XVII giornata mondiale della gioventù

Sabato 23 marzo - ore 17,15 - Aula Magna S.Lucia dell'Università

INTERVENTO IN OCCASIONE DELLA
XVII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÚ

Il problema del significato

Qualche anno fa – mi pare fosse il novembre dei 1991 – mi ha colpito (e mi ha molto rattristato) una notizia riferita dai giornali. Un ragazzo di Cesenatico si era ucciso lasciando scritto: “Ho avuto tutto dalla vita”. Sì, forse gli era stato davvero dato tutto: vitamine, proteine, adeguati percorsi scolastici, svaghi, piaceri; tutto, tranne il significato di tutto. E una vita piena di tante cose e vuota di senso all’improvviso gli è parsa insopportabile.

Dal cuore dell’uomo, soprattutto dei giovani, rampollano mille interrogativi (interrogativi curiosi, appassionati, magari anche spregiudicati, provocatori e contestativi); ma la domanda che conta, la domanda unica e vera, la domanda ineludibile è la domanda di senso. E’ questa la domanda che, prima di ogni altra, bisogna far uscire dal nostro mondo interiore.

Il significato della vita è il sale della vita: quando il significato non è colto, la vita rischia di apparire insipida e senza motivazione.

Una domanda censurata

Purtroppo la cultura dominante – che un po’ da tutte le parti ci assilla e ci condiziona – censura la “domanda di senso”. Invece del significato, offre dei miti ideologici; “miti”, cioè affermazioni senza giustificazioni oggettivamente convincenti, che però sono presentati come valori assoluti e indiscutibili: per esempio l’esaltazione delle ricerche e delle imprese scientifiche senza regole e senza limiti, l’attività sessuale senza ragione e senza scopo che non sia il suo stesso esercizio, l’egocentrismo individualistico (“faccio quello che voglio”, “io sono mia”, “vietato vietare”).

Se è vietato vietare, allora tutto è lecito (che bello!). Ma se tutto è lecito, niente importa sul serio: tutto è uguale, tutto si appiattisce, tutto cade nella palude dell’insignificanza (e questo non ci sembra più così bello!). E allora sorgono i drammi dell’alienazione e della noia intrinseca dell’esistere; ed è un malessere sottile, da cui si fatica a difendersi. Si è tentati allora di uscirne stordendosi e inseguendo sempre di più quel libertarismo comportamentale e quella vanificazione morale delle azioni e delle situazioni, che pure è all’origine del disagio: “come l’ebbro desidera il vino” (A. MANZONI, La Passione 53).

I giovani e la questione del “senso”

Il nocciolo della questione umana è dunque la questione del “senso”. Con gli adulti questo è un discorso difficile da fare: se non l’hanno capito prima di diventare persone importanti e “arrivate”, non lo capiscono più. Per i giovani invece c’è ancora speranza: i giovani – quando trovano il coraggio di fermarsi un po’ a riflettere autonomamente, al riparo dagli slogan dalle frasi fatte, dai vari imbonimenti culturali – riescono a capire che proprio questo è il problema; riescono a capirlo perché non sono stati ancora resi del tutto ottusi dalle preoccupazioni esteriori (come i guadagni, la carriera, le invidie professionali, gli odi di parte, l’amore alle comodità; che sono gli ossessivi e deludenti interessi dei “grandi”).

La domanda del “perché”

La domanda di senso è la domanda del “perché”. E’ importante sapere il perché di ciò che si incontra, di ciò che si fa, di ciò che si deve sopportare. Quando si sa il perché, si può superare tutto, anche la prova della sofferenza e del disagio. L’esempio più chiaro e persuasivo è il dolore del parto, che non è uno scherzo. Ma la donna lo sa sopportare bene, perché sa a che cosa serve; vale a dire, ne percepisce immediatamente la finalizzazione, cioè il senso.

Quando invece non si sa il perché, a lungo andare diventa insopportabile anche il piacere: difatti i suicidi sono molto frequenti tra quelli che si propongono unicamente, freneticamente, egoisticamente, di godersi la vita.

II

Dov’è il significato ?

Il significato è “altrove”

Wittgenstein – che non era credente, ma era un pensatore acuto e di grande onesta intellettuale – ha scritto una frase breve e lucidissima: “Il significato dell’universo non sta nell’universo”. Il che vuol dire che chi non vuol spingere lo sguardo oltre i confini del mondo, deve rassegnarsi a vivere senza significato; cioè si costringe a vivere nell’assurdo. E sono in molti questi “rassegnati al nonsenso”, perché così vuole la cultura dominante. Ci spieghiamo allora come mai oggi nei discorsi, nelle canzoni, negli spettacoli si fa così largo spazio al non-senso, ai ragionamenti senza capo né coda, agli sproloqui senza contenuto.

