messa per gli studenti, i docenti e il personale tecnico amministrativo dell’università di Bologna

Bologna, Basilica di San Petronio

Questa celebrazione, che sollecita la benedizione e il favore di Dio sul nuovo anno universitario, è ormai per noi una felice e consolidata consuetudine. Siamo qui, ancora una volta, a offrire il sacrificio del Signore e a pregare: a pregare in modo mirato e specifico per quanti insegnano, studiano, lavorano, collaborano a qualunque titolo a ogni ricerca e a ogni verifica, entro la grande famiglia del nostro Ateneo.

Il 2000 però ci offre un appuntamento insolito, più esigente e più intenso: dominato com’è dal ricordo della nascita di colui che innegabilmente ha segnato di sé l’intera storia del mondo, il 2000 ci induce ad ampliare e approfondire la nostra riflessione sul senso della nostra esistenza, sul vero destino dell’uomo, sull’urgenza di autenticità che è implicita nella condizione del credente che ha accolto il messaggio di Cristo, e perciò si vede coinvolto nell’evento della sua venuta e si riconosce toccato dalla sua azione di illuminazione delle menti e di rinnovamento dei cuori.

Nella prima lettura di questa messa, san Paolo ci ha descritto con poche e semplici parole che cosa è successo con la missione tra noi dell’Unigenito eterno del Padre: “E’ apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini” (Tt 2,11).

“E’ apparsa la grazia”: è stata cioè un’irruzione misericordiosa di forza soprannaturale, di energia di bene, di riconquistata fiducia, che ha rianimato un’umanità sempre tentata di avvilirsi e di smarrire il coraggio di vivere. Oggi ancora gli uomini, pur quando sembrano lontani dalla pratica religiosa, intuiscono almeno confusamente che quanto è avvenuto duemila anni fa è stato decisivo e provvidenziale: è stato decisivo per le possibilità di scampare alla vanità e addirittura all’assurdo dei nostri fuggevoli ed enigmatici giorni; è stato provvidenziale per l’opportunità, che ci è accordata, di vincere lo sconforto e la frustrazione della nostra sorte mortale.

Per questo, più o meno tutti siamo raggiunti dal fascino del Giubileo. Prossimamente o remotamente, tutti siamo interpellati dal suo messaggio; e tutti, prossimamente o remotamente, ci sentiamo implicati nella sua proposta di ripresa morale.

Duemila anni fa – lo notava anche un poeta ironico e disincantato come Alfred de Musset – “une immense espérance a traversé la terre” (“un’immensa speranza ha cominciato a percorrere la terra”). Proprio per questo, egli aggiungeva, “malgré moi l’infini me tourmente” (“anche se non voglio, ormai il pensiero dell’infinito mi punge”: cfr. Poésies, Edition Hachette, p.225-227).

“É apparsa la grazia di Dio apportatrice di salvezza”. La salvezza, che appare duemila anni fa nella vicenda umana, arriva come qualcosa di inedito e di imprevisto: non si presenta come un’ideologia, non è un sistema di interpretazione del reale, non è un mito carezzevole alle nostre orecchie e grato alle nostre fantasie, non è una specie di “new age” ansiolitico e anestetizzante, non è una delle molte illusioni sociali o politiche che ogni tanto si affacciano alla ribalta della storia.

La salvezza che duemila anni fa ci è stata donata è una persona: una persona viva, concreta, con un volto e un cuore d’uomo. “Nato da donna” (Gal 4,4): così ci tiene a indicarlo Paolo, sottolineandone la sua origine umana.

Ma questo “nato da donna” – è il medesimo apostolo a darcene la stupefacente notizia, e noi l’abbiamo ascoltata – è “il nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,13).

Se ciò che qui san Paolo scrive corrisponde a verità, si capisce perché questa “grazia di Dio”, apparsa come “portatrice di salvezza”, sia l’offerta ineludibile di un riscatto necessario “per tutti gli uomini” (cfr. Tt 2,11); e si coglie l’incontestabilità di ciò che dice san Pietro: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (cfr. At 4,12). E’ evidente che un Dio – un Dio! – non può essere un salvatore facoltativo o parziale.

Se questo è vero, allora diventa incongruo e addirittura comico mettere a confronto – nella nostra generosa e acritica voglia di dialogo a ogni costo – le varie religioni e le varie proposte soteriologiche con colui che, essendo “il grande Dio e Salvatore”, è oviamente unico e imparagonabile.

