Messa per gli ammalati, nel 40° anniversario dalla sua ordinazione presbiterale e con un ricordo per le vittime del terrorismo

“Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”. Il Signore è Dio di vita, vuole la vita, comunica la vita, quella che cerchiamo tutti e di cui abbiamo sempre bisogno. Vita, non regole di vita. Vita perché è un Padre e non possiede la vita, ma la regala e non ci possiede, non ci tratta da servi, ma da amici. I suoi amici. Diventa nostra ma la capiamo se viviamo il segreto della vita che è l’amore. Non è un Dio che punisce – anche solo con il rancore o la freddezza come amano fare gli uomini – perché il suo nome è amore e non è venuto a condannare, ma a salvare. E non salva se stesso, fino alla fine, fino a sentirsi Lui abbandonato dal Padre, per salvare noi. Proprio per questo è anche un Dio esigente, perché il suo è amore vero, non un surrogato a poco prezzo al quale abbiamo ridotto l’amore. Non ci asseconda in base a un modello di amore piegato all’io, che non unisce all’altro, come una passione da “Don Giovanni” che ha bisogno sempre di tante “situazioni” perché non sa amare per davvero ed in fondo cerca di sentirsi amato ma senza legarsi perché resta innamorato solo di se stesso. Il nostro è un Dio con un amore totale, radicale, che chiede lo stesso a noi, che propone di lasciare tutto e seguirlo, che libera dalla paura e dalle misure mediocri, che dona quello che cerchiamo perché ci ama pienamente. Ama e combatte l’orgoglio, non lo blandisce e ci aiuta a trovare finalmente il nostro io ma perché unito all’altro. È amore che ci aiuta a cercare quello che conta e ci serve Lui perché così riconosciamo il pastore dal mercenario. Il nostro è un Dio che ama i peccatori ma non ha compromessi con il peccato e anche con quanti lo condannano ma non aiutano le persone a vincerlo e finiscono per condannare il peccatore. Il suo è amore, non ideologia: ama per come siamo e desidera che l’altro corrisponda al suo amore, fosse pure per un attimo, in punto di morte! Basta quell’attimo, perché ama. Gesù è mandato perché la vita del cielo non sia più separata da quella della terra.

Gesù ci invita a rimanere con Lui perché Lui rimane con noi, non va più via, resta con noi perché la sera viene molto presto e a volte dolorosamente improvvisa. La sofferenza ci fa precipitare nell’oscurità, a volte così angosciosa, come tante notti di dolore che sembrano senza fine. Lui rimane tutti i giorni. Accogliamo questo dolce invito – è il suo giogo leggero – e rimaniamo con Gesù. Rimanere non significa restare inerti, passivi, spettatori, perché è un legame di amore, quindi vitale, che ci rende davvero umani e davvero figli di Dio. Rimanere non significa non sbagliare, come per i farisei: l’amore ha una capacità incredibile di rinnovarsi, di riparare, e possiamo rimanere nell’amore che è più grande del nostro cuore e il cui perdono è tanto più grande della nostra colpa. “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”, cioè fino alla fine. Amore è quello che ha vissuto Salvo e che lo ha accompagnato e protetto, malato di Sla che ha sconfitto quella sua personale pandemia e ha dato a tutti un esempio di come la vita, amata dalla moglie e da tanti da loro coinvolti, vale sempre la pena di essere vissuta. Salvo e la moglie Milena hanno dimostrato che c’è più amore nell’andare al mare interamente prigioniero del corpo a causa della malattia, ma totalmente libero di donarsi che in tante inutili agitazioni di amore ridotto a ripetizione meccanica, a superficiale mercato di emozioni, che scappa dal male e non lo affronta. Gesù rimane fino alla fine per uomini traditori che fuggono tutti e lo lasciano solo. Gesù si fida fino alla fine perché anche noi, quando affideremo la nostra vita a Lui, sapremo che non ci abbandonerà al buio della morte ma ci solleverà alla luce della vita. Ama per poterci fare capire come dobbiamo amarci e perché, amati, possiamo noi a nostra volta amare. Inizia lui perché anche noi iniziamo con altri. Amare è “dare la propria vita”.

È Lui che ci ha scelto ed è Lui che continua a sceglierci perché ogni incontro si trasformi in qualcosa di unico, di generativo di vita se vissuto con l’empatia dell’amore gli uni per gli altri. Gesù ci conduce alla gioia perché con Lui inizia la vita che non finisce. Lui è il punto di incontro tra terra e cielo, è la porta tra la vita della terra e quella del cielo, che ci permette di pensare alla morte non come la fine ma l’inizio. Gesù non ci obbliga a rimanere con Lui, perché siamo amici e non servi. E solo noi possiamo andarcene, pensando di essere noi stessi perché soli. È un padre. Non ci costringe a stare a casa, ma non vede l’ora che torniamo!