La frase di Wittgenstein potrebbe anche essere puntualizzata così: “Il significato dell’uomo non sta nell’uomo”. Perciò o l’uomo è un’assurdità insignificante oppure il significato dell’uomo è dato da un “altro”: un altro che sta “prima” dell’uomo e sta “sopra” l’universo.

E’ a questo punto che si pone la questione dell’ “altro”, cioè la “questione di Gesù Cristo”. Ed è una questione che non si può schivare: o presto o tardi nel nostro cammino terreno ci si imbatte in lui; e su di lui ci si deve decidere.

Gesù Cristo e il senso della vita

Che cosa c’entra Gesù Cristo con il senso della nostra vita?

Non c’entra niente se uno lo relega tra i defunti protagonisti della storia, tra i maestri più o meno ascoltati del pensiero umano, tra i predicatori della religione, della filantropìa, del pacifismo. Se uno lo mette in compagnia di Budda, di Confucio, di Maometto, di Gandhi, e di tante altre brave persone, vuol dire che l’ha già perso; vuol dire che l’ha estromesso dalla sua problematica esistenziale e dalla sua vicenda umana.

Ma se uno lo conosce e lo riconosce per quello che egli è – cioè il Figlio unico ed eterno fatto uomo, il Signore della storia e dei cuori, colui che nel quale tutte le cose sono state pensate e create, colui che è l’approdo di ogni esistenza – allora non c’è ideale di giovinezza che, consapevolmente o inconsapevolmenrte, non lo chiami in causa; non c’è impegno di vita che lo possa collocare ai margini; non c’è decisione esistenziale che in ultima analisi non coinvolga anche lui.

Allora ogni amore umano – ci si renda o non ci si renda conto – è inveramento o avvilimento del suo amore per lui; ogni elaborazione di pensiero è un avvicinamento o un allontanamento della sua verità sostanziale; ogni gioia è autentica e sostanziale se, più o meno direttamente, è riferita a lui ed è inquadrabile nella sua promessa di gioia senz’ombre e senza fine.

Essendo il significato ultimo di tutto, egli insaporisce e illumina ogni nostro giorno, ogni nostra esperienza, ogni nostra prova, ogni sacrificio che ci tocca fare, ogni nostro appagamento. A ben pensarci, proprio tutto questo egli ha voluto farci sapere, quando ha detto di sé: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), e: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12).

Oggi, a chi guarda le cose con occhi disincantati e non si lascia illudere dalle chiacchiere né stordire dal molto chiasso mondano, troppe volte la vicenda umana sembra quasi “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla” (per dirla con Shakespeare, Macbeth V,5). Perché questo? Perché mai, tutto – il mondo, il nostro esistere, la storia degli uomini – appare tanto spesso un enigma irresolubile?

Il perché sta nel fatto che l’universo è stato pensato e voluto da Dio come un’equazione – per fare un paragone matematico – che ammette una sola soluzione; è stato pensato e voluto come un’equazione che ha Gesù Cristo come unica soluzione dell’incognita. Chi non la vuol prendere in considerazione (o, peggio, chi deliberatamente la scarta), deve rinunciare a risolvere l’equazione: non gli resta, come necessaria alternativa, che di esistere in un’oscurità invalicabile e di essere oppresso dall’assurdità di una totale insignificanza.

Alla scoperta di Cristo

Gesù fa coincidere la “significazione” (che ci salva dall’irragionevolezza dei nostri giorni) con la “vita eterna” che già ci è anticipata nella vita di fede; e dice: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, che sei l’unico vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Che poi è una conoscenza che è unica, perché Gesù ci ha anche detto: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9).

Siamo dunque arrivati a una prima conclusione fondamentale: scoprire il significato delle cose, degli accadimenti, del nostro stesso “mistero” (perché ciascuno di noi è “mistero” a se stesso), vuol dire scoprire Cristo e conoscerlo il più possibile da vicino. E’ la stessa conclusione alla quale è giunto Pascal, grande matematico e acuto filosofo, uno dei pensatori più formidabili che siano mai comparsi sulla terra, il quale così ha lasciato scritto su uno dei suoi foglietti: “Non soltanto non conosciamo Dio se non per mezzo di Cristo, ma non conosciamo nemmeno noi stessi, se non per mezzo di Cristo. Non conosciamo la vita, non conosciamo la morte, se non per mezzo di Cristo. All’infuori di Cristo non sappiamo né che cos’è la nostra vita né che cos’è la nostra morte né che cos’è Dio né che cosa siamo noi stessi” (Pensées Edition Pléiade, n. 729).

