Messa per il Giubileo dei Canonici Lateranensi

Celebriamo un appuntamento importante della vostra storia. Che è di comunione. Storie diverse, duecento anni or sono, si unirono per camminare assieme, per testimoniare il Vangelo e vivere una fraternità più intensa. Non avete un fondatore in senso stretto. È l’essere canonici, regolari e Lateranensi che vi definisce. La fraternità tra i preti, iscritti nei canoni di una determinata Chiesa (il clericus vagans, ma direi che il cristiano vagans è sempre pericoloso!). Voi vivete la bellezza di unire vita comune e preghiera, una regola che vi permette di affrontare il non facile vivere insieme e, allo stesso tempo, il legame con le chiese locali, alle quali portate il vostro dono.

Quanto c’è bisogno di fraternità tra preti, di regole che ci aiutino a vivere la nostra vita personale e il cammino di sequela! Per non diventare noi regola di noi stessi, per farci aiutare, e perché questo avvenga in comunione, rafforzando la fraternità. Conosciamo la nostra debolezza e quanto abbiamo bisogno di quel giogo dolce e leggero che in realtà ci fa vivere in modo personale e oggettivo, interiore ed esterno, il giogo dolce e leggero di Cristo. Siete Lateranensi e al di là delle motivazioni storiche ciò ha un significato importante: il legame con la Chiesa di Roma, con l’universalità che ogni piccola realtà deve vivere. Questa madre di tutte le Chiese ricorda a tutte le chiese che non è mai isolata, con le tentazioni che questo può comportare: l’amarezza, la rivendicazione, l’isolamento, il nazionalismo, il farsi stravolgere da falsi profeti o la debolezza verso coloro che possono farci perdere l’anima. Tanto che la Chiesa non è più se stessa ma diventa un club più o meno raffinato, un comitato di gestione, un consultorio o un gruppo di auto-aiuto e non la Chiesa santa di Dio, la sua famiglia, quel mistero così umano, affascinante di essere meretrix e casta, santità e tanta umanità. Noi ci affidiamo a Dio e alla sua provvidenza che custodisce perfino i capelli del nostro capo, ma anche Lui si affida del tutto a noi, tanto che il suo Vangelo e la sua Chiesa, che vuol dire la sua famiglia, e non un’associazione che speriamo benemerita, sono messi tutti nelle nostre mani. Ecco, il mio desidero è che sappiate vivere sempre questa comunione e allo stesso tempo la missione.

Mi ha sempre colpito questa casa che oggi ci accoglie perché ci fa vedere fisicamente la presenza degli apostoli, porte attraverso le quali si entra ma anche, possiamo dire, si esce. Sopra ogni porta c’è quel ramoscello di ulivo di Cristo nostra pace, alleanza ultima ed eterna, che ci rende capaci di annunciare ovunque la fine di ogni diluvio e di essere sempre persone di pace. C’è anche un legame profondissimo con Bologna, con la canonica di S. Maria di Reno in Casalecchio, perché fu Niccolò Albergati, mio predecessore, che dette inizio all’unione. Nel 1823, dalla fusione delle due antiche Congregazioni del SS. Salvatore e dei Lateranensi, nasce l’odierna Congregazione dei Canonici Regolari del SS. Salvatore Lateranense. Che anche questa indicazione di metodo – cioè pensarsi insieme, unirsi – aiuti oggi a trovare soluzioni creative e pastorali. Comunione e missione, ma anche perdersi per il Signore. Servizio alla Chiesa perché Gesù non smette di mandare operai alla sua messe. L’amore è un esercizio, che si affina, che cresce, che diventa nostro, ma anche che possiamo perdere, che richiede disciplina, confronti, regola perché non si sclerotizzi, perché non prevalgano nostri modi individuali, per non essere solitari. Non si è preti senza una comunità, che però ci apre ad una dimensione affettiva della nostra comunione che è universale. Vi pensate insieme alle vostre comunità e viceversa.

Sant’Agostino ci esorta: «Viviate unanimi nella casa e abbiate una sola anima e un solo cuore protesi verso Dio» (Regola I,3). Preghiera, comunità, uso comune dei beni e spirito di servizio alla Chiesa: queste quattro sono le costanti carismatiche della vostra storia, le “quattro stelle” che non tramontano mai e che rendono il vostro apostolato luminoso e attuale.  È anche questo che ci forma, perché ci aiuta a vincere l’orgoglio e dà forza al nostro carisma. Non lo si è senza preghiera e ascolto! Non costruirsi da soli, amare la fraternità tra noi ci difenderà dal banale essere se stessi, dal piegare il carisma a sé. In una generazione così individualista, che perde l’anima difendendo un io senza il prossimo, S. Agostino ci ricorda che l’uomo solo è debole e misero. Guai all’uomo solo! Temiamo, allora, l’amore per il denaro che ci rende insensibili, duri, approfittatori, qualche volta ladri o ricattatori (“Te lo faccio se tu mi dai qualcosa in cambio”, regola che di fatto condiziona i rapporti e qualche volta sostituisce i diritti). Temiamo quando lo star bene diventa la regola di tutto, a tutti i costi. Temiamo il consumismo, illusione feroce che fa credere che tutto si possa comprare.

Temiamo quando non troviamo più l’anima, non la nutriamo, la fuggiamo, la riduciamo a psiche. Temiamo quando non la ascoltiamo più, moltiplicando sensazioni ed assecondando istinti. Temiamo il cinismo, la rassegnazione, il calcolo, l’interesse che uccidono l’anima e la forza che essa contiene. Se perdiamo l’anima come potrà amarla il Signore? Come potremo riconoscerlo? Dove troveremo altrimenti senso, sentimento, speranza? Tutti abbiamo sempre bisogno di una compagnia che ci aiuti a capire e che ci protegga dalle facili deformazioni dell’orgoglio. Non è una disciplina necessaria solo all’inizio, tutt’altro! Sant’Agostino non ammetteva al presbiterio chi rifiutava la vita comune. Che tristezza l’uomo adulto, il prete adulto che non sa farsi aiutare, che deve affermare le cose che fa lui, che vive di comparativo, che difende il suo ruolo e la sua considerazione, che confonde il servizio con l’affermazione di sé o la convenienza personale, cui non si può più dire nulla. Conservate quella disciplina della carità che insegnava Sant’Agostino, per cui cresciamo sempre nell’amore e siamo liberi dall’idea che è meglio non sbagliare, anche se amiamo poco.

Diceva Papa Benedetto: “Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo di questo il Signore ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo! Il Signore ci invia alle folle sbandate di oggi verso le quali non ha paura, fastidio, ma compassione perché tanti aspettano qualcuno che li consoli e li aiuti e spesso, troppo spesso, neppure vengono ascoltati! Ci hai fatti Signore per Te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te”, scriveva Sant’Agostino. La regola è l’amore. “Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo”. Si capisce bene perché egli parla di questa legge di Cristo: il Signore stesso ci ha comandato di amarci a vicenda, attribuendo così grande importanza a questa sentenza da affermare: “Da questo sapranno che siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri”.

Questo amore impone di portare vicendevolmente i nostri pesi. Ma questo dovere, che non è eterno, condurrà certamente alla beatitudine eterna, dove non ci saranno più quei pesi che ci è comandato di portare scambievolmente. Ma attualmente, durante questa vita, mentre cioè siamo in via, portiamo a vicenda i nostri pesi per poter arrivare a quella vita priva di ogni peso. Come hanno scritto alcuni studiosi di tali materie riguardo ai cervi: “Quando [questi animali] guadano un corso d’acqua verso un’isola alla ricerca di pascoli, si allineano in modo da porre gli uni sugli altri il peso delle loro teste, appesantite dalle corna, cosicché quello che segue, allungando il collo, posa la testa sul precedente. E poiché è necessario che uno preceda gli altri, senza avere nessuno davanti a sé su cui appoggiare la testa, si dice che facciano a turno: chi precede, affaticato dal peso della testa, retrocede all’ultimo posto e gli succede quello di cui sosteneva la testa, quando esso guidava [il branco]. E così, portando a vicenda i loro pesi, passano il guado fino a raggiungere la terraferma”. Sia così.

Roma, basilica di San Giovanni in Laterano
25/06/2023
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