pasqua degli universitari

Bologna, Cattedrale

“Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (Gv 8,56). Nell’accesa discussione con i Giudei, Gesù non si lascia travolgere: sa levare il suo sguardo verso l’alto, sa oltrepassare la meschinità di un diverbio, e arriva a percepire la realtà eterna e più vera: il mondo invisibile del Creatore dell’universo, accanto al quale vivono e gioiscono gli amici di Dio.

E quando celebrerà la sua ultima Pasqua (quella Pasqua che noi rievocheremo tra poco, nei giorni intensi e ricchi di grazia della Settimana Santa), egli la vivrà appunto come un “passaggio” a quel mondo invisibile; un trasferimento cruento e vittorioso dai giorni faticosi e doloranti della vita terrena alla gloria splendente della casa del Padre. Come ci dice ammirevolmente l’evangelista Giovanni nell’iniziare il racconto dell’ultima cena e della passione del Signore, “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di “passare’ da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).

La nostra “pasqua” – il nostro “passaggio”, perché questo è l’accezione originaria della parola – dovrà consistere essenzialmente nel ripercorrere nella luce della fede lo stesso cammino di Cristo e raggiungere o ravvivare, oltre il velo di ciò che appare, la persuasione salvifica che il mondo invisibile esiste, che non è lontano, che traluce nelle cose che quotidianamente incontriamo, che nella vita ecclesiale esso ci è già sostanzialmente donato.

Convincerci di ciò che affermiamo nel Credo, e cioè che esistono non solo le “cose visibili” ma anche quelle “invisibili”; che non c’è solo la “terra” del nostro faticare e del nostro sperare ma anche il “cielo” e la “vita del mondo che verrà”; che non c’è unicamente il deserto del mondo secolarizzato ma altresì il “santuario celeste” dove il Crocifisso glorificato è penetrato come nostro precursore e nostra guida: ecco la premessa indispensabile perché la nostra Pasqua sia autentica e non si riduca a una convenzionale formalità.

Nel mondo invisibile – dove tutti buoni e cattivi fatalmente approderemo – la nostra vicenda ha il suo sbocco immancabile e si iscrive per sempre il nostro destino. Gli uomini, che da Dio sono stati pensati e voluti nel mondo invisibile, nel mondo invisibile acquistano la loro situazione definitiva: una situazione, non dobbiamo mai dimenticarcelo, che dipenderà dall’uso che avremo fatto della nostra libertà.

Chi si mantiene in questa prospettiva vede in modo radicalmente diverso le singole esistenze e l’umanità intera. Le generazioni che passano sulla ribalta della storia non sono come i pulviscoli che, attraversando un raggio di sole, brillano per un istante e subito ripiombano in un’oscurità senza ritorno: nessuno svanisce nel nulla di quelli che sono vissuti, ma tutti vanno a popolare appunto quel mondo che non vediamo.

Nel mondo invisibile sta anzi la ragione della grandezza dell’uomo: ogni persona individua – anche la più sconosciuta e trascurata – non è una foglia sull’albero della collettività, destinata ad annullarsi nell’anonima polvere del suolo. Ogni uomo – con le sue generosità e le sue grettezze, con le sue illuminazioni e i suoi pregiudizi, con i suoi eroismi e i suoi cedimenti – si ritroverà in quel mondo con tutto quello che egli ha fatto, con tutto quello che egli è stato.

Singolarmente voluto e creato da Dio, singolarmente amato e redento dal sangue di Cristo, l’uomo costruisce azione dopo azione, decidendo responsabilmente secondo la luce della propria coscienza, il suo eterno stato di gioia o di pena. Di qui la grandezza tragica del tempo presente: i nostri giorni sono sì pochi e fuggevoli, ma in essi ognuno di noi si gioca la propria sorte nella vita che non passa più.

Ma è per noi più gratificante, più giovevole alla nostra serenità e alla nostra fiducia, fermare l’attenzione su quel mondo invisibile luminoso e lieto, che è la dimora di Dio, la dimora di Gesù che sta alla destra del Padre e della Vergine Maria, madre di Cristo e nostra, la dimora di tutti i figli di Dio che hanno lasciato la vita terrena nella speranza della futura risurrezione.