Qui però bisogna fare attenzione. Conoscere Gesù non è come imparare le tabelline. Le tabelline si possono imparare o non imparare; ma non si può decidere niente a loro riguardo: sono incontestabili. Uno può anche non volerle imparare, ma non le può rifiutare.

Gesù invece è sempre oggetto di una decisione: una decisione drammatica, che ci tocca da vicino. Di lui, già quand’era bambino, è stato detto: è un “segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (cfr. Lc 2,34-35). Lui stesso si è addirittura paragonato a una pietra di fondamento, sulla quale, a scelta, si può costruire oppure si può andare a sfracellarsi (cfr. Mt 21,44). E ha anche detto, senza tanti complimenti: “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (Lc 11,23).

Una conoscenza diversa

A questo punto si capisce subito una cosa: la conoscenza di Gesù Cristo è molto diversa dalla conoscenza di tutto quello che abbiamo imparato e impariamo a scuola. Essa coinvolge non soltanto la nostra memoria e la nostra intelligenza, ma tutto il nostro essere; e chiama in causa tutto il nostro vivere e il nostro agire. Per rifarmi ancora a un esempio matematico che ho già utilizzato molte volte, uno può capire bene il teorema di Pitagora e persuadersi che in un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, senza innamorarsi dell’ipotenusa e senza provare una passione travolgente per i cateti. Ma non può conoscere adeguatamente il Signore Gesù e capirlo nella verità profonda, se non comincia ad aprire a lui la sua unica vita: Gesù non lo conosciamo davvero, se non quando cominciamo a innamorarci di lui. Il Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto – significato unico ed esauriente del nostro concreto esistere e dell’intero universo in cui ci è toccato di vivere – lo si conosce sul serio all’atto che ci si gioca per lui.

III

La “vocazione”

Dobbiamo perciò partire alla ricerca di Cristo; vale a dire, alla ricerca di colui che è il significato dell’universo, il senso e il centro della nostra vita. Trovare Cristo, vuol dire trovare anche noi: vuol dire conoscere la ragione del nostro esistere, la scopo del nostro agire, il nostro stesso destino.

Una cosa qui bisogna che sia chiara: noi non potremmo nemmeno sperare di trovare il Signore Gesù, se non ci avesse già cercato lui per primo; anzi, se egli non fosse sempre in atto di cercarci: “Io sto alla porta e busso”, ci ha detto lui stesso. E ha aggiunto: “Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).

Il mistero della nostra chiamata

Noi siamo cercati dall’eternità. Siamo stati “chiamati”, ci dice la parola di Dio. E’ la “vocazione”: una delle parole-chiave del Vangelo (cioè della “buona notizia”), che come tutte le parole troppo usate corre il pericolo di essere banalizzata.

Essa esprime l’avvenimento primordiale della nostra avventura: cioè il fatto che Cristo, chiamandoci per volontà del Padre all’esistenza, ci ha invitati alla sua festa di nozze, che è la festa della vita, la festa della gioia, la festa d’amore delle Tre Persone divine.

Se esistiamo, vuol dire che siamo stati voluti; vuol dire che siamo stati preferiti noi tra gli infiniti esseri possibili che non sono stati realizzati. Questo è il principio della felicità, ma bisogna capirlo bene.

Sentirsi scelti è una delle esperienze umane più liete e gratificanti; mentre il vedersi disattesi e trascurati è spesso la vena segreta da cui zampillano le nostre tristezze. Pensate a un giovane che ha fatto inutilmente centinaia di domande di assunzione, e vede che tutti gli passano avanti: solo quando arriva una risposta positiva gli ritorna il gusto di vivere. Pensate a una ragazza che a una festa si accorge che nessuno si interessa di lei; è depressa, malinconica, intristita, ma se un ragazzo le si avvicina e la invita a ballare con lui, il suo volto si illumina e la vita le ritorna a sorridere.

Ebbene – deve dire ciascuno di noi – il Signore mi ha voluto, mi ha scelto, mi ha invitato ad esistere. Nessun pensiero è più inebriante di questo. A ben comprenderlo, ci fa superare ogni motivo di amarezza e ogni delusione che possiamo incontrare. Il Signore mi ha preferito nella sterminata folla delle creature che sono state lasciate nel niente. Ha preferito me, e non so perché; o meglio, non c’è nessun perché che non sia il mistero del suo amore.

Mi ha designato non solo a esistere, ma a essere conforme a lui e innestato in lui, assimilato alla sua condizione di figlio del Padre e partecipe della sua stessa eredità. Questa è la fortuna splendente della mia “vocazione”, che mi consente di vivere nella serenità e nella letizia, anche se devo camminare in mezzo ai turbamenti e alle tristezze della terra.

