Prolusione Anno giudiziario Tribunale ecclesiastico di Pescara

AMORE – CONIUGALITA’ – MATRIMONIO

Eccellenza, signori giudici e tutti i collaboratori del Tribunale,

Grazie per questo invito. È dovuto certamente alla capacità del nostro Vescovo di creare dei precedenti! Non sono un giurista, non ho competenze specifiche che non siano la mia esperienza pastorale. Eppure penso che ha proprio ragione Mons. Tommaso a offrire questa riflessione all’inizio dell’anno giudiziario. Mi permette di condividere da una prospettiva eminentemente pastorale delle riflessioni sul risvolto giuridico dell’amore, coniugalità e matrimonio, che fa bene all’uno e all’altra.

Vorrei iniziare con due considerazioni generali. La prima si sottende a tutta la riflessione e vuole ricordare proprio lo stretto legame tra Diritto e Pastorale. La salus animarum è il precipuo compito del Codice e quindi della sua applicazione. A volte, prigionieri di una miope logica del Diritto, lo dimentichiamo o la salus diventa talmente distante da non essere percepita animarum, cosa che non fa bene al Diritto e alle anime stesse. La Chiesa è Spirito, generata da questo e non dal Codice, e guai a credere di essere a posto se anche tutto il Diritto è osservato. È il problema del colesterolo e dell’ospedale da campo. La Chiesa non è l’ospedale da campo, come qualcuno con una certa malizia ha attribuito a Papa Francesco. La Chiesa vive nell’ospedale da campo che è il mondo, ridotto così dal male e dagli uomini suoi complici. E in questo non puoi accontentarti – e tale è la preoccupazione di Papa Francesco – di sentirti a posto perché hai rilevato il tasso di colesterolo. Devi preoccuparti della salus e questo è il compito specifico. È anche vero che il Diritto aiuta la forma della Chiesa, ne rappresenta la garanzia, l’oggettivazione che può essere contro i carismi ma, se ben usato, senza mai anticipare i tempi o essere ossessionati dall’applicazione della regola, difende il carisma stesso. Il Diritto è decisivo per il suo funzionamento, per la protezione dei soggetti, per la regolamentazione delle responsabilità, perché non sia oscurata dall’arbitrio e ridotta a pericolosa e cangiante soggettività. Certo, il Diritto senza lo Spirito è lettera morta ma anche lo Spirito ha bisogno del Diritto per non esaurirsi in una dimensione esperienziale di poca durata.

La seconda considerazione generale è circa la capacità stessa della Chiesa di affrontare i suoi problemi. Non penso solo a quelli che riguardano, come vedremo, gli aspetti matrimoniali ma anche quelli dolorosamente legati agli abusi, che tanta sofferenza hanno provocato, scandalo per una madre che viene tradita dai suoi stessi membri. Ecco, con tutte le difficoltà e i ritardi, desidero ringraziare quanti si occupano dei tribunali e hanno aiutato, adesso anche con i centri di ascolto, ad affrontare con tempestività e competenza le denunce. Non è vero che non c’è giustizia e che la Chiesa non la desidera. È suo stesso interesse. Giustizia e non opacità o complicità, così come giustizia e non giustizialismo, che ne è la caricatura in negativo, pericoloso quanto le omissioni e i ritardi. Dobbiamo con severità continuare, in tutti gli impegni presi, a comprendere l’identità dei problemi, scegliere la prevenzione e verificare se i meccanismi avviati sono sufficienti.

Debbo ringraziare i tribunali, che significano anche le loro diverse componenti, tutte importanti, per il servizio. Malgrado resista ancora una convinzione dura a finire (i costi, i tempi), riuscite ad accompagnare tante situazioni dolorose, qualunque sia l’esito dell’istruttoria. Non è vero che intraprendere il percorso di nullità sia un sacrificio inutile e troppo doloroso! È vero che ricordare, affrontare le ferite che hanno portato alla separazione significa rivivere e provare di nuovo tante sofferenze. La mia esperienza, però, mi porta a dire che farlo ha un grande valore di superamento dei problemi, di libera comprensione dei fatti, di vera riconciliazione con se stessi e con le proprie ferite. È un accompagnamento che, senza sconti e compiacenze, ci aiuta a ricomprendere e a fare tesoro delle difficoltà. Non è inutile ripetere che non si cancellano i fatti, come a volte ancora si interpreta la “nullità”, spesso si è in presenza di figli che ovviamente non possono essere annullati, così come il consapevole per altre caratteristiche legame affettivo.

