Il Vangelo non propone qualche generica parola di benessere spirituale, non coincide con il nostro istinto, ma esprime noi stessi in modo più personale. Chi di noi, infatti, direbbe: “Felice chi è povero o chi ha fame o quelli che piangono o quelli che affrontano avversità e violenze per amore di Lui?”. Tutti noi pensiamo in maniera pratica che felice è piuttosto il ricco, chi può esibire ricchezze e lusso come fossero manifestazione delle proprie capacità. Ma ricco è anche semplicemente chi si conserva, chi non si sacrifica, chi non ha mai tempo ed energie da donare, chi non si sporca le mani. Gesù indica davvero un mondo alla rovescia. Ma se, guardiamo bene, è il mondo così com’è che è alla rovescia, che diventa un inferno tanto da avere paura della vita, e ne ha tanta, difende diritti individuali, ovviamente importanti, ma lascia sola la persona e condanna il prossimo. Non è davvero assurdo credere di star bene perché siamo ricchi? Non è forse poco umano pensare di avere una vita piena perché siamo riusciti a riempirci lo stomaco? Che allegria è quella prodotta dalle droghe e da tante dipendenze, con interessi economici incredibili, di chi scappa dal mondo per sentirsi forte quando invece non lo siamo? Siamo felici quando riusciamo a strappare considerazione, a comprare un po’ di gloria con qualche apparenza, esibizione, notorietà, cose che richiedono tante energie e preoccupazioni? È una vita bella se scappiamo dai sacrifici, evitiamo le avversità per conservare noi stessi e per sopravvivere?
Gesù non viene ad imporre rinunce ma a proclamare una vita bella e piena. Non ci fa perdere il nostro io ma ci aiuta a capire chi siamo per davvero e ci insegna ad amare, cioè a trovare noi stessi perché abbiamo trovato il prossimo. Il Vangelo non è una dipendenza per rendere meno amara e disperata la vita. È la bella notizia della vita che cambia e si realizza. Non un elenco di doveri; è una evidente proposta di amore! Dio ama per primo e può dire beati perché vuole che gli uomini, creati a Sua immagine e somiglianza, siano con Lui, entrino a fare parte della comunione di amore, abbiano la vita piena. E non solo dopo il limite della vita, ma già adesso, oggi. Il ricco non trova speranza nel possedere e la sua ricchezza non è una protezione. Infatti, siamo poveri, anche se facciamo di tutto per dimenticarlo. Come viviamo mettendo il cuore nel denaro? Non diventiamo solo meno pietosi, induriti, ma arriviamo al punto che non abbiamo più sentimenti per le cose e per le persone. Il possesso di denaro ci fa trovare la risposta alle domande della vita? Non è forse vera anche oggi la parabola del ricco che progettava, credendo di essere lui a poter disporre della sua vita, e che invece non calcolava che la sera stessa gli sarebbe stata chiesta? Beato è allora il povero, chi non diventa prigioniero del denaro, e la capacità di corruzione delle ricchezze è molto più persuasiva di quanto crediamo! L’idolatria del denaro spiega l’uso individuale dei beni comuni, così diffuso, lo spreco delle risorse, la volgare ricerca del proprio interesse, del tornaconto, della ricompensa. Troviamo così felicità? No. Siamo felici quando doniamo gratuitamente, quando gustiamo ciò che abbiamo e scopriamo l’amore come la vera ricchezza che dà senso alla vita e a tutto quello che abbiamo! Nell’amore tutto è nostro. Il Regno è già fin da oggi dei poveri! E solo chi li ama entra con loro nel Regno! Il ricco, come descrive il Libro dell’Apocalisse, pensa: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla”. È forse vero? No, ma lo crede! “Non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”. Infatti, come afferma il Qoelet, “la sazietà del ricco non lo lascia dormire” (Qo 5,11). “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore allontana il suo cuore”, dice il profeta Geremia, perché “quando viene il bene non lo vede”. La maledizione del ricco è, ad esempio, l’avarizia; ha tanto ma non è mai contento; viene il bene e non lo sa riconoscere; ha paura di perdere e si attacca disperatamente alle cose; non si abbandona all’amore dell’altro, non lo crede possibile, non si fida. L’avaro non ama se stesso, ma solamente “la roba” che accumula. Se non ti poni la domanda “di chi sarà?”, cioè per chi vivi, a chi regali quello che hai, la perdi. Qual è la salvezza del ricco? Amare i poveri, usare i beni per gli altri, scegliere di mettere il cuore nell’amore. C’è un giudizio e ci sarà.
