Omelia per la Messa del ritiro dei diaconi permanenti

Il profeta ci comunica le sue fatiche interiori. Quante domande, dubbi, sofferenze, incertezze sull’amore che la disillusione, la fatica, le avversità, la forza del male fanno apparire come contrario alla realizzazione dell’io. Il Signore ci ha sedotto come se ci avesse imbrogliato? Ha fatto violenza, ha forzato il nostro cuore, ha imposto una scelta approfittando di noi? Il profeta ci fa affrontare il pensiero della solitudine, che a volte si riaffaccia, non richiesto, che approfitta delle difficoltà per insinuare la tiepidezza, il distacco da qualcosa che sembra causare difficoltà. È facile, lo sappiamo, prendercela con chi ci ama e, invece di coltivare il ringraziamento e la lode, pensiamo che saremmo stati meglio senza, sentendoci vittime. Il profeta si misura con le incomprensioni, con la durezza del mondo intorno che mette alla prova il nostro amore, che ci fa credere come se l’amore di Dio non fosse il nostro, come se Dio avesse lui dei suoi interessi e noi non avessimo problemi senza di Lui.

In realtà, il profeta affronta la vita com’è, si rende conto dell’assurdità di un mondo che non difende i piccoli, che si abitua alla violenza e al male, che rende il prossimo invisibile o addirittura nemico. I problemi ci sono comunque, come la violenza e l’oppressione. Il profeta, come tutti noi, è preso dalla paura, dalla tentazione di salvare se stesso scegliendo un amore mediocre. Si confronta con le personali contraddizioni, con la miseria del suo peccato, con la fatica della fedeltà ordinaria. Il suo amore lo rende scherno in un mondo che calcola tutto, che giustifica di vuotare i magazzini di grano e si affretta a riempire gli arsenali. È per lui insopportabile un mondo così, non ne può più e pensa che il problema sia smettere di amare, fare come tutti, lasciar perdere. Il pensiero della solitudine, del “salva te stesso”, della pigrizia, fa apparire tutto pesante, inutile, tanto che il problema sembra essere l’amore stesso e non il mondo che vuole spegnerlo.

Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!”, cerco di farmi gli affari miei, di dire “me ne frego”, sistemandomi in un posto tranquillo, smettendo di amare, di combattere il male con il bene, di sacrificarsi. Spesso il pensiero della solitudine si consuma nella tiepidezza, nel ridurre l’amore a una regola, nel lasciar perdere o rimandare. Il profeta scopre però che nel suo cuore c’era come un fuoco ardente. Ecco, capisce che il Signore accende di vita la nostra vita e che non c’è vita senza amore, perché è nostro e suo. L’amore non era da fuori, ma dentro, ed è quello che risponde alla domanda più vera della mia vita, che mi rende persona, che mi fa essere me stesso.

Scopre che il Signore non è un’entità distante, estranea, tanto da pensare che limita il proprio io, e da cui difendersi, mentre è nel mio stesso cuore. Il Signore è fuoco che arde nel mio cuore, nella parte più vera e intima di me stesso, quando non mi faccio comandare dalle emozioni di superficie, quelle che mi fanno credere che tutto è possibile e senza prezzo. Quel pensiero di solitudine ci fa scoprire la nostra vocazione, la gioia per un amore che rende vivo il cuore, che illumina la mente, anima le mani. Il suo amore è il mio, con un rapporto personale, libero, da amico non da servo costretto a farlo. E questo fuoco non lo possiamo vincere. Diceva Sant’Agostino: “Tu eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta”, “tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; Tu eri dentro e io fuori. Eri con me, ma io non ero con te. Hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”.

Per questo si raccomanda l’apostolo: “Non conformatevi a questo mondo, ma rinnovate il vostro modo di pensare, per capire la volontà di Dio” che è quella di rendere piena e bella la nostra vita. È molto facile conformarsi al mondo e certi antagonisti che si sentono diversi, perché condannano, ne diventano in realtà pienamente funzionali. Non conformiamo al mondo anche la famiglia di Dio, chiamata ad essere una cosa sola, dove tutto ciò che è mio è tuo, dove fare a gara a stimarsi a vicenda, che non ha nemici perché combatte solo il nemico. Ci conformiamo al mondo quando prevalgono i protagonismi, quando non sappiamo lavorare con gli altri perché stiamo attenti alla nostra considerazione e al nostro ruolo, quando amiamo solo se abbiamo convenienza, facciamo preferenze e finiamo per allontanare i fratelli più piccoli di Gesù.

Ci conformiamo al mondo quando lasciamo che l’odio e l’indifferenza trovino spazio e giustificazione nel nostro cuore e nella stessa famiglia di Dio. Noi ci conformiamo a Gesù, perché è amore che mi ama e mi insegna ad amare, che mi dona il perdono di cui ho sempre tanto bisogno, che mi rende consapevole del mondo intorno e mi aiuta a lavorare nella messe seminando il suo seme di pace e di bene. Gesù non ci fa una lezione di amore. Ama. Non ci spiega cos’è la sofferenza. Soffre. Non usa luoghi comuni e banalità per spiegare tutto. Ci chiede di seguirlo per risorgere con Lui. Ci indica i suoi fratelli più piccoli perché possiamo fare loro quello che vogliamo fare a Lui e vorremmo sia fatto a noi. Non c’è resurrezione senza affrontare il male e anche non c’è sofferenza che non giunga alla resurrezione! Noi vorremmo evitare il male, e anche di combatterlo vincendolo come Pietro, mettendo tutto a posto senza prezzo. Pietro ama Gesù ma si scandalizza della sua debolezza e del soffrire per gli altri! Deve imparare qual è la vera forza e ad amare fino alla fine, cioè senza fine.

Gesù gli rivela che pensa come Satana, il male, che lo tenta all’inizio e alla fine della sua vita, sempre con la vera tentazione: pensa per te, cerca il tuo potere, piega tutto a te, “salva te stesso, non gli altri”, “dimostra chi sei”. Gesù scandalizza la religione del benessere, così banale e persuasiva. Solo chi perde se stesso si trova. Non imprestare qualcosa, non vedere se conviene ma perdere, cioè regalare tempo, cuore, mente, risorse, farlo solo per amore e solo per amare. Ecco la libertà dell’amore. Perdere significa donare la pace e il bene, sempre e a tutti. In questo mondo incattivito, che fa crescere l’odio e si sente in diritto di coltivarlo, pieno di paure, il Signore ci fa ardere di amore suo e nostro e ci libera dalla tentazione di possedere, di tenere per noi, perché solo dopo che abbiamo perduto troviamo e vinciamo il male e la morte.

Bologna, Villa San Giacomo
03/09/2023
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