Il Mediterraneo deve diventare una “Grande tenda di pace”. Il nostro Papa auspica la pace per il mondo. Quali fondamenti per una teologia e prassi di pace?
Mi si permetta di immaginare realizzata questa ipotesi di un’Europa e di un Mediterraneo diventati […] ‘tenda della pace’: quale effetto avrebbe l’esistenza di questa ‘tenda’ sulla politica mondiale? […] La scelta è apocalittica: o la scelta di Isaia (che coincide con quella scientifica, razionale), la scelta cioè della pace universale, del mutamento delle armi in aratri e delle lance in falci […] o la distruzione del pianeta. O 10000 anni di pace o il pianeta trasformato in un rogo. (G. La Pira, Togliere dall’Europa e dal Mediterraneo la due tende del terrore, Berlino 1969).
Introduzione
Bisogna ammettere che la prospettiva di Giorgio La Pira – recentemente ripresa con sapienza dal Card. Bassetti – di una grande tenda di pace mediterranea, che sostituisca le tende del terrore e della deterrenza, sembra ora particolarmente lontana (ma a ben vedere anche allora, nel 1969, non era prossima).
Si pone chiaramente il problema di cosa significa il Mediterraneo, che nella storia ha rappresentato il plurale per un mondo altrimenti ridotto al singolare. La grande capacità dei romani fu proprio questa: rispettare le identità, permettere uno scambio e un’integrazione tra queste. Mare Nostrum. Appunto. Solo se è nostro, nel confronto e nel dialogo con l’Altro, è anche mio. Non dobbiamo mai leggerlo soltanto tra Nord e Sud, quella direzione che per tanti motivi ci sembra imporsi, ma sempre anche tra Est e Ovest. Lo facciamo in questo tempo di guerra, che riversa nel Mediterraneo imponenti scariche di odio, di violenza. Dobbiamo confrontarci anche con tutto quello che precede e che, per certi versi, sempre prepara la guerra, cioè l’ignoranza, la criminalizzazione dell’altro, l’indifferenza, il pregiudizio. Papa Francesco ci invia tutti noi! Siamo suoi inviati, perché inviati dal Vangelo come artigiani di pace, via di beatitudine, perché ci strappa dal dominio del male, dal compromesso con i suoi disegni di morte.
Oggi è per tutti possibile conoscere il tasso di scontro presente nello spazio Mediterraneo: i violentissimi conflitti tra Ucraina e Russia e quello che copre di sangue ampie zone del vicino Medio Oriente, le tensioni regionali che coinvolgono diversi Paesi a ridosso del Mar Mediterraneo, le migliaia di morti in mare, i campi di detenzione e tortura sulle coste del Nord Africa, le molte violenze che schiacciano vite inermi e nascenti, la propensione europea all’esternalizzazione delle frontiere e ad un complessivo restringimento del diritto d’asilo e dei diritti umani fondamentali per ampie categorie di persone. Peraltro non si vince l’illegalità senza assicurare degna e efficace legalità e un fenomeno di queste proporzioni richiede una visione e una strategia a lungo termine e con il coinvolgimento di tutta l’Europa. Se ognuno pensa di difendersi e di poterlo fare da solo né destinato a vedere crescere le sue paure, non diminuirle.
A questo si aggiunga una rinnovata adesione alla logica della violenza bellica che implica una corsa – incredibile e immorale – al riarmo, alla produzione e alla vendita di armi sempre più potenti e mortali che portano ad arricchimenti giganteschi ed iniqui da parte di chi, senza scrupoli, vi si dedica. Non solo: si è riaffacciata la follia dell’atomica – secondo l’espressione eloquente di Giovanni XXIII – che significa contemplare la logica, delirante, della distruzione completa dell’umanità o di ampie sue parti. Tornano qui alla mente le parole di un laico come Norberto Bobbio: “Ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra”.
Ma non è proprio dei discepoli di Gesù e degli uomini di buona volontà arrendersi al dato di fatto, alle contingenze avverse, alla stupidità e alla prepotenza dei potenti. Siamo chiamati all’intelligenza del cuore, quella che fa vedere, capire, scegliere. Richiamiamo la sentinella di Isaia 21: “Al posto di osservazione, Signore, io sto sempre lungo il giorno, e nel mio osservatorio sto in piedi, tutte le notti” (v.8). E da lì ascolta e risponde: da Seir: “Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?”. La sentinella risponde: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!” (v.11-12). Per tutti noi si tratta, dunque, di rimanere – poveri di mezzi ma svegli – nel nostro posto di osservazione, qualsiasi sia il nostro ruolo nella comunità civile ed ecclesiale, scrutando l’orizzonte, riconoscendo la notte dell’umano, vegliando in attesa della fine del buio, diveltendolo con le nostre parole ed esempi, cercando con cura e delicatezza i segni di luce e chiarezza. Tutti siamo chiamati a domandare, a convertirci, ad avvicinarci alla salvezza di Dio.
