messa presso l’istituto di ematologia ed oncologia medica dell’ospedale Sant’Orsola

Policlinico Sant'Orsola

Questa eucaristia – proprio perchÈ viene celebrata in un luogo che per le azioni liturgiche è insolito e del tutto eccezionale – ci aiuta a collocare in una più vivida luce una parola pronunciata da quello stesso Signore Gesù, che con questo rito noi oggi qui rendiamo realmente presente.

Gesù ha detto: “Ero malato e mi avete visitato… Qualunque cosa avete fatto per un solo dei miei fratelli, l’avete fatta a me” (cf Mt 25, 36.40).

Il Figlio di Dio si è dunque identificato con quanti sono indeboliti e appenati dalla malattia, tanto da ritenere rivolta personalmente a lui ogni attenzione, ogni cura, ogni fatica indirizzata a rianimare chi deve rimpiangere la sua buona salute, a lenire la sua sofferenza, a far rinascere la sua fiducia.

È un’affermazione commovente e una verità stupenda; e basterebbe da sola a rendere il cristianesimo unico e imparagonabile nella storia spirituale dell’umanità.

Consentitemi allora che, in questa sede, a nome di colui che ha pronunciato quelle sublimi parole, io, che come successore degli apostoli lo rappresento, esprima riconoscenza, ammirazione, ringraziamento a quanti – a vario titolo e a vario livello – spendono le loro energie in questa casa del dolore e della speranza e a quanti contribuiscono nei più diversi modi alla vitalità e alla operosità di questa preziosa istituzione.

La degenza in luogo di cura offre spesso delle opportunità che – a viverle bene – sono di grande vantaggio non solo al fisico ma all’uomo integrale.

È una pausa – sia pure forzata – nell’attività dispersa e tumultuosa dell’esistenza, che può rivelare prospettive nuove e insospettate sulla propria vita, può dare l’esperienza della propria insufficienza, può persuadere a diventare più umili, più comprensivi, più generosi, può impegnare a mettere un po’ di ordine e di pace nei propri comportamenti.

L’uomo, messo di fronte all’enigma del dolore, è poi indotto a farsi le domande più profonde, più inquietanti, più salutari, che spesso nella cultura dominante sono censurate.

Si chiede, per esempio: la vita umana è posta sotto il segno di una fatalità cieca, impietosa, assurda, o è invece guidata da una saggezza paterna, che è più alta della nostra capacità di comprensione?

C’è qualcuno, in qualche luogo, che può risolverci questa questione ineludibile e capitale?

La celebrazione che stiamo compiendo ci risponde: sì, qualcuno c’è che ci scioglie il problema, anche se la sua risposta è avvolta nell’ombra – ma è un’ombra rasserenante – della fede.

Nella pagina evangelica che abbiamo ascoltato, Gesù ci insegna il valore infallibile della preghiera, che ci può davvero aiutare a sollevarci a un’altezza spirituale cui l’uomo non potrebbe mai giungere senza salire, sorretto dalla fede, la scala difficile della sofferenza.

“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate vi sarà aperto” (cf Lc 11,9).

Che cosa vogliono dire queste frasi del Signore? Vogliono dire che abbiamo sopra di noi un Padre che ci ascolta sempre e ci ama sempre, anche quando sembra che non si muova alle nostre invocazioni di soccorso.

Il Padre del cielo ci esaudisce sempre; solo che ci esaudisce secondo i suoi disegni, che sono sempre disegni di sapienza e di amore, più che secondo le nostre richieste letterali. Si è comportato così anche con il suo Unigenito, oggetto di tutte le sue compiacenze, quando Gesù si è trovato davanti alla previsione tremenda della sua passione e ha gridato a lui.

C’è a questo proposito un passo della lettera agli Ebrei, che è forse il più misterioso e il più alto di tutto il Nuovo Testamento: nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberalo dalla morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,7–9).

Viene qui evocata la scena impressionante della preghiera nel Getsemani, quando Gesù – ci dicono gli evangelisti – davanti al calice di dolore che gli veniva proposto, provò, proprio come uno di noi, “tristezza”, “paura”, “angoscia” (cf Mt 26,37; Mc 14,34; Lc 22,43).

E, con tutte le fibre della sua atterrita e dolente umanità, imlporò l’aiuto del Padre. Il Padre “lo esaudisce”, non scampandolo dalla crocifissione e dalla morte, ma dandogli molto di più: la vittoria pasquale della risurrezione, principio di vita nuova e felice per lui e per tutti coloro che si conformano a lui.

Su quanti qui sono ospitati e curati, su quanti qui lavorano al servizio dei fratelli, su quanti qui studiano e ricercano per il bene di tutti, noi sollecitiamo con questa celebrazione la grazia e la consolazione del Signore risorto.

08/10/1998
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