Ma dov’è questo mondo? E’ lontano da noi o ci è vicino? Anche se la fantasia ce lo fa talvolta immaginare di là dalle stelle o ce lo fa rimandare oltre la fine dei secoli, nella realtà è da noi separato soltanto da un filo: un filo tenue come il nostro respiro. Anzi, se è vero che Dio è dappertutto e dove c’è Dio ci sono tutti i suoi figli ormai inseparabili da lui, noi siamo già avvolti da questo mare di felicità, siamo già immersi in questo regno “che solo amore e luce ha per confine” (Paradiso XXVIII, 54).

Da questa stupenda certezza, anche la nostra preghiera acquista palpiti nuovi e nuove risonanze esistenziali. Essa non può ridursi al monologo di un solitario che sfoga con se stesso la carica dei suoi sentimenti, ma diventa una conversazione appassionata con persone amabili e amate che, sia pure oltre il velo, ci sono accanto vive e presenti. La preghiera si fa poi davvero toccante e rinnovatrice quando, al cospetto di questi invisibili interlocutori, sperimentiamo il brivido della nostra miseria e ci sentiamo incalzati dal desiderio struggente di conversione per essere meno indegni della loro trascendente familiarità.

E se qualche volta, come è giusto, preghiamo a voce alta e cantando, non è per farci meglio sentire di là (gli abitatori del mondo invisibile ci leggono senza sforzo nell’anima), ma per coinvolgere nell’orazione tutto il nostro essere, che è spirito e corpo, per sostenerci a vicenda da fratelli nell’adorazione e nella supplica, per esprimere coralmente la nostra felice consapevolezza di essere il popolo che Dio si è scelto.

Dio che, unitamente alle creature beate, “abita una luce inaccessibile” (1 Tm 6,16), irradia però la sua bellezza e la sua verità da tutti gli esseri che quaggiù ci è dato di incontrare: “le sue perfezioni – dice san Paolo – ossono essere contemplate nelle opere da lui compiute” (Rm 1,20).

Non si capirebbero adeguatamente le creature terrestri, che ci sono care fino talvolta a sedurci, se ci si dimenticasse che esse (pur nella loro oggettiva consistenza) sono anche riverberi e segni del mondo superiore ed eterno. Sicché ogni misconoscimento, anche se soltanto di metodo, di quel mondo rischia di alterare l’esatta conoscibilità e di precluderci il senso della realtà di quaggiù.

I veri sapienti sono i santi che, per la purezza del loro cuore, sanno scorgere in ogni cosa una eloquente significazione della provvidenza amorosa del Padre. San Francesco nelle stelle “chiarite” (come diceva), nel fuoco “bello et iocundo et robustoso et forte”, nell’acqua “umile et pretiosa et casta”, nei “coloriti fiori et erba”, non solo riconosceva il dono ma sentiva anche tutto l’affetto inventivo del Donatore.

Ogni creatura diviene allora simile alla conchiglia che, messa all’orecchio, comunica una fievole eco del mormorìo del mare da cui proviene. Così il cuore credente percepisce in ogni essere la voce dell’immenso amore di Dio, che tutto ha creato per la conoscenza, il conforto, la gioia dei suoi figli.

Un pensatore acuto e non conformista come Ludvig Wittgenstein ha scritto: “Il significato dell’universo non sta nell’universo”. E’ dunque inutile cercarlo ecologicamente nella natura, o astronomicamente negli spazi siderali, o scientificamente negli arcani dell’infinitamente piccolo.

L’alternativa ineludibile è perciò questa: o rassegnarsi a un mondo senza significato, cioè assurdo, o appellarsi a un mondo diverso e più alto; il mondo invisibile appunto.

La grazia pasquale da chiedere diventa allora quella di riscoprire la verità e la prossimità a noi del mondo invisibile, la sua irradiazione su tutto ciò che vediamo e tocchiamo, soprattutto la connessione e la compaginazione di tutto in Gesù di Nazaret vivo e Signore, il quale – come dice l’inno della lettera ai Colossesi – ha riconciliato col Padre tutte le cose, “rappacificando con il sangue della sua croce le cose che stanno sulla terra e quelle che stanno nei cieli” (cfr. Col 1,20).

05/04/2000
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