Il tema di questa giornata mi ha un po’ sopraffatto per la vastità dell’argomento. La parola amore, infatti, si usa in maniera non univoca, anzi spesso molto varia, a scapito del suo stesso significato. Un po’ come si diceva della cultura: meno se ne ha più la si spalma! Il titolo completo mi ha illuminato e mi è servito da guida assieme alla consapevolezza di parlare in un Tribunale: l’amore che ci deve interessare è quello che dà, o vorrebbe dare, vita alla famiglia e che chiede alla legge di essere protetto. Nel diritto dello Stato non viene mai nominata la parola amore, anche se è quantomeno sul rispetto e l’onore degli altri che si fondano sia la Costituzione che i codici. Perché solo il rispetto degli altri, della loro essenza e dei loro diritti, consente l’esistenza di una società umana. Ma la legge canonica è l’unica veramente informata, natura sua, dall’amore. L’amore è, infatti, fondante il messaggio cristiano.

Il primo rapporto fra amore e legge lo chiarisce Cristo nel nuovo comandamento:        “Vi do un comandamento nuovo che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi” (Giovanni 13, 34). Gesù caratterizza l’amore l’uno per l’altro come il nuovo comandamento, in realtà, è già contenuto nel libro del Levitico 19,18: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. È nuovo perché con l’uomo nuovo, con l’uomo redento, questo comandamento trova nuovo compimento e possibilità di essere osservato e mantenuto. L’amore è l’adempimento della legge. Di tutta la legge, perché, se si osserva questo comandamento, non ne occorrono altri (Romani 13, 8-10). È il pieno compimento.

         Ma ci sono tipi di amore, non menzionati, né previsti dalla legge, i cui effetti sono però disciplinati dalla legge. Ed è proprio l’utilità della legge quanto può offrire a chi è vittima, o ingiustamente accusato, o del quale occorre identificare responsabilità delle quali lui stesso non è consapevole. È l’amore malsano, un non-amore che genera ossessioni, a volte omicidi e sfocia nel penale. Quando diventa possesso, diritto, quando è pornografia, ridotto a oggetto, è malsano e produce conseguenze terribili, come si vede, nella vita delle persone. La diffusione digitale di tutto questo non può non preoccuparci, anche perché alleata di un permissivismo che offende la libertà e che non ha niente a che vedere con la difesa della soggettività.

C’è quell’amore non proprio malato in senso stretto, ma ridotto a passione. È ben conosciuta nella letteratura d’amore, da Platone in poi, quella specie di “pazzia d’amore” e, oggi, studi neurobiologici hanno dimostrato che quando si guarda la fotografia di qualcuno del quale si è innamorati, si attivano specifiche aree del cervello e, nello stesso tempo, si disattivano parti significanti della corteccia cerebrale e fra quelle che vengono disattivate ci sono quelle associate al giudizio. In un mondo che è percorso da infinite passioni superficiali, poco interiore, digitale, possiamo capire quanto è pericolosa una dimensione istintiva, coinvolgente al massimo ma contemporaneamente sempre solo superficiale.

Oggi, poi, esiste l’amore virtuale che, in verità, è un amore reale perché incide sul reale. La persona che vive un amore anche solo attraverso il computer e senza coinvolgimento fisico, dedica però ore, pensieri, passione all’amato e questo amore muta i rapporti nella vita reale, li cambia, spesso li mette in crisi e li peggiora, in tutti i casi ha una forte incidenza sul reale.

Infine, ma soprattutto, c’è l’umile e concreto amore coniugale, l’unico che è veramente in grado di generare diritti e doveri. L’amore e la legge, infatti, s’incontrano nel matrimonio. È nel matrimonio che l’amore trova tutela e la legge alimento e vita. È con il matrimonio, poi, che si costruisce la famiglia, fondamento vero della società. Già in Cicerone la famiglia era considerata principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Il matrimonio, infatti, è un atto di indubbia rilevanza sociale, non unisce solo gli sposi tra loro, ma la coppia alla società.