Studio e segni dei tempi. Non possiamo guardare senza farci interrogare profondamente. Ce lo ha ricordato Papa Francesco nella sua recente lettera sullo studio della Storia. “Nessuno può conoscere veramente chi è e che cosa intende essere domani senza nutrire il legame che lo connette con le generazioni che lo precedono. E questo vale non solo a livello di vicenda dei singoli, ma anche ad un livello più ampio di comunità”. Pure perché “Eludere la storia appare molto spesso una forma di cecità che ci spinge ad occuparci e sprecare energie per un mondo che non esiste, ponendoci falsi problemi e indirizzandoci verso soluzioni inadeguate”. Ricorda tanto i profeti di sventura, così fuori dalla storia, ottenebrati dalle loro sicurezze e convinzioni.
In tale orizzonte vi propongo alcuni elementi di ricerca e di sviluppo che desidero lasciare alla vostra responsabilità di accademici, di ricercatori e di studenti. So quanto questi temi sono già stati oggetto di confronto, ricerca, studio in questa facoltà: me ne compiaccio e vi incoraggio.
Tra questi elementi ne ho individuati alcuni che trovo particolarmente urgenti e significativi per la ricerca ecclesiale e teologica: il senso della connessione di tutti i fenomeni, il bisogno vitale di un ritorno alle fonti evangeliche, la necessità del senso della realtà storica, lo scrutare i segni dei tempi in prospettiva, a partire cioè da un preciso punto di osservazione, lo sviluppo di una teologia adatta che sia all’altezza delle questioni emergenti, il porsi, infine, una domanda spirituale ed esistenziale di fondo. La storia è come una Lectio fondamentale poiché completa quella della Parola di Dio, perché permette una comprensione del suo significato nell’oggi. Ci aiuta ad una comprensione profonda delle cause, delle condizioni, delle dimensioni dei problemi, indispensabile per capire l’annuncio del Vangelo oggi.
1. Tutto è connesso (LS 117)
È una acquisizione importante delle scienze naturali e della sociologia più avvertita, fatta propria dalla riflessione del magistero recente. Non è possibile scindere più alcun aspetto della realtà. L’ingiustizia climatica corrisponde all’ingiustizia sociale, di cui la guerra è una delle manifestazioni più evidenti. Il venir meno del senso di giustizia in tutte le sue dimensioni ha conseguenze a catena. Lasciamo la parola a Papa Francesco:
“[…] Quando tutte queste relazioni sono trascurate, quando la giustizia non abita più sulla terra, la Bibbia ci dice che tutta la vita è in pericolo. Questo è ciò che ci insegna il racconto di Noè, quando Dio minaccia di spazzare via l’umanità per la sua persistente incapacità di vivere all’altezza delle esigenze della giustizia e della pace […]. In questi racconti così antichi, ricchi di profondo simbolismo, era già contenuta una convinzione oggi sentita: che tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri” (LS117).
Tutta la vita è in pericolo quando le relazioni costitutive sono trascurate o violate. Per affrontare tale complessità serve – lo sappiamo da Veritatis Gaudium – un approccio inter e transdisciplinare: nessuno più ha le chiavi di accesso a tutti gli aspetti del reale, serve quindi una collaborazione, un’uscita dalle logiche dei piccoli cortili di conoscenza e potere, per andare verso l’orizzonte di una “coraggiosa rivoluzione culturale”, “dell’unica rivoluzione della pace” con le parole di Mons. Nogaro e di un senso “dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae” (EG 222).
