passato ma perché è centro e fulcro della vita cristiana. Parlando del Concilio, nel cinquantesimo anniversario, ricordò come «eravamo felici e pieni di entusiasmo. Eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo. Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: “il Signore dorme e ci ha dimenticato”». Non significa disillusione, rassegnazione, chiusura. Ma oggi dobbiamo vivere. «Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica. Anche oggi, a suo modo, umile, il Signore è presente e dà calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio. Sì, Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi!». Nella desertificazione spirituale «possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza». Chiedeva di mettersi in viaggio, perché «metafora della vita. Il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. La Chiesa si deve rimettere per strada nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: il Vangelo e la fede della Chiesa. E lo possiamo fare con i tanti insegnamenti che ci accompagnano e la fede nella forza del Signore». Ecco la consegna presa da Papa Francesco che tanto spinge per uscire e affrontare senza paura i deserti dei cuori e della convivenza delle persone.

Faccio nostre le sue parole, che mi paiono come un’invocazione. Sono tra le tantissime che ci hanno aiutato e ci aiuteranno nella nostra fede e nel nostro cammino. Mi sono parse così personali, nel desiderio che aveva per i cristiani e per se stesso. Oggi lo comprende pienamente, immerso nella vita di Dio che ha amato fino alla fine.

«Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: “Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…”. Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!».

Vogliamo che tu viva pienamente tra le braccia di Dio, che ringraziamo per il dono della tua vita e del tuo servizio ispirato e gentile. Grazie. Nella pace di Dio.

Bologna, Cattedrale
02/01/2023
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