Ma in cosa consiste l’amore coniugale? È un amore che solo con il matrimonio diventa coniugale o, piuttosto, è solo un amore coniugale che può garantire un vero matrimonio? E il matrimonio è, come si dice volgarmente, “la tomba dell’amore”? È solo sentimento? È un habitus? È volontà? San Tommaso distingueva “l’amore di concupiscenza” da “l’amore di benevolenza” e spiegava che “l’amore di concupiscenza” è il desiderio di qualcosa per il bene che ne traiamo, mentre “l’amore di benevolenza” è il trasporto per qualcuno che ci porta a desiderarne il bene. Con altre parole, Erich Fromm distingueva fra l’amore immaturo, “ti amo perché ho bisogno di te”, dall’amore maturo, “ho bisogno di te perché ti amo”. Possiamo dire che l’unione fra queste due pulsioni, fra eros che è un amore ascendente e agape, che è un amore oblativo, costituisce l’amore coniugale. È un amore che investe integralmente le persone: sono coinvolti i sentimenti, che fanno desiderare di stare con l’amato, l’intelletto che lo fa considerare un bene per sé, al punto che la propria esistenza è posta in quel contenuto e vive di esso, e la volontà che trasforma l’amore personale in una intenzionalità.

La persona come tale diventa perciò principio e termine della volontà. “Il matrimonio secondo la Rivelazione cristiana – ha detto qualche giorno fa il Papa parlando agli Uditori rotali – non è una cerimonia o un evento sociale, né una formalità; non è nemmeno un ideale astratto: è una realtà con la sua precisa consistenza, non «una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno” (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 66).  L’amore, dunque, sente il bisogno dell’istituzione. Amare comporta un esporsi alla fragilità dei sentimenti e senza il sostegno di una regola è consegnato all’insicurezza.  Amore e verità sono alternativi, per cui la verità uccide l’amore, lo limita, lo inibisce, ne toglie l’emozione? Lumen Fidei al paragrafo 27 ci aiuta: “L’amore non si può ridurre a un sentimento che va e viene. Esso tocca, sì, la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare così un cammino, che è un uscire dalla chiusura nel proprio io e andare verso l’altra persona, per edificare un rapporto duraturo; l’amore mira all’unione con la persona amata. Si rivela allora in che senso l’amore ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo, superare l’istante effimero e rimanere saldo per sostenere un cammino comune. Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo. L’amore vero invece unifica tutti gli elementi della nostra persona e diventa una luce nuova verso una vita grande e piena. Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l’”io” al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto”. Certo è anche vero il contrario. “Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che «amor ipse notitia est», l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova. Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose. Guglielmo di Saint Thierry, nel Medioevo, segue questa tradizione quando commenta un versetto del Cantico dei Cantici in cui l’amato dice all’amata: I tuoi occhi sono occhi di colomba (cfr Ct 1,15). Questi due occhi, spiega Guglielmo, sono la ragione credente e l’amore, che diventano un solo occhio per giungere a contemplare Dio, quando l’intelletto si fa « intelletto di un amore illuminato”.

La verità permette una forma che è l’istituzione, la quale non è garanzia di solidità, ma offre i vantaggi del controllo e della forma. Il termine istituzione, infatti, viene dal latino stare “stare in piedi” ed è, sicuramente, più stabile degli alti e bassi dei nostri sentimenti. Scrive Xavier Lacroix: “L’istituzione coniugale non ha, di fronte alla passione, una forza invincibile. Almeno consente di raggiungere tempi migliori; almeno lascia tempo per riflettere, per tornare a sé. Ritarda l’irrimediabile ed è già molto. Perché l’irrimediabile ritardato ha qualche chance di essere vinto”. A metà strada tra l’amore e la forza, il diritto risparmierà ad alcuni di passare direttamente dall’uno all’altra.

Nel film “Mission” sulla comunità dei Gesuiti in Guarany, il padre Gabriel, a Rodrigo che ha deciso di combattere a fianco degli Indios, dice: “Se sei nel giusto hai già la benedizione di Dio, se sei nell’errore la mia benedizione non servirà a niente. Se è la forza che determina il diritto, allora non c’è posto per l’amore in questo mondo”.  Il matrimonio si trova, dunque, proprio nell’intersezione tra intimo e sociale, tra privato e pubblico. Anche i conviventi possono promettersi amore, fedeltà, continuità nel rapporto, ma solo diventando pubblica la parola cambia statuto. È l’ingresso in una nuova forma di vita, il riconoscimento di un’istituzione, di una forma di vita che una società si dà per assicurarsi il permanere. La parola, allora, dà forma ai nostri affetti, per loro natura anarchici e divaganti e, nel tempo, nella storia della coppia, la memoria della parola data sarà un punto di riferimento, un punto fisso. In occasioni di sconvolgimenti – e non c’è vita di coppia che ne sia priva – ci sarà differenza tra l’avere come punto di riferimento unicamente stati emotivi fluttuanti oppure la memoria di un doppio sì, esplicito, dichiarato davanti a testimoni.   La parola data offre un punto d’appoggio, fa da riferimento. Secondo una bella espressione di France Quesrè: “Se custodiamo la parola data, la parola ci custodirà”. Il matrimonio è un atto di parola solenne, un atto di libertà, e la parola, impressa nella memoria di una comunità, acquisisce una portata specifica. Addirittura prende forma scritta attestata dai testimoni. Gli sposi accettano di avere dei doveri l’uno verso l’altro. L’amore promesso diventa amore dovuto. E l’amore comandato – come afferma il nostro Manzoni – può “chiamarsi santo” (Prom. sposi, cap. VIII).