Ma, a ben vedere, tale senso della collaborazione non può attecchire senza una partecipazione personale sofferta, come affermato con precisione nella Laudato sì: “Si avverte una crescente sensibilità riguardo all’ambiente e alla cura della natura, e matura una sincera e dolorosa preoccupazione per ciò che sta accadendo al nostro pianeta […] L’obiettivo non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare”(LS 19). Nello spazio mediterraneo questo è chiarissimo: i problemi ambientali, sociali, politici ed economici, e quindi bellici, sono tra loro profondamente intrecciati: si può pensare di affrontarli solo insieme e con tutto se stessi. Lasciatemi qui ricordare il lavoro di un bolognese felicemente ‘prestato’ a Cerreto Sannita: don Matteo Prodi che, insieme ad altri, da tempo lavora con tenacia, passione e competenza in questa direzione.
2. Un necessario ritorno alla via di Gesù
Parafrasando le parole di Giuseppe Dossetti – subito dopo la conclusione della seconda catastrofe bellica mondiale – si può dire che ad ogni rinnovamento delle civiltà deve corrispondere un rinnovamento della vita personale di ciascuno, dell’interiorità, della coscienza, e di farlo con severità e tanta umanità, con rigore per non cercare la “pasticceria spirituale” che tranquillizza ma non scende nel profondo, ridotta a benessere pigro, a tranquillante della Chiesa e della sua riflessione teologica. È un principio importante che ha guidato la vita ecclesiale in molti passaggi drammatici della realtà storica. Questo suona ancor più vero nell’attuale momento in cui a livello personale e collettivo si cercano, nello spazio mediterraneo e sull’intero pianeta, criteri di orientamento per scelte decisive e, spesso, per resistenze necessarie agli abusi del potere e del capitale. E come in ogni snodo decisivo della storia, l’Ecclesia e la sua teologia è chiamata a ritornare a Gesù, alla sua via, alla sua prassi di redenzione e liberazione. Su questo ritorno ai racconti evangelici come testi di ispirazione teologica e umana fondamentale mi è caro sottolineare almeno tre aspetti.
Il primo parte dal discorso fatto proprio qui da Papa Francesco nel giugno 2019. Il modo di procedere teologico è chiamato ad affrontare le domande della storia ad “integrare il criterio vivo della Pasqua di Gesù con il movimento dell’analogia, che legge nella realtà, nel creato e nella storia nessi, segni e rimandi teologali. Questo comporta l’assunzione […] del cammino di Gesù che lo porta alla croce e alla risurrezione e al dono dello Spirito. Assumere questa logica gesuana e pasquale è indispensabile per comprendere come la realtà storica e creata viene interrogata dalla rivelazione del mistero dell’amore di Dio. Di quel Dio che nella storia di Gesù si manifesta […] più grande nell’amore e nella capacità di recuperare il male. Entrambi i movimenti sono necessari, complementari: un movimento dal basso verso l’alto che può dialogare, con senso di ascolto e discernimento, con ogni istanza umana e storica, tenendo conto di tutto lo spessore dell’umano; e un movimento dall’alto verso il basso – dove “l’alto” è quello di Gesù innalzato sulla croce – che permette, allo stesso tempo, di discernere i segni del Regno di Dio nella storia e di comprendere in maniera profetica i segni dell’anti-Regno […]. È un metodo che permette […] di confrontarsi con ogni istanza umana e di cogliere quale luce cristiana illumini […] la realtà e quali energie lo Spirito […] sta suscitando […] qui ed ora”.
Un secondo aspetto lo richiamo a partire da un bel libretto pubblicato in italiano pochi anni fa da Pax Christi internazionale – sulla scorta di alcune affermazioni decisive di Papa Francesco – sulla non violenza di Gesù. Quel testo mostra attraverso sette tappe la rilevanza della via di Gesù come modo di agire e sentire teologale in contesti violenti, aprendo ai suoi discepoli e a chi si riconosce in qualche modo in alcune pagine dell’evangelo piste di approfondimento e di impegno personale. Si tratta di rileggere i vangeli individuando alcuni tratti del percorso di Gesù che qui ricordiamo sommariamente: la sua attitudine a prevenire la violenza, il suo intervenire in modo creativo per arrestare l’escalation di violenza, il suo incarnare talora una forma di resistenza civile, ossia di denuncia della cause strutturali della violenza e della sofferenza inflitta, il suo desiderio di porre germi di riconciliazione per comunità lacerate e violente, la sua capacità di difendere l’innocente tramite azioni che non moltiplicano la violenza, di costruire una cultura profonda capace di contrastare alle radici la violenza del cuore e delle istituzioni umane, la sua dedizione nel vivere fino all’ultimo un’esistenza non violenta nella consapevolezza delle conseguenze di un certo tipo di scelte all’interno di un mondo violento e conflittuale.