Ogni uomo è libero di accogliere o non accogliere il Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per la nostra redenzione; ma se l’accoglie – e vuole restare ragionevole e logico – non può accostarlo o commisurarlo a niente e a nessuno, non può assimilarlo a nessun altro iniziatore o maestro di religione e di vita.

Ma – vien fatto di domandarci – l’umanità di oggi avverte l’improrogabilità che qualcuno dall’alto la salvi, oppure si chiude orgogliosamente in se stessa, si racconta la favola dell’autosufficienza, si affida al miraggio di una felicità ottenuta solo attraverso la scienza, la tecnica, il libertarismo e un umanesimo del tutto intramondano?

In realtà, è da molto che la mentalità dominante si sforza di estromettere “la grazia di Dio apportatrice di salvezza”, di cui ci ha parlato san Paolo, da ogni nostro orizzonte intellettuale e morale.

Ora però gli spiriti più pensosi e spregiudicati cominciano a tirare le somme dell’avventura culturale dell’Occidente; e inizia ad affiorare in loro il dubbio che i conti non tornino. Essi cominciano, cioè, a sospettare che la scienza e la tecnica, private di prospettive trascendenti e svincolate da ogni regola superiore, ci possano magari condurre a catastrofi senza rimedio. Cominciano a intravedere che l’uomo, se non ha in Cristo un archetipo cui deve tentare di attenersi, diventa fatalmente manipolabile e preda dei suoi stessi egoismi.

Se poi non si crede più in un Signore che si è fatto nostro salvatore e liberatore (il quale è ovvio che intenda custodire e difendere il popolo da lui riscattato con il suo sangue), le prepotenze e le dittature – politiche, economiche o informative che siano – costituiscono un pericolo non ipotetico e non remoto. Allo stesso modo, dove non c’è più, diffuso e condiviso, il convincimento della paternità di Dio, fatalmente si attenua (fino a scomparire) il senso della fraternità tra noi, della reciproca solidarietà, del rispetto vicendevole. Come meravigliarsi poi se la convivenza civile non riesce più a difendersi dal dilagare delle rapine, dal moltiplicarsi delle aggressioni e delle estorsioni, dai molti soprusi di malintenzionati arroganti e troppo spesso impuniti?

Noi però, che siamo qui radunati attorno all’altare, non temiamo. E anzi dalla vivacita imperturbabile della nostra fede siamo incitati e abilitati a diffondere fiducia e serenità nei nostri tempi inquieti.

Il Figlio di Dio che duemila anni fa è entrato nella trama degli accadimenti umani, non ne è più uscito. Il nostro Salvatore c’è, e resta il Signore della storia e dei cuori, nonché la fonte inesauribile per tutti di ogni speranza.

Egli, con l’effusione del suo Spirito e con la proclamazione della verità che non tramonta e non delude mai, continua a dare origine a un’umanità nuova, che contrasta ogni decadenza mondana; e alla fine, restando fedele al suo Capo e Signore, essa vincerà la sua battaglia

Noi siamo chiamati a far parte di questa creazione redenta e ringiovanita, che è la santa Chiesa cattolica. Ne siamo entrati col battesimo; ma il grado del nostro attuale inserimento è determinato dall’intensità della nostra adesione a Cristo, dall’ardore del nostro amore per Dio e per i fratelli, dal pregio soprannaturale delle nostre opere.

Senza dubbio l’appartenenza ecclesiale ci custodisce nella verità e ci aiuta sempre a rinascere; ma è anche insidiata e deturpata dalle nostre incoerenze. I confini tra la novità del Regno e la vecchiezza mondana passano quindi nell’intimità del nostro cuore, discernono entro l’ambiguità dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, separano le nostre opere a seconda del valore che hanno in faccia a Dio.

C’è dunque sempre una parte di noi che ha bisogno di purificarsi, di migliorare, di conformarsi di più alla volontà del Padre. Vale a dire, c’è sempre per noi la necessità di evangelizzarci interiormente e di convertirci.

L’appello a questo cambiamento interiore, a questo radicale e profondo pentimento, è appunto la provocazione di questo Anno Santo, che con straordinario vigore fa risonare ai nostri orecchi e alla nostra coscienza la prima parola che il Signore Gesù ha pronunciato, dando l’avvìo alla sua missione di salvezza: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,15).

Con questo nostro raduno orante noi chiediamo come dono (e fattivamente auspichiamo) di saper accogliere sul serio questo invito, perché – nell’anno di studio, di fatiche, di sacrifici e di speranza che ci attende – esso possa fruttificare con una esuberanza nuova e una più robusta vitalità.

14/11/2000
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