Messa per il Natale della Curia

Natale ci riporta tutti, e in tutte le stagioni della nostra vita, a riconsiderarne e scoprirne il senso, a ritrovare l’essenziale, e proprio per questo a perdere quello che invece ci induce a dissipare le opportunità. È tutt’altro che una parentesi di buoni sentimenti in un cuore e in una vita mediocre e piena di paure. Natale ci porta con dolcezza a contemplare l’ingenuità di Dio che si affida a uomini non buoni, incerti, desiderosi di speranza, ma anche lupi di se stessi e degli altri, fragili. È la bellezza del Natale che ci cambia e ci fa nascere all’innocenza e alla bontà. Il Natale non è per chi è buono, ma ci rende buoni. Sappiamo, però, come il mondo svuota di significato il Natale, rendendolo un irritante insieme di sentimenti a poco prezzo, irritante se confrontato con la vita vera, con la scelta di Dio che dona tutto se stesso, con le condizioni difficili e dolorose del mondo, con l’umanità di Dio che ci aiuta a comprendere la nostra.

È, infatti, la condivisione più grande, quella tra Dio e la nostra umanità, che rivela quanto è preziosa la pur debole vita di ognuno, fiore fragilissimo e irripetibile. E abbiamo sperimentato con tanto dolore il soffio che siamo nella morte improvvisa di don Massimo Fabbri. Potremmo dire, parafrasando con il Cardinale Lercaro la Didaché, che se Dio condivide il suo pane del cielo come è possibile che noi non condividiamo quello della terra?

Natale non lascia la vita così com’è e non ci lascia neutrali, perché è una nascita e come la nascita di un figlio significa anche nascita di un padre e di una madre, di un fratello. Se restiamo gli stessi, Natale sarà semplicemente altrove. Non vogliamo affatto mettere tra parentesi le difficoltà della vita. Anzi: Dio viene a illuminare le tenebre con la sua luce!

Natale ci fa scendere nella storia, ci fa entrare nel tempo, nelle vere sofferenze della vita. Occorre, però, pronunciare anche noi il nostro “sia fatta la tua volontà”, farla, mettersi in cammino, andare all’aperto, ascoltare l’invito dell’angelo – e quanti angeli in realtà ci spingono ad andare a Betlemme! – per incontrarlo. Lui, il più grande, è visitato solo dai più piccoli, dai poveri, dai pastori che lo cercano perché hanno ascoltato e si sono messi in cammino. Non dimentichiamo la debolezza del Natale, di un bambino inerme minacciato dalla pandemia della violenza, dalla spada di un re che ha paura e vede in Dio e nel prossimo un nemico, un concorrente.

Natale è angoscia di due genitori che devono fare nascere il loro figlio primogenito e non trovano posto perché nessuno li ha accolti. Laconicamente il Vangelo commenta che “non c’era”. Cosa provoca bussare a porte che restano chiuse, trovarsi lontani dalla propria casa, scoprire che non si è nessuno, anzi, spesso, solo un problema, un fastidio da evitare, un imprevisto da gestire o, peggio, un pericolo? È in questa incertezza della storia, con eventi che condizionano la vita come un editto che impone a tanta gente di andare lontano, che Dio cerca la sua sposa, la sua comunità e l’umanità tutta. Dio fa così con noi perché è un innamorato e ci insegna così ad amare la nostra vita e a fare lo stesso con Lui e con il prossimo, a parlare anche noi da innamorati, perché non siamo dei servi o degli estranei.