Un terzo aspetto: la rilettura dei vangeli in un dialogo serrato e aperto con le questioni del tempo diviene così un essenziale presupposto spirituale, una fonte di rinnovamento intellettuale e operativo, per orientarsi nel Mediterraneo e nelle sfide mondiali. Ma non solo. Questo diviene un aiuto potente anche per la riflessione storica e teologica, etica, canonistica e spirituale, nella capacità di rileggere la tradizione e reinterrogarla. Infatti, il lavoro di studio “come teologi cristiani non avviene a partire dal nulla, ma da un patrimonio teologico che, proprio dentro lo spazio Mediterraneo, affonda le radici nelle comunità del Nuovo Testamento, nella ricca riflessione dei Padri e in molteplici generazioni dipensatori e testimoni. È quella tradizione vivente giunta fino a noi che può contribuire a illuminare e a decifrare molte questioni contemporanee, a patto però che sia riletta con una sincera volontà dipurificazione della memoria, ossia sapendo discernere quanto è stato veicolo dell’intenzione originaria di Dio, rivelata nello Spirito di Gesù Cristo, e quanto invece è stato infedele a tale intenzione misericordiosa e salvifica. Non dimentichiamo che la tradizione è una radice che ci dà vita: ci trasmette la vita perché noi possiamo crescere e fiorire, fruttificare. Tante volte pensiamo alla tradizione come ad un museo” (Papa Francesco, Napoli giugno 2019), ma questa musealizzazione è un venir meno al nostro compito di responsabili scrutatori del senso, dell’urgenza e della grazia del messaggio evangelico oggi.
3. “Una seria assunzione della storia in seno alla teologia” (Papa Francesco, Napoli giugno 2019)
“Una seria assunzione della storia in seno alla teologia”: sono ancora le parole di Papa Francesco a Napoli nel giugno 2019. Ed è un lavoro da compiere con forza e determinazione. Desidero ricordare come qui, da decenni, avete saggiamente coltivato un vivissimo e ricco Istituto per la storia del cristianesimo che molto ha fatto e fa in tale direzione di approfondimento storico e teologico di molteplici fonti.
Una seria assunzione della storia implica un lavoro storico in maniera non apologetica ma a partire dalle fonti interrogate con rigore scientifico e apertura d’animo, con il desiderio di comprendere i testi nei loro ambiti e l’interrogativo del senso di tali questioni per chi li indaga nel presente. La storia può davvero aiutare la teologia cristiana, il dialogo interreligioso, la riflessione etica e canonistica nella sua attitudine a coltivare una distanza critica, a cogliere i condizionamenti culturali e istituzionali, a svelare le molteplici logiche del potere, a ricostruire le esistenze dei – con le parole di Nuto Revelli – molti “vinti”, vittime della violenza dei potenti, a svelare i cortocircuiti teologici e spirituali che si possono annidare nei testi e nei documenti di ogni tradizione religiosa. E sappiamo come sono facili i cortocircuiti, spesso con le migliori intenzioni! La storia, intesa come artigianato e lavoro d’officina sui documenti del vivere umano, può essere un grande esercizio di libertà spirituale, di umiltà e onestà intellettuale, di saggezza e sapienza nata dalla prassi, aprendo alla consapevolezza che tutti noi, come singoli e come collettività, “sbagliamo in molte cose” (Giacomo 3,2).
Per invitarvi a questo lavoro richiamo una pagina di uno degli ultimi discorsi di Dossetti – permettetemi qualche riferimento molto bolognese! – grande scrutatore, insieme a La Pira, delle sponde del Mediterraneo, rivolto ad un gruppo di presbiteri del sud. Dopo aver sostenuto che bisogna leggere e rileggere, leggere e rileggere ancora i vangeli e i salmi afferma: “Bisogna immergersi nella storia, conoscerla profondamente. Non potete fare a meno di conoscerla, di studiarla; e di studiare non solo la storia della Chiesa, ma anche la storia della civiltà e della società civile […]. Perché il mondo c’è [ed] è una componente essenziale dell’opera del Creatore e del Redentore […]. Quindi bisogna averne il senso, non semplicemente leggere la cronaca. […] Attraverso i giornali non si conosce la storia, si conosce la cronaca […]; bisogna invece leggere grandi opere di storia […]. Leggete libri di solida formazione storica, una pagina al giorno, ma con continuità. È indispensabile per avere il senso storico, non tanto per sapere i fatti, che alle volte sono troppo complessi o troppo parziali rispetto all’universalità del grande flusso storico. Se si ha un po’ di senso storico si relativizzano, giustamente e con liberazione, anche tante cose che devono essere evidentemente superate, che possono essere state convinzioni solide ma non sufficientemente rapportate al nucleo essenziale […] dell’evangelo. E riscoprirete, attraverso questa occasione che vi è offerta dalla storia, la necessità di arrivare sempre di più al sodo nell’evangelo, in modo sempre più liberante, sempre più di fede”. Non disprezziamo certo la cronaca, ma se non si conosce la storia non sappiamo capirla e così vivremo schiacciati sul piccolo.