         Ma esiste un diritto all’amore nel matrimonio? Il Codice di diritto canonico, in verità, non parla di amore coniugale, ma riflette l’antropologia cristiana e in particolare quella del Concilio Vaticano II. È in questo Concilio che per la prima volta si inizia a parlare di visione personalistica del matrimonio e il termine amore coniugale per la prima volta viene usato nella Gaudium et Spes. Dal Concilio Vaticano I al Concilio Vaticano II la prospettiva con la quale si guarda al matrimonio cambia completamente. Nel Vaticano II la visione integrale della persona umana, espressa dall’antropologia cristiana, vede nell’uomo una creatura plasmata da Dio, maschio e femmina, nella cui natura sessuata si trova inscritta un’intrinseca vocazione ad amare e a donarsi reciprocamente in una comunione interpersonale che abbraccia la pienezza dell’essere uomo e donna e la totalità degli aspetti della loro esistenza (Deus caritas est 17-18). La capacità di darsi e accettarsi mutuamente, nella complementarietà dei sessi, trova attuazione nella dinamicità tipica dell’amore coniugale. Nel Codice del 1983, come abbiamo detto, non si ritrova il termine amore. In effetti, non si può negare che questo termine, per la gamma di significati, di accezioni, di sfumature con cui può essere inteso, appare ben poco idoneo a comparire in un testo giuridico. Ma una chiara allusione all’amore è insita nell’espressione totius vitae consortium usata dal legislatore, dove l’aggettivo latino totus assume un valore particolarmente intenso, non certo limitato al solo aspetto temporale, e rivela una nozione di matrimonio caratterizzato “da quel profondo sentire comune che spinge l’uomo e la donna ad unire così intimamente la propria esistenza e che presuppone quindi l’esistenza di un reciproco amore coniugale” come scrive Paolo Moneta (Moneta, Il matrimonio nel diritto della Chiesa, Bologna 2014, p. 28). Ancora più espressiva dell’amore coniugale è la locuzione bonum coniugum usata per la prima volta dal legislatore e considerata come elemento essenziale al quale “Il matrimonio è ordinato”.

         Il bonum coniugum rappresenta, dunque, l’elemento paradigmatico della lettura personalistica del matrimonio e l’inserimento nel nuovo Codice è frutto, contemporaneamente, di una lettura antropologica rinnovata della persona umana (dotata di un’intrinseca vocazione e capacità di amare che informa necessariamente le strutture essenziali del matrimonio e della famiglia), e di una dottrina ecclesiologica aggiornata, meno dommatico-giuridica e più pastorale-teologica, che guarda al matrimonio come un istituto ordinato alla promozione del bene delle persone che vivono in esso e dell’intera società.

La revisione concettuale, ha comportato una revisione normativa, ha portato a comprendere sotto una nuova luce l’intera fisionomia del matrimonio e delle sue componenti essenziali, e ha trovato nel bonum coniugum la traduzione giuridica più immediata ed evidente. Il bonum coniugum è, però, una nozione complessa e di difficile interpretazione. Il significato e il valore del bene dei coniugi nel matrimonio chiamano in causa elementi metagiuridici che attengono ai risvolti psicologici, sociologici, morali o culturali del modo di vivere e di pensare il rapporto coniugale.