L’esistenza come “risposta”

Non siamo venuti al mondo per caso, ma come il risultato di una chiamata personale. Ma allora dobbiamo “rispondere”: questo è il significato della nostra esistenza.

Sta qui la differenza rilevante e primaria tra la visione dell’uomo che c’è nel non credente e quella che c’è nel credente (e ciascuno di noi porta nel suo mondo interiore un po’ dell’una e un po’ dell’altra). Nella prima visione uno si convince di essere più che altro un problema, un interrogativo, una “domanda” (una domanda talvolta complicata, talvolta perfino angosciosa; e quasi sempre una domanda senza risposta). Nella seconda visione uno capisce di essere essenzialmente e, per così dire, costitutivamente non tanto o almeno non solo una domanda, ma anche e soprattutto una “risposta”: la risposta a colui che dall’eternità ci ha convocati.

Ed è proprio la stessa “chiamata dall’alto” a metterci in grado di dare la risposta giusta. Noi possiamo aspirare a conoscere, perché dall’eternità siamo stati conosciuti. Noi amiamo – e non è possibile vivere senza amore – perché dall’eternità siamo stati amati. Noi cerchiamo la Verità, la Giustizia, la Bellezza – e il nostro cuore è inquieto finché non la trova – perché colui che è la Verità, la Bellezza, la Giustizia in assoluto, per primo ha cercato noi e ci ha già raggiunto.

Chiamati a una “conformità”

A che cosa ci ha chiamato e ci chiama il Signore Gesù?

In sostanza ci chiama a essere come lui. San Paolo ci ha svelato con lucidità impareggiabile che cosa aveva in mente il Padre celeste quando dall’eternità ha pensato a noi: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,28-29).

Diventare sempre più “conformi a Cristo”: questo è il senso del nostro esistere, questa è la nostra vocazione, questo è il nostro traguardo. E questo deve essere, giorno dopo giorno, la nostra “risposta” e il nostro programma.

Il “sale” e la “luce”

Conformarsi a Cristo: come si può ben intuire, questo è un programma vastissimo, praticamente inesauribile: è l’impegno di tutti i nostri anni, da adesso fino all’ultimo respiro. Oggi ci limitiamo ad accennare a due precise e circostanziate “conformità” al Signore Gesù. Poiché egli è il “senso”, colui che dà sapore a tutto e che illumina tutto, ci affida il compito di essere come lui il “sale della terra” e la “luce del mondo” (cfr. Mt 5,13-14).

E ci raccomanda di non essere “sale scipito”, che non serve a niente; di non essere luce schermata o addirittura spenta, che non rischiara più niente e nessuno.

Prendiamo anche solo il paragone del sale. Il sale ha un sapore in sé pungente. Ma appunto questo sapore irritante lo rende prezioso, anzi indispensabile, e gli consente di avvalorare ogni cibo e di dare gusto a ogni vivanda. Un sale in cui questo sapore acre fosse attenuato – un sale, per così dire, “dolcificato” – sarebbe il più inutile degli ingredienti: “A null’altro serve che a essere gettato via” (ib.), ci ha detto Gesù.

Allo stesso modo, una testimonianza cristiana così preoccupata di dialogare con tutti e di essere “aperta” a ogni idea e a ogni proposta della mentalità mondana da non dire più niente di diverso, di originale, di provocatorio, smentirebbe il Vangelo e vanificherebbe se stessa.

Il messaggio che Gesù è venuto a portarci, e adesso affida alla nostra militanza ecclesiale, è inconfondibile e inassimilabile: esso celebra la Pasqua di risurrezione e di gioia, ma non nasconde il valore della sofferenza e non rinuncia mai a esaltare pubblicamente il Crocifisso; non rinnega ciò che è terrestre e temporale, ma lo finalizza al Regno invisibile ed eterno; non disprezza il corpo e la sua varia vitalità, ma rivendica il primato dello spirito; propone i valori del progresso, della liberazione, della pace, ma sa che essi si ottengono attraverso la conversione, la fede, la legge della carità. Offrire serenamente e coraggiosamente questo messaggio, ecco che cosa significa essere evangelicamente il “sale della terra”.

Illudersi che sia possibile essere “conformi a Cristo” e pensare, giudicare, agire come pensano, giudicano, agiscono tutti gli altri che “non hanno la nostra speranza”, vuol dire essere “sale scipito”: buono (osserva impietosamente Gesù) soltanto “a essere calpestato dagli uomini”; i quali di un cristianesimo in larga parte allineato alla mentalità non cristiana non saprebbero proprio che farsene.

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