Omelia III domenica di Avvento, in memoria di don Giussani

Gaudete! «Rallegratevi sempre nel Signore: ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino». Chiedere di rallegrarci sembrerebbe voler dire non prendere sul serio le nostre difficoltà. Siamo alla ricerca di benessere (spesso a saldi o in sostanze) e non di gioia, che pensiamo di trovare prendendo e non donando, possedendo e non regalando, avendo e non essendo.

Morsi tutti dal serpente sempre ingannevole dell’egoismo, con il veleno delle paure e della diffidenza, finiamo attratti da una felicità che deve affermare il proprio io e ha come idolatria il proprio star bene, tanto da ignorare la sofferenza del nostro prossimo. E non faranno così con noi? La gioia vera, invece, attraversa la croce, non la evita, perché non c’è gioia nel salvare se stessi; non c’è gioia in tanti rapporti e nessun legame, in una vita pornografica che rovina quella vera che è sempre segnata dalla fragilità, dalle contraddizioni, dalle miserie, dai limiti, eppure bellissima e piena di vita.

La gioia è nell’amare e sentirsi amati così come si è, ed è l’amore che ci cambia e ci fa trovare quello che desideriamo. Il benessere si perde, la gioia si trasforma, si adatta e «sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto» (EG 6). E questo spiraglio non è mai anonimo, ma arriva con un nome, un incontro, un fatto.

Ecco, oggi è proprio la domenica del “gaudete”: siamo nella gioia, che è il desiderio di ogni persona, il «presentimento del mistero divino» diceva Papa Paolo VI. Questa celebrazione per don Giussani illumina la nostra memoria, così umana e cristiana, e ci dona di rivivere, di sentire insieme a noi il popolo di persone che hanno camminato con noi e sono entrate nella festa che «sta per cominciare» sulle rive del mare di Dio. Esse camminano con noi nella comunione dei santi!

Ci rallegriamo perché nella memoria ritroviamo oggi la nostra Galilea, l’amore dell’inizio, lo spiraglio che si è fatto strada nel nostro cuore e lo ha illuminato di amore. Farlo non è orgoglio, malinconia o nostalgia, così facili quando la speranza si perde e si vive di passato perché non si cerca il futuro. Sento, allora, una prima indicazione importante per me, per il mondo, per la Chiesa, talvolta spaventata (può esserlo?), per il Movimento: essere gioiosi e trasmetterlo con la nostra vita.

Non vogliamo una Chiesa respingente e triste, altera nei suoi giudizi, che si accontenta di avere ragione, distaccata invece di essere madre attraente, esigente e appassionata, luminosa di verità e di amore personale, che con tenerezza dimostra quanto non può fare a meno dei suoi figli. La gioia è la premessa di tutto questo. In una lettera di fine agosto 1945, tre mesi dopo essere stato ordinato sacerdote, Giussani scriveva: «Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione. L’aspirazione dell’amicizia è l’unione, è quella di immedesimarsi, impastarsi, diventare la stessa persona, la stessa fisionomia dell’Amico: … ma Gesù è in Croce… la gioia più grande della nostra vita è quella che ad ogni piccola o grande sofferenza ci fa scoprire: “ecco, ora sei più simile”, più “impastato con Lui”. La vita per la felicità degli uomini, per l’amicizia di Gesù è l’unico assillo nella vita: l’amicizia di Gesù Cristo, la felicità degli uomini. Ed il resto… vanitas vanitatum».

La grazia che celebriamo è proprio questa: non ha vissuto inutilmente e sentiamo la gratitudine della sua e nostra vita “bella” (non perfetta: bella!), piena delle nostre contraddizioni e miserie. Ringraziamo Dio per don Luigi Giussani, padre appassionato e rispettoso, comprensivo e radicale, che parlava a tutti e sembrava parlasse a te, che non si esibiva ma comunicava quello che viveva, si comprometteva, non solitario ma dentro una compagnia che era sua e nostra. Il Vangelo non è una regola ma un incontro. A che serve essere attenti alle regole se poi non ci lasciamo incontrare e non incontriamo l’altro, non per colpa sua, come facilmente pensiamo, ma nostra? Nell’ultima lettera a Giovanni Paolo II, del 26 gennaio 2004, scrisse:«Non solo non ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».

Il secondo invito che rivolgo a me e a voi tutti è: siate personali nel vivere l’incontro. Che incontro sarebbe se anonimo, meccanico, paternalista, senza relazione? Essere personali non significa affatto fare da soli! Questo lo crede, tristemente, il mondo, pieno di protagonisti che non sanno pensarsi insieme. L’io e la compagnia, la coscienza e l’appartenenza non sono affatto divergenti, anzi, hanno bisogno l’uno dell’altro per esistere. Gesù non è venuto a chiamare tanti liberi professionisti del suo Vangelo! Essere adulti non significa affatto diventare individualisti, ma essere interiori, restando inquieti sognatori che entrano nella complessità della vita e non ci perdono. Allora vorrei rivolgere a me e a voi un terzo invito: tornare alla Galilea, che vuol dire scoprire e riscoprire l’amore della prima volta, lo stupore dell’inizio e donare una Galilea a tanti, come è accaduto per noi. Si può fare solo quando non ci si sente proprietari, quando non disperdiamo il dono, il carisma con lo scetticismo, non pieghiamo tutto alla convenienza.

L’incontro dell’inizio non diventa una lontana e impersonale ispirazione, ma un oggi che ci chiede di stupirci ora di tanto amore. Negli Esercizi della Fraternità di CL del 1993 Giussani disse: «Cristo si voltò ed ebbe pietà di loro, perché era come gregge senza pastore». «Il mondo è un gregge di violenti senza pastori. Il mondo è un gregge di violentati senza pastore, senza guida e difesa. Noi dobbiamo diventare il suggerimento buono, la guida discreta, la difesa, dobbiamo diventare padri e madri di tutti gli uomini che accostiamo».