     Questi aspetti sono certamente importanti per capire il ruolo del bene dei coniugi nella dinamica dell’incontro sponsale, non solo in relazione a un modello ideale di matrimonio, ma con riguardo alla mentalità, agli usi e ai costumi di uno specifico contesto socio-culturale. “Occorre tener conto – come ha scritto Paolo Moneta – che stiamo vivendo in un’epoca in cui i tradizionali modelli di vita familiare non trovano più naturale riscontro nei comportamenti sociali, non sono più spontaneamente condivisi dalla mentalità comune; in un epoca in cui, di conseguenza, si assiste al crescente diffondersi di situazioni familiari difformi dal modello costituzionale delineato dall’ordinamento canonico … Si rende quindi necessaria la ricerca di un difficile equilibrio tra l’irrinunciabile fedeltà ai principi e l’attenzione alle esigenze dei casi umani, tra la tutela delle situazioni familiari regolarmente costituite ed il riconoscimento di quel potenziale meritevole di valorizzazione che può ritrovarsi anche in situazioni familiari irregolari” (Moneta, Communitas  vitae et amoris, Pisa, 2013).

La scarsa rilevanza data al rapporto coniugale nella riflessione sul matrimonio in passato era condizionata dal contesto sociale e giuridico-culturale che per lunghi secoli ha relegato la donna in uno stato di inferiorità rispetto all’uomo, per cui risultava difficile apprezzare la coppia come unione paritaria e veniva privilegiato il ruolo del marito e del padre. Ma se il bonum coniugum richiama indubbiamente l’amore coniugale e ne costituisce, come abbiamo visto, la traduzione in termini giuridici, resta ancora da precisare in quale posizione si pone rispetto al consenso matrimoniale, che costituisce la causa efficiens del matrimonio. Se alcuni orientamenti tendono a ridurre la rilevanza giuridica dell’amore coniugale, in quanto ritenuto un fenomeno psico-affettivo che non può essere oggetto di diritti e di doveri, altri ritengono, al contrario, che una lettura personalistica del matrimonio non possa non riconoscere il valore dell’amore nel consenso nuziale. La Gaudium et Spes, per mettere in luce la dimensione interpersonale del patto nuziale, usava il termine amore coniugale come equivalente di relazione sponsale ed è lo stesso documento pastorale, peraltro, che sottolinea la distinzione tra il vero amore e le mere pulsioni affettive, istintuali e mutevoli, e precisa come l’amore coniugale sia un atto che nasce dalla volontà, abbraccia il bene della persona e conduce al mutuo dono di se stessi. Amare vuol dire volere del bene a un altro e unirlo a sé, trattandolo come un altro se stesso. È questo amore di benevolenza reciproca che fonda la comunione coniugale, la coniugalità, anzi, questa dedizione vicendevole ordinata al bene di entrambi è l’unico modo in cui l’uomo e la donna possono appartenersi mutuamente senza che venga meno il rispetto del valore primario della persona umana.

   L’amore coniugale è, dunque, strettamente connesso con le facoltà razionali, intelletto e volontà, coinvolte nella decisione di sposarsi. L’amore non è un mero stato affettivo passivo, ma una funzione attiva, che individua l’altro come un bene e lo sceglie come persona con cui condividere un progetto di vita comune. L’amore è, dunque, un impegno a vivere con l’altro e per l’altro. L’intelletto e la volontà che formano il consenso matrimoniale ricevono contenuto e significato proprio dall’amore coniugale. A ragione, pertanto, si può affermare che l’amore coniugale è, contemporaneamente, la causa e l’oggetto del consenso matrimoniale.

Ne è la causa, perché genera la scelta e l’impegno verso una persona determinata. Ne è pure l’oggetto, perché l’essenza del consorzio coniugale sta nella deditio reciproca, nell’unione cioè di due persone che si appartengono l’una all’altra e si dispongono a perseguire insieme il bene di ciascuna.

Occorre, naturalmente, considerare anche il risvolto pratico del bene dei coniugi, che non si esaurisce in una ordinazione astratta del connubio, ma esige dai coniugi atteggiamenti e comportamenti concreti e coerenti, funzionali alla sua realizzazione. Queste attività divengono oggetto di diritti e di doveri vicendevoli tra i coniugi. Il Bonum coniugum diventa così il bonum perfettivo dell’unione coniugale. Perfettivo, piena di emozione per questo, sempre sorprendente e capace di stupirci. Il matrimonio non è, infatti, un negozio astratto in cui si scambiano diritti e doveri teorici, ma consiste nell’unione reale di due persone che si donano integralmente l’una all’altra. Tale unione è dettata dalla forza aggregativa dell’amore coniugale, per la quale l’uomo e la donna vedono reciprocamente nella persona del consorte il loro stesso bene e vogliono il bene dell’altro come se fosse il proprio. In questo modo, nell’essere insieme come coppia trovano la pienezza del bene di ciascuno. Questa valenza positiva dell’unione coniugale ha pure una funzione perfettiva, perché, essendo un bene, è in grado di completare, migliorare e gratificare chi la compone. In quanto bisognoso di continua alimentazione e di miglioramento, può risultare anche un obiettivo progressivodel cammino coniugale.