“Guai a voi, ricchi… Guai a voi, che ora siete sazi, guai a voi, che ora ridete” e guai “quando tutti gli uomini diranno bene di voi”, perché, come afferma Gesù, le cose si ribalteranno, gli ultimi diventeranno primi, e i primi ultimi (cfr Lc 13,30). Guai a voi che non è una minaccia, ma un forte, appassionato richiamo, sempre per amore, per svegliarci, per strapparci dall’inganno del male. Lo capirono i sette Santi fondatori. Cercavano la gioia e la trovarono diventando poveri. Scelsero la vita comune perché non c’è gioia da soli. Sono innamorati che scoprono Dio attraverso la Madre di Gesù, scoprono che è affidata a loro e che, quindi, la fraternità dei figli è amore di Dio e verso Dio. Diventano scintille di speranza. Erano mercanti e hanno trovato la perla più rara. Laici che hanno trovato la loro vocazione, cioè quello che Dio vuole da ciascuno e che ciascuno se non la trova non è nella gioia. Molta gente cominciò a rivolgersi a loro chiedendo consigli e preghiere. Avevano capito il segreto della vita perché si erano fatti piccoli, e così diventarono angeli di speranza e di consolazione. Si volevano bene. La comunità non è forse questo? Erano diventati così amici che “con dolcezza e amore, avevano un perfetto accordo nel valutare le cose divine e umane e anche a non potere tollerare di stare lontani gli uni dagli altri”. Non è questa la fraternità che dovremmo vivere? “La separazione perfino di un’ora sola era da loro sofferta con grande disagio”. Possiamo lasciare solo un fratello?
Turoldo scrisse: “La loro è la storia di un gruppo spontaneo, di un gruppo non dissimile da molti gruppi, di carattere religioso, che ancora oggi pullulano nella Chiesa. Quello dei nostri fondatori era un grappolo di vite, in fraternità piena, tanto che saranno ricordati come se fossero una sola entità. Erano una vera comunità. E questo, ancor più essenziale e urgente. Cosa si è sempre cercato nella Chiesa, se non lo spirito comunitario? Essi si chiameranno servi. E sono servi come e sull’esempio della Vergine, prima realtà e immagine di quello che deve essere la Chiesa. Vita come servizio di Dio e dei fratelli. Ecco i servi del Signore, si faccia di noi secondo la Tua parola”. Oggi ci aiutano a vivere il Giubileo della Speranza in un mondo ricco e dissennato, che non sa distaccarsi dalle ricchezze e, volendo conservarsi, diventa insignificante e sciocco. I sette padri hanno trovato la speranza e la vivono nell’oggi pensandosi servi, legati gli uni agli altri. La comunità non è forse un legame di amicizia che ci unisce e che si deve vedere nella cura reciproca, nella santità personale che aiuta l’altro e nell’accoglienza? La Chiesa vuole essere comunità, la famiglia di Dio, cerca di pensarsi insieme, camminare insieme, esaltando l’io perché servi, cioè in relazione al prossimo e non senza o sopra l’altro. Per questo la comunità dei sette padri è un esempio di cammino sinodale, che non è un codice di comportamenti o l’aggiornamento del regolamento di condominio, ma è l’appassionante amore che Dio mette nel nostro cuore, è la gioia di pensarci insieme perché la gioia è nell’amore, nel lasciare tutto, poveri, tutto è loro perché amano tutto e tutti, e per ciò sono capaci di rendere ricchi tutti. Afflitti e consolati che consolano. Innamorati di Cristo e di Maria e per questo servi di amore tra di noi. Servi, che significa avere attenzione verso tutto ciò che divide. “Uniti da sublime carità, tu li scegliesti quali ministri di unità e di pace fra il popolo cristiano affinché, dissolta ogni lite, ricomponessero gli animi in fraterna concordia”.
Vendiamo quello che abbiamo pensandoci insieme, diventando pietre vive di questa comunità, in cui c’è solo una pietra angolare e dove noi siamo tutti fratelli. In comunità oggi vivremo tra di noi lo stesso amore di Dio e lo contempleremo. È la nostra speranza.
È quello che canta Turoldo: “E quando gli altri neppure sapranno più che tu esisti allora io sarò ad aspettarti. Quando nessuno più ti porterà un fiore che non sia di pietà, e gioia nessuna altri penserà di raccogliere dalle tue mani vuote, allora siederemo a tavola insieme e divideremo quel nulla che ci sarà d’avanzo”.