4. Un punto di osservazione dei segni dei tempi
L’attenzione alla realtà storica è un abito mentale e spirituale che per la teologia implica l’attenzione ad una vicenda non ancora finita, ai segni del tempo, ai fragili germi del regno e ai molti segnali dell’anti-regno, laddove uomini, donne e bambini vengono umiliati, offesi e violati. Si tratta della necessaria ricerca dei movimenti profondi, in atto, dei popoli, delle trasformazioni del potere, delle maturazioni o delle involuzioni delle idee degli uomini e delle donne.
I vangeli – e una vasta tradizione spirituale e teologica – ci insegnano però che questo non può avvenire come se noi osservassimo i fenomeni da nessun luogo, da una posizione di supposta neutralità ed equidistanza, ma vi è un posizionamento preciso con cui guardare evangelicamente i segni dei tempi. È quello che ha scritto Dietrich Bonhoeffer ormai vicino all’ultima parte della sua vita: «Resta un’esperienza di eccezionale valore l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti».
Lo stesso Papa Francesco sottolinea questo aspetto nella Fratelli tutti: per poter fare una teologia – e una politica – della pace bisogna passare dalla conoscenza diretta e personale delle vittime della guerra: “[…] Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come ‘danni collaterali’. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace” (FT261).
In Sequela, Bonhoeffer afferma che “nessuna conoscenza può venir separata dall’esistenza in cui viene conseguita”. In tal senso la teologia di cui abbiamo bisogno nello spazio Mediterraneo è un modo di riflettere non collocato in asettiche, competitive – e talora asfittiche anche per chi le frequenta – accademie, ma ha bisogno di partire, con ascolto umile e studio serio, dalla “storia degli umili, dei poveri, dei piccoli, di coloro che non hanno creatività o sono impediti dall’esplicarla (e sono certo la maggior parte degli uomini) che sono dei senza storia” (G. Dossetti).
5. “La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male”: sfide urgenti
Per un penultimo passaggio della mia breve riflessione, mi ispiro al Card. Lercaro che affermò in merito alla cessazione immediata dei bombardamenti americani con gas incendiari nella guerra del Vietnam: «La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità, ma la profezia» (Omelia, 1° gennaio 1968). Vi sono alcune questioni, che qui elenco in maniera poco più che schematica, che la teologia come riflessione ecclesiale e critica svolta a partire dalla rivelazione cristiana è chiamata ad affrontare, decifrare ed illuminare nel nostro contesto europeo e mediterraneo, e quindi in connessione strettissima con gli immensi continenti asiatico ed africano.
Una prima questione credo sia quella di continuare un lavoro intenso e serrato per una riflessione profonda sui fondamenti e le pratiche del dialogo interreligioso. Bisogna assolutamente proseguire e rafforzare i tentativi – linguistici, culturali, teologici, spirituali e umani – di parlarsi, di intendersi, di cercare insieme vie di pace e convivenza non conflittuale. La teologia del dialogo interreligioso e la teologia comparativa non sono la moda di un momento o il cedimento a facili irenismi, ma sono una modalità responsabile di abitare un mondo pluralista e plurireligioso, cercando di riflettere sul mistero santo di un Dio che si rivela all’uomo con l’altro e di fronte all’altro. Certo, non si tratta di un lavoro che si improvvisa e che si risolve con facili slogan, ma richiede competenze linguistiche, scambi e prolungati soggiorni, confronti serrati, studio e volontà di dialogo, presenza effettiva sui territori e nelle scuole che vivono già in un mondo plurireligioso. Uno sforzo che crediamo vitale per il futuro della teologia e di una Chiesa che abita Paesi ad alto pluralismo religioso.