L’essere coppia, del resto, non è una condizione statica, ma un cantiere in perenne costruzione, una realtà dinamica che matura gradualmente e che ad ogni passo consolida una comunità familiare feconda che genera il reciproco arricchimento e la vita dei figli. Coniugalità e genitorialità sono le due dimensioni del matrimonio, congiuntamente implicate tra loro e corrispondono allo stile di amore oblativo della donazione coniugale.     L’analisi dell’amore coniugale, e quindi del bonum coniugum,non può dirsi completa se non viene calata in una considerazione più ampia del ruolo dei coniugi nella famiglia e nella Chiesa. Tra uomo, famiglia e Chiesa v’è una sorta di continuità e di immedesimazione: non può darsi un termine, che non implichi un riferimento all’altro. La correlazione tra sposi, come comunità domestica e istituzione salvifica può essere esaminata in una duplice prospettiva: l’una umana, l’altra specificatamente cristiana. La riflessione dal punto di vista della natura dell’unione d’amore coniugale conduce a sottolinearne una caratteristica intrinseca, oltre alla forza aggregativa, vale a dire il moto effusivo: essendo un bene, tende non solo a perfezionare, ma anche a comunicarsi ad altri. Ha affermato Papa Francesco parlando agli Uditori rotali: “Il matrimonio, dono di Dio, non è un ideale o una formalità, ma il matrimonio, dono di Dio, è una realtà, con la sua precisa consistenza. Adesso vorrei sottolineare che esso è un bene! Un bene straordinario, un bene di straordinario valore per tutti: per gli stessi coniugi, per i loro figli, per tutte le famiglie con cui entrano in relazione, per l’intera Chiesa, per tutta l’umanità. È un bene che è diffusivo, che attira i giovani a rispondere con gioia alla vocazione matrimoniale, che conforta e ravviva continuamente gli sposi, che porta tanti e diversi frutti nella comunione ecclesiale e nella società civile”. [Fine citazione]

Lo scambio reciproco tra i coniugi della dimensione di potenziale maternità e paternità apre la coppia al dono della vita, ai figli. Nel rapporto di amore vicendevole tra i genitori i figli trovano il luogo ideale per la crescita e la maturazione come persone. La comunione tra gli sposi diviene, pertanto, fondamento della comunione di una comunità più ampia di persone, unite e accomunate da un eguale impegno a prendersi cura gli uni degli altri. Salvatore Berlingò richiama la singolarità della famiglia rispetto ad altre aggregazioni sociali in quanto è «un fenomeno sociale totale, che… implica tutte le dimensioni dell’esperienza umana, da quelle biologiche a quelle psicologiche, economiche, sociali, giuridiche, politiche, religiose» (Valori fondamentali, cit., 122). In questo servizio quotidiano di amore, la famiglia svolge importanti compiti di promozione umana e di aiuto solidale che sono indispensabili sia per i membri del gruppo, sia per le altre famiglie e l’intera società.

Come cellula prima e vitale dell’organizzazione collettiva, la famiglia non si esaurisce quindi nell’ambito privato ma assume funzioni educative, assistenziali e partecipative di rilevanza pubblica. Per i coniugi cristiani, inoltre, la grazia santificante del matrimonio sacramento porta a elevare i rapporti interpersonali all’esperienza di una comunione più alta, che perfeziona quella umana e la rende simbolo attuale dell’alleanza soprannaturale tra Cristo e la Chiesa. È il «mistero insondabile del matrimonio cristiano», nel quale due creature finite, uomo e donna, sono chiamate da Dio a realizzare, in terra, un progetto d’amore che diviene una missione di salvezza ultraterrena. La peculiarità del ministero degli sposi christifideles rende la famiglia il luogo dove si esprime, nella normalità del vivere quotidiano, l’interezza della funzione ecclesiale: la testimonianza dell’amore oblativo a servizio del bene della persona, la trasmissione della fede, il dialogo con Dio. Per questo, la famiglia può essere chiamata vera chiesa domestica, il santuario dove giorno per giorno cresce l’edificazione del popolo di Dio.

Bonum coniugum, bonum familiae e bonum Ecclesiae si trovano così intimamente collegati dal moto effusivo dell’amore coniugale, sublimato nel piano di salvezza divino.

Pescara, Auditorium Giovanni Paolo II
03/03/2023
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