Oggi sentiamo tutto il profumo di questa sua casa con Maria, adottati anche noi da sua madre che genera il Figlio e ci genera a figli e fratelli di Cristo. Siamo suoi e Lei è nostra! Non lasciamola qui! Non siamo padroni. Siamo figli. Non siamo orfani. Siamo figli, amati. È una gioia prenderla a casa nostra perché la riempie con la sua dolce presenza e ci aiuta a trovare Cristo perché non smette di dirci: “Fate tutto quello che vi dirà!”. Così ha fatto lei, ascoltando e credendo nell’adempimento della parola di Dio. Cerchiamo come possiamo, con tutto quello che siamo e abbiamo, di aiutare questa nostra madre, in realtà debolissima, perché segnata dalle nostre umanità. Maria ci aiuta a non rassegnarci, a non infoltire l’esercito dei disillusi che finiscono per diventare avidi cinici, consumatori di beni. Maria ci insegna a rimanere come Lei con Gesù, accanto alla sofferenza per amare sempre, anche quando non conviene, cominciando da chi non ci può dare nulla in contraccambio, dai suoi figli – che sono nostri fratelli – più piccoli.

Sento così vere per me queste parole nel giorno in cui ricordo quaranta anni – due volte venti è forse di minore impatto! – dall’ordinazione presbiterale, ministero di servire e presiedere la comunione nella comunione, che include sempre i “tutti” per cui Cristo offre il suo corpo. Tutto è sorprendente e immeritata grazia, nonostante i miei debiti da diecimila talenti, tanto che posso cantare, consapevole del poco della mia vita, con Maria la provvidenza che davvero coopera tutto al bene. Magnificat. Ringrazio il Signore con voi che siete oggi “gli altri” che il Signore mi concede di amare, amici e testimoni di Cristo con i quali cammino, chiedendo perdono per le cattive testimonianze, per l’amore sprecato, per la mediocrità, per le occasioni perdute. Grazie è sempre la parola che riassume tutte le altre. E diventa però motivo di più consapevole decisione e determinazione, di leggerezza per non fare diventare pesante quello che è agile se pieno dello Spirito, amore umanamente e spiritualmente coinvolgente. Sento però necessaria la decisione di perseveranza e fortezza, di temperanza verso me stesso e di entusiasmo interiore per un Dio che insegna ad essere fratelli tutti. Dio, primo Altro, mi aiuti ad amare il prossimo come Lui ci ha amato, contemplando il miracolo sempre nuovo della bellezza nascosta in ogni persona.

Non pensavo di celebrare questo anniversario. Quando diventai di argento lo feci coincidere con le prime comunioni in parrocchia, perché ritenevo fosse la migliore festa di ringraziamento, l’eucarestia, che viviamo sempre come la prima tanto è grande il mistero di amore. E poi perché la vera festa è quella che prepariamo agli altri, ad iniziare dai piccoli! Quaranta, però, vuol dire che sono già molti e che devo sbrigarmi a imparare a contare i miei giorni, considerando consapevolmente e senza amarezza che non ne avrò tanti e quindi che occorre spendere bene se e quanto “il Signore vuole”. Poi quaranta è un numero importante: indica il tempo nel quale si sono viste le opere di Dio, si è manifestata la forza così diversa da quella che credevamo necessaria e si è capito quali sono le vere vittorie che contano. È il tempo dell’amore pieno dopo il cammino. Per questo il quarantesimo mi chiede di servire il Signore con gratuità e larghezza, in maniera matura, libera, seminando con entusiasmo perché altri possano raccogliere come io ho raccolto dove altri hanno seminato.

I miei genitori il 9 maggio di quaranta anni fa scrissero così nel ricordino, riprendendo quello (sempre scritto da loro in realtà!) della mia prima comunione.

«Nel giorno del tuo primo incontro eucaristico tu pregasti così: “Ora Gesù comincio a camminare perché mi hai dato un passo e una via. Dammi anche le braccia per operare, le mani per donare, un cuore puro per amarti e gli occhi per vedere Te. Chiamami e dammi voce per risponderti, aspettami e dammi corsa per giungere e dammi infine la sempiterna sosta per riposare con Te”. Ormai Matteo hai già fatto molta strada; eppure è sempre poca perché si allunga man mano che la percorriamo e Dio è sempre di là. Per annunciare questa sua distanza, che pur si lascia avvicinare, per dire che è sopra, ma anche dentro di noi, Egli purifica le tue labbra; per donarlo al mondo, pane che unisce nella carità, consacra le tue mani. Noi che queste mani e labbra e vita insieme a Lui ti abbiamo dato lo ringraziamo con te, unendoci alla tua sacerdotale oblazione».

Sì, il Signore è sempre di là. Di là andiamo, verso di là camminiamo. Ringrazio di tutto, dei tanti testimoni di fede e di amore che ho incontrato, dei poveri che mi hanno spiegato cos’è l’amore. Affido tutto a Lui che rimane con me e con noi e vuole la mia e la nostra gioia perché Dio di amore grande ed eterno. Gesù unisce oggi il di qua e il di là della vita nel riflesso dell’amore di Cristo che si rivela nelle nostre povere e mendicanti umanità.

Bologna, Cattedrale
09/05/2021
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