Una seconda questione verte sul nesso esistente tra religioni, politica e violenza. Oggi più che mai, ed in maniera trasversale alle grandi tradizioni religiose, vari movimenti politici e istanze belliche si richiamano a supposti disegni di Dio, a volontà di supremazia di un popolo su un altro in nome del trascendente. Osserviamo che violenze indicibili e intollerabili su donne, uomini e bambini vengono perpetrate a partire da promesse divine interpretate in modo tendenzioso, che battaglie morali estremamente aggressive calpestano la vita e la dignità delle persone e vengono condotte con i testi sacri in mano. È qui la teologia cristiana, in dialogo con le altre riflessioni religiose, è chiamata ad un grande lavoro di purificazione dei termini, nella consapevolezza che nessuno può sequestrare il santo nome di Dio per proprie mire politiche o per giustificare indicibili violenze e brutalità. Le difficoltà delle Chiese e delle religioni nella pandemia della guerra rivelano l’oggettiva debolezza di queste, ma anche l’importanza del dialogo che le rende più capaci di interloquire e ispirare soluzioni intelligenti e possibili.
Si tratta di un lavoro di critica civile e teologica. Infatti, tale lavorio di purificazione è, prima di tutto, sulle parole che spesso si odono in ambito politico, in termini come intervento umanitario, intervento preventivo, operazioni speciali, missioni di pace, azioni chirurgiche, lotte ad un nemico – che può essere anche un bambino appena nato – sempre qualificato come terrorista, esternalizzazioni e difese dei confini, riarmi massicci in nome della difesa del bene e della pace. Sono molto spesso termini usati per celare le vere intenzioni: si tratta, cioè, di gravi menzogne.
In maniera speculare, nell’ambito del linguaggio religioso, la teologia deve vigilare su termini che possono avere possibili valori religiosi – e in tal caso sarebbero parole di pace – ma che possono trovarsi del tutto stravolti e sfigurati nel loro utilizzo. Si pensi ai vari messianismi, alle molte terre sante, a supposte elezioni divine di un popolo, a superiorità razziali ed etniche in nome della religione, al correlativo rigetto religiosamente motivato di popoli o di categorie di persone. Come affermato da Papa Francesco a Il Cairo nell’aprile del 2017: “[…] mentre ci troviamo nell’urgente bisognodell’Assoluto, è imprescindibile escludere qualsiasi assolutizzazione che giustifichi forme di violenza. La violenza, infatti, è la negazione di ogni autentica religiosità. In quanto responsabili religiosi, siamo dunque chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio: il suo nome è Santo, Egli è Dio di pace”.
Davvero, su tutto questo la Chiesa e la teologia non possono essere neutrali.
Passiamo ora, brevemente, ad un ultimo punto che credo decisivo per sostenere dall’interno i compiti e le sfide qui delineate.
6. Una spiritualità di pace e dell’incontro
Mi pare che una dimensione fondamentale che non possiamo trascurare perché è la base di tutto, sia quella dell’esperienza spirituale. Quella realtà che – con parole bibliche – consiste nella coltivazione dell’uomo interiore, nella ricerca di un cuore che ascolta, di una capacità di silenzio e attenzione, della disponibilità a lasciarsi trafiggere il cuore. Non possiamo pensare ad un contributo teologico per la costruzione di una grande tenda della pace nel Mediterraneo senza tener conto che chi l’ha pensata e in un certo qual modo vista – Giorgio La Pira – sia stato un grande esploratore dell’invisibile, del nesso tra il mistero pasquale e il mistero del tempo, del significato delle beatitudini e di alcune pagine di Isaia per la nostra realtà storica, del senso della presenza sacramentale dei poveri, della rilevanza spirituale delle attese della povera gente, del compito storico dei cristiani di “rovesciare le crociate” in un orizzonte di pace e dialogo. Si tratta di un metodo, quello proposto dal politico fiorentino di origini siciliane, per affrontare e ‘vincere’ le immense sfide storiche poste innanzi: «La sola metodologia di vittoria è la rinuncia a se stessi, il distacco radicale dalla propria piccola sfera, l’apertura (come conseguenza di questo distacco e di questo taglio) alla sfera mondiale di Dio: gli strumenti che suggerisce l’ambizione, la colpa, la meschinità, sono strumenti radicalmente privi di efficacia politica. È proprio il discorso sul metodo