«[…] Questa pietà di Cristo per il mondo è l’ultimo brandello di lagrima che nel nostro cuore penetra, come una cosa infocata, come l’inizio della crocifissione, della croce e della morte: la vita, tutta la nostra vita, dovremmo mettere nelle mani di Dio, disponibile per il bene degli altri, per il bene del mondo». Ma ricordiamo che «è attraverso la responsabilità quotidiana dei nostri rapporti “obbligatori” e del nostro lavoro che la sincerità di questa pietà divina, di questa pietà cristiana, realmente influisce su tutto ciò che ci circonda». Attraverso di noi. Per questo Papa Francesco vi ha chiesto di trovare i modi e i linguaggi adatti perché il carisma che don Giussani vi ha consegnato raggiunga nuove persone e nuovi ambienti.

Infine: Giovanni Battista è prigioniero, ma non è prigioniero della delusione e della diffidenza, non si lascia coinvolgere dalle opportunità e classifiche degli idolatri di Erode, dalla mentalità opportunistica o predominante. La sua attesa diviene quasi angosciosa: «Sei tu che devi venire?». Forse vuole solo sentirselo ridire, visto che lo aveva indicato, lui presente, e aveva detto a tutti: «Ecco è Lui! Ecco, l’Agnello di Dio». Forse, inaspettati e conturbanti, si erano riaffacciati in lui dubbi, incertezza, confusione. In prigione sente con angoscia l’attesa della liberazione vera da quella “scatola nera” nella quale siamo tutti prigionieri.

Gesù rassicura Giovanni Battista. Lo libera dai dubbi e non si scandalizza che questi vengano. Non lo lascia però nell’incertezza, come se questa significhi maggiore ricerca, e come se conosciamo di più quando tutto è aperto. Nella foresta della vita trovare un’indicazione e smettere di seguire tutte le strade perché si è smarriti, credendo di poter fare tutto – ho letto nella vostra mostra – è libertà vera!

Nella certezza e nella fedeltà a questa possiamo essere anche pieni di vera inquietudine, perché noi abbiamo incontrato amore, non un’ideologia. E l’amore non si accontenta! Giussani non ha smesso di interrogarsi, di scoprire e riscoprire. E se c’è questo, cioè la preoccupazione per l’uomo, non avrete paura delle diverse sensibilità e del confronto tra di voi e vi risulteranno fastidiose e inaccettabili le forze dispersive o il trascinarsi di vecchie contrapposizioni. Comunione è unità.

Gesù a Giovanni prigioniero fa vedere segni concreti, non imponenti, tutti molto umani, legati a persone che ritrovano gioia, se stesse: una persona che riprende a camminare, un cieco i cui occhi si aprono alla luce, un malato che sperimenta la guarigione di essere se stesso. Giussani ci ha insegnato a vedere i segni nei tanti miracoli dell’amore di Dio e a diventarlo noi stessi nella caritativa ufficiale e in quella informale. Senza misure e orari, quotidianamente, con un atteggiamento di attenzione verso tutti. Amandoci tra noi senza limiti e con tanta pazienza, incontrando tutti, e liberamente parlare e legarsi a tutti i Pavese, i Leopardi, i Pasolini di oggi, magari con meno letteratura ma con la stessa ricerca umana.

Giussani non ha edulcorato il cristianesimo, rendendolo zuccheroso, borghese, ma lo ha vissuto forte, appassionato, radicale, personale nell’incontro perché dove c’è la verità dell’uomo incontriamo Gesù. È allora il tempo di un nuovo slancio, di aiutare il Papa nella profezia della pace e tanti a sconfiggere la logica della violenza. Capiamo il dono che siamo, la bellezza di questa nostra vita così ricca di segni, bellissima non perché non ha problemi ma perché piena di amore!

Anche di una compagnia “affidabile”, umana, non virtuale o funzionale all’individualismo, con la quale camminiamo da tanto tempo. Nell’ultimo intervento agli Esercizi della Fraternità di CL disse: «Perché la vita è bella: la vita è bella, è una promessa fatta da Dio con la vittoria di Cristo. Perciò ogni giorno che noi ci alzeremo dal letto – qualunque sia la nostra situazione immediatamente percepibile, documentabile, anche la più sofferente, inimmaginabile – è un bene che sta per nascere ai confini del nostro orizzonte di uomini. Auguri a tutti, perché ognuno sulla strada della sua vita trovi emergenza del bene che è Cristo risorto, trovi l’aiuto di ciò che desta per gli uomini la positività che rende ragionevole il continuare a vivere». È come la sua benedizione.

«Domine Deus, in simplicitate cordis mei laetus obtuli universa». «Signore Dio, nella semplicità del mio cuore lietamente Ti ho dato tutto». Nel suo intervento agli Esercizi dei Novizi dei Memores Domini nel 2003 aveva detto, e faccio mie queste sue parole: «O Gesù, mio dolcissimo Signore, compagno! Ma in qualsiasi posizione siamo, qualsiasi sia la posizione da cui partiamo, il sentimento che ci invade, non c’è niente che possiamo dire più veramente, in qualunque condizione ci troviamo, se non questa: Oh Jesu mi dulcissime, speranza di un animo che sospira. […] O Gesù mio dolcissimo, amico, fratello, compagno, è con te che io cercherò di trascinarmi tutti gli uomini che incontrerò, di trascinarmeli con te Signore, perché il nulla non abbia nessun possesso a nostro carico».

E così è e così sia.

Bologna, Cattedrale
11/12/2022
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