Natale degli universitari

Il profeta Isaia ci apre una prospettiva larga, descrivendo come “alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e ad esso affluiranno tutte le genti”. Non ci si salva da soli, ma pensandoci insieme, credendo che tutte le genti trovano la salvezza. Quanto è miope e pericoloso credere di salvarsi da soli, con egoismi individuali o di gruppo. E quanto, al contrario, possiamo aiutare a realizzare la visione del Profeta, sogno di Dio che in realtà risponde alla speranza più profonda che portiamo nel nostro cuore, desiderio di vita che è scritto nel cuore di ogni uomo. Se guardiamo il mondo intorno a noi – e quanto dobbiamo alzare lo sguardo che teniamo narcisisticamente rivolto a noi stessi – lo vediamo attraversato da tante incertezze, segnato da correnti terribili e invisibili di interessi che provocano povertà, che armano mani e mettono un popolo contro l’altro. Il sogno del Profeta appare impossibile a realizzarsi, un’utopia dalla quale difendersi perché ingannevole. Pensiamo che solo il realismo rassegnato ci faccia trovare quello che è possibile. La visione di Dio è l’unica speranza possibile, perché altrimenti non c’è futuro per l’uomo e per il mondo! La speranza non è un sogno lontano, tanto che nel frattempo siamo indotti a chiuderci, a rassegnarci, a tirare a campare, a cercare il piccolo interesse. Senza speranza ci si accontenta del poco, si diventa cinici e vittime della realtà che non si vuole più cambiare. Senza speranza non si entra nella storia, si resta in una dimensione solo soggettiva, pure importante, ma che ci isola e ci rende molto vulnerabili alle sirene del consumismo. Come quando portiamo l’auricolare e proviamo un’infinità di sensazioni: vediamo tutto intorno noi, ma in realtà non ascoltiamo e non parliamo con nessuno. I sogni non sono piccoli, ma grandi; non sfuggono i problemi, li affrontano, trasformandoli. “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Ecco il monte è un mondo di pace, ma questa inizia dal mio donare intelligenza e amore, difendendo il bene comune. E non dimentichiamo che il sogno è anche una lotta indispensabile, perché altrimenti non c’è futuro. Il sogno si scontra con coloro che forgiano le spade, che armano le mani per i calcoli ignobili degli uomini, che vendono le armi e condizionano le scelte delle nazioni.
La speranza chiede uomini forti, non ingenui ottimisti. Difendiamo il diritto alla speranza iniziando da noi, per combattere contro la retorica della paura e dell’odio, che fa credere di trovare risposte senza sacrificio, senza perseveranza, con una scelta muscolare per poi addormentarsi. Il diritto alla speranza è Gesù che lo indica e ce lo affida.
Quanto è importante l’invito insistente di papa Francesco: non fatevi rubare la speranza. Perché avvenga, infatti, ci vuole poco: basta lasciare che qualcuno la spenga, con il cinismo, il calcolo, il tornaconto personale che è messo prima di tutto.
La speranza ci chiede di scegliere perché non sia un miraggio da raggiungere. Il futuro dipende da me e il futuro inizia oggi. Non lasciamoci rubare la speranza. La toglieremmo agli altri. Diceva don Milani che “chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo”. Il cristiano costruisce il futuro, non lo attende soltanto. Scriveva don Tonino Bello: “Il cristiano ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma. Ha la passione del veggente, non l’aria avvilita di chi si lascia andare. Cambia la storia, non la subisce. Ricerca la solidarietà con gli altri viandanti, non la gloria del navigatore solitario”.
Ci ha chiesto Papa Francesco che l’università, e quindi gli universitari, sia “Cantieri di speranza, officine dove si lavora a un futuro migliore, dove si impara a essere responsabili di sé e del mondo!”. Ci ha invitato a sentire la responsabilità per l’avvenire della nostra casa, che è casa comune. A volte prevale il timore. Ma oggi viviamo una crisi che è anche una grande opportunità, una sfida all’intelligenza e alla libertà di ciascuno, una sfida da accogliere per essere artigiani di speranza. E ognuno di voi lo può diventare, per gli altri.
Non abbiamo una risposta per tutto. Il centurione porta a Gesù la domanda più alta e vera dell’uomo. Ha interesse per il suo servo e soprattutto per la sua sofferenza terribile. Porta nei suoi occhi e nel suo cuore quel dolore inaccettabile come sempre lo è. Il dolore chiede vita e domanda guarigione, intelligenza, disponibilità, non morte.  Il centurione ha carità verso il suo servo. Questo apre alla vera intelligenza, potremmo dire che è l’inizio dell’umanesimo.  La ricerca del bene, infatti, è la chiave per riuscire veramente negli studi; l’amore è l’ingrediente che dà sapore ai tesori della conoscenza e, in particolare, ai diritti dell’uomo e dei popoli.
Il centurione non piega il suo lavoro al proprio interesse, all’affermazione di sé a qualsiasi prezzo e mette l’uomo, quel suo servo, al centro. Ogni lavoro, anche il più arido, può dare sempre tanta opportunità di aiutare, se al centro c’è l’uomo. Cerca una risposta. E la cerca proprio da Gesù. “No, lo studio serve a porsi domande, a non farsi anestetizzare dalla banalità, a cercare senso nella vita”.
Si fida della Parola di Gesù e si mette in camino senza avere sicurezza. Questa è la fede. Non avere le prove di tutto, ma credere in quello che ancora non c’è. Ed è mettersi in cammino. Credete nella Parola, leggetela, prendete il vangelo con voi. Mettersi in cammino è costruire la cultura, perché Cultura – lo dice la parola – è ciò che coltiva, che fa crescere l’umano. “E davanti a tanto lamento e clamore che ci circonda, oggi non abbiamo bisogno di chi si sfoga strillando, ma di chi promuove buona cultura. Ci servono parole che raggiungano le menti e dispongano i cuori, non urla dirette allo stomaco. Non accontentiamoci di assecondare l’audience; non seguiamo i teatrini dell’indignazione che spesso nascondono grandi egoismi; dedichiamoci con passione all’educazione, cioè a “trarre fuori” il meglio da ciascuno per il bene di tutti. Una ricerca che riconosce i meriti e premia i sacrifici, una tecnica che non si piega a scopi mercantili, uno sviluppo dove non tutto quello che è comodo è lecito.
Per realizzare questo è possibile per ognuno di noi sacrificarsi, studiare, ricercare perché l’uomo possa trovare le risposte che cerca, di cui ha disperato bisogno perché soffre sempre terribilmente. Questa è la passione di costruire il futuro.
Don Milani, figlio esigente e obbediente della Chiesa, pregava così con i suoi ragazzi: “Signore, io ho provato che costruire è più bello che distruggere, dare più bel che ricevere, lavorare più appassionante che giocare, sacrificarsi più divertente che divertirsi. Signore Gesù fa che non me ne scordi più”. Questa casa, che è madre nella fede, ce lo ricorderà sempre e ci aiuterà a viverlo.

04/12/2017
condividi su