messa per gli studenti, i docenti e il personale tecnico amministrativo dell’Università degli Studi di Bologna in occasione dell’inizio dell’anno accademico

Bologna, Basilica di San Petronio

Per gli inizi del nuovo anno accademico – un anno d’impegno severo nella ricerca e nella riflessione – siete convenuti ancora una volta davanti all’altare del nostro bel San Petronio. Accogliendo questo appuntamento, avete per ciò stesso manifestato oggettivamente di credere nel valore della preghiera e nella sua necessità esistenziale.

Il mio auspicio è che tale convincimento, personalizzato e reso esplicito, vi accompagni quotidianamente in questi mesi e vi induca a impreziosire ogni vostra giornata con qualche momento almeno di colloquio con Dio. Ne guadagnerà anche la saldezza dei vostri propositi di studio e il rendimento della vostra applicazione.
Ma come si fa a pregare come si deve? Quali sono le parole giuste da indirizzare verso il cielo?
Non è un interrogativo nuovo. Il vangelo di Luca ci informa che il problema è già stato proposto a Gesù: “Uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare’” (Lc 11,1). E Gesù, nella sua abituale concretezza, risponde non con enunciati teorici ma con una formula precisa che ci è familiare: “Voi dunque pregate così: ‘Padre nostro, che sei nei cieli…’” (Mt 6,9). Conosciamo bene questa fondamentale preghiera cristiana, ma per una volta mette conto di esaminarla un po’ da vicino.

Va notata subito in essa un’ammirevole sobrietà di linguaggio, che arriva (come vedremo) a richiamare i concetti più alti, adoperando i termini più vicini alla nostra ferialità.
“ Padre”, “pane”, “debiti”: vocaboli presi, si direbbe, dalle case della gente comune. Evocano una realtà usuale e dimessa: la realtà degli affetti semplici e naturali, del lavoro compiuto per vivere, degli affanni e delle paure degli umili.

“ Padre”, “pane”, “debiti”: parole antiche e consuete che mi risuscitano nella memoria il mondo della mia prima età, con la sua povertà e le sue sostanziali “ricchezze”.
La prima ricchezza era di avere la fortuna di genitori, che pensando soprattutto a me vivevano e faticavano; che potevano anche litigare a proposito della quantità minima necessaria di carbone da acquistare in estate per riuscire a passare tutto l’inverno, ma non avevano la minima discordanza circa la volontà di farmi crescere nei princìpi di civiltà dei loro padri e nella fede tipica della nostra gente.
E ci allietava il grande dono del pane. I companatici erano tutti attentamente misurati e distribuiti con oculatezza sulla nostra mensa. Il pane invece ci era dato senza limiti; e nessun altro alimento ci sembrava così amico e così nostro.
Infine si aveva la fierezza di non aver debiti con nessuno, attenti dunque ad arrivare puntuali e pronti alle varie scadenze inderogabili di pagamento (l’affitto, la luce, l’acqua, il gas), facendo poi bastare per tutte le altre spese quello che avanzava dell’unica busta paga.

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Il “padre”, il “pane”, i “debiti”: mi emoziona e mi affascina vedere come nella preghiera di Gesù proprio questi comuni pensieri della gente meno abbiente e più oscura siano caricati di un messaggio altissimo e diventino annuncio di superiori verità, quasi segno della nostra relazione di creature esigue e contaminate nei confronti del nostro Creatore e della sua santità.
In questa preghiera, ad esempio, di Dio si dice che è per noi lontanissimo eppure vicinissimo: remoto e sovrastante come la volta del cielo, ma insieme intimo e caro come il nostro papà: “Padre, …che sei nei cieli” (Mt 6,9).

Qui si dice che egli è l’unica sorgente vitale di tutti, perché in lui tutta l’umanità, per così dire, s’imparenta e diventa una sola famiglia: “Padre nostro”; sicché ogni lacerazione, ogni odio, ogni guerra in qualche modo ha la malizia del sacrilegio.
Qui si dice che Dio è la sorgente in noi di una sorprendente e quasi incredibile nobiltà – una nobiltà addirittura “regale” – dal momento che egli ha un suo “regno” che è anche “nostro”, visto che siamo suoi figli.
Il pane invece è citato a segnare la nostra radicale indigenza. E’ l’emblema di tutto ciò che ogni giorno ci necèssita per tirare avanti nel nostro travagliato mestiere di uomini: il cibo, l’aria, la luce, la tenacia, il coraggio, nonché una plausibile ragione di esistere, un po’ di pace interiore, qualche sincera amicizia, e così via.
Sono tutte cose che disperiamo di poterci assicurare con le sole nostre forze, e perciò le imploriamo nell’immagine e nel simbolo del “pane”. Sono tutte cose che si consumano in fretta o addirittura di colpo si eclissano, e proprio per questo vanno chieste ogni giorno: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11).
Infine i debiti – lo spettro di chi, pur senza tranquillizzanti riserve finanziarie e senza garanzie per il futuro, vuol poter continuare a camminare a testa alta – sono qui ricordati per dirci che, all’opposto, di fronte a Dio il nostro capo deve essere sempre chinato nell’umiliazione, perché davanti a lui non siamo mai come dovremmo: siamo sempre in uno stato fallimentare.
Ma è uno stato fallimentare che non ci fa cadere nella disperazione, perché sappiamo che i conti possono sempre essere riportati in pareggio dal miracolo della grazia divina filialmente sollecitata: “Rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6,12).
Al tempo stesso la menzione dei “debiti” ci rivela che anche noi paradossalmente abbiamo qualcosa da regalare. Noi abbiamo la possibilità – ci dice la preghiera che Gesù ci ha insegnato – di donare agli altri il perdono, dal momento che c’è sempre qualcuno che pecca contro di noi, allo stesso modo del resto che noi ogni giorno pecchiamo contro gli altri e contro Dio: “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (ib.).

 

Il “padre”, il “pane”, i “debiti”: con questi tre termini – si è visto – Gesù ci ha suggerito, quali contenuti immancabili della nostra preghiera, tre essenziali valori: la certezza di avere un Padre che non ci lasci mai soli a cavarcela con i guai dell’esistenza (come purtroppo fatalmente avviene dei padri che ci generano nella carne); la concreta possibilità di una sopravvivenza degna della nostra natura di uomini; il sollievo e la gioia di sentirci assolti dopo ogni caduta e di poter quindi ripartire a percorrere la via della giustizia.
Non so che cosa di più elementare e di più indispensabile si possa mai desiderare nella vita. Ma la cultura oggi dominante non è di questo parere.

Un’umanità orgogliosamente secolarizzata sembra ritenere Dio un “optional” irrilevante e fuori moda. Soprattutto non accetta un Dio che si intrometta a dirci che cosa è bene e che cosa è male, che si offra come nostro interlocutore appassionato, che ci pensi e ci ami: insomma, non accetta un Dio che sia “padre”.
Inoltre, i nostri contemporanei – più preoccupati di mantenere la linea che di sfamarsi, più vogliosi di sperimentare ciò che è sofisticato e trasgressivo che non ciò che è sensato ed essenziale – spesso aborrono dal “pane” (cioè da quanto è secondo l’indole primigenia delle cose, la saggezza, la “norma”); e così il più delle volte finiscono col diventare denutriti e inappetenti.

Soprattutto pare che non ci sia più la “fame di perdono”.
Si dice che questo sia una conseguenza del fatto che si è perso il “senso del peccato”. Non mi pare del tutto vero: l’odierno imperversare delle accuse di tutti contro tutti e l’infittirsi delle denunce in tutti i campi – in campo sociale, politico, giudiziario – testimonia che oggi c’è un fortissimo “senso del peccato”: c’è un fortissimo “senso del peccato altrui”; che non è quello di cui parlava Gesù.
Parrebbe così di dover concludere che il “Padre nostro” sia quindi diventato “inattuale”. Ma attenzione: quando la parola di Dio diventa “inattuale”, questo vuol dire soltanto che la nostra “attualità” non è più “vera”. Proponiamoci allora quest’anno di “inverarla” nella nostra mentalità e nella nostra vita, seguendo le indicazioni che il Signore ci ha prospettato nel “Padre nostro”.

11/11/2003
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