Maria è la sua sposa, bella, senza rughe, sempre giovane che genera la sua presenza tra gli uomini, la tutta santa. È questa madre che serviamo, che non smettiamo di scoprire liberandoci dai nostri giudizi che finiscono per non farcela riconoscere nei tratti umani dei nostri fratelli e sorelle che amiamo come sono, non come vorremmo fossero, compagni di strada provvidenziali e nostra famiglia. È una madre che ci è affidata e che domanda santità e non quello che avanza. È una madre che ci chiede un amore intelligente, insomma il meglio di noi stessi perché non ci accontentiamo per lei di quello che viene, ma cerchiamo quello che le serve, la cosa più bella, perché madre nostra e di tanti. Quanto appaiono vecchie e ingiuste delle letture “politiche”, dietriste, di questa madre, lei perfetta mentre gli uomini, lo sappiamo, non lo sono! Le nostre differenze sono una ricchezza e non per ridurci a etichette o categorie. Siamo i suoi familiari – e dobbiamo esserlo – e allo stesso tempo dobbiamo toglierci sempre i sandali di fronte alla sua santità.

La amiamo santa anche con tutte le cose che non vanno, che a volte sappiamo elencare ma che non devono diventare motivo di freddezza o di sottile distanza, perché ci chiedono di cambiare e di risolverle. Altrimenti crescono in noi le pericolose radici dell’amarezza. Che vantaggio c’è a conservare la puntigliosa memoria di tante pagliuzze se non riusciamo più ad amare l’altro, a guardarlo con occhi buoni, amorevoli, ingenui? Questa è la conversione che ci è proposta dal Natale e da questa madre che, come Maria nel Vangelo che ci è stato proclamato, corre incontro a noi, cerca speranza, conferma. Ella oltrepassa tante montagne e ci viene incontro per prima. Lei ha speranza, non aspetta e muove anche noi a scoprire e gioire per il futuro che inizia e che è insieme.

Come Elisabetta siamo chiamati a confermare la speranza che Maria porta con sé e a farlo con gioia, con entusiasmo. Aiutiamola a rispondere alla domanda di tanti cuori feriti, disillusi per una tempesta che non accenna a terminare e della quale non si vede la bonaccia ma che per questo sfida ancora di più ad essere persone di fede. Come Elisabetta con il nostro servizio aiutiamo questa madre a cantare la gioia degli umili, a vedere gli affamati saziati, a essere forti nell’amore.

Capiamo la grazia di aiutarla perché Elisabetta scopre la gioia della vita che sussulta in lei e aiuta Maria a cantare il Magnificat. Elisabetta e Maria vivono per prime la comunione frutto dello spirito, forza dei credenti, molto più dell’organizzazione pure così necessaria, molto di più della partecipazione, perché Elisabetta gioisce per lei e fa sua la gioia di Maria. È così anche per noi quando vediamo le comunità crescere, i poveri essere raggiunti dal Vangelo di amore, i ciechi nel buio della solitudine vedere la luce dell’amore. Così capiamo il frutto del nostro servizio. Elisabetta è l’umile che aiuta l’umile. “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”.

Tutto è grazia e se tutto lo viviamo con questa consapevolezza possiamo goderne la ricchezza e sentirla nostra. “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. È proprio quello che Nicodemo non credeva possibile! Anche noi possiamo essere come lui – esperti nel conoscere i limiti ma incapaci di superarli – che sa tutto quello che non va ma fa di questa conoscenza motivo per non credere più a niente, per dimostrare tristemente che non si può cambiare. Elisabetta è piena di Spirito Santo. Sì, anche noi, pure se siamo avanti negli anni, possiamo rassicurare questa madre che genera la presenza di Dio. Non la vediamo ancora, siamo anzi preoccupati perché non sappiamo come sarà, ma già oggi possiamo accogliere Gesù, ne possiamo parlare e proteggerlo e sappiamo che sarà bellissima. La nostra forza è la comunione, frutto dello Spirito.

La Curia e gli uffici vivono e amano questa comunione. Elisabetta parla e ascolta. Dobbiamo farlo anche noi, non facendo mancare le nostre parole, nel confronto, sapendo che tutto edifica, concorre al bene e tutto può aiutare questa madre che ha tante preoccupazioni. È un frutto della comunione, delicatissima tanto che basta parlarne senza rispetto per ferirla. Non indeboliamola! Che anzi, insieme a noi, tanti possano dire di questa nostra Madre che è la Chiesa di Bologna: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!”.

Bologna, Cattedrale
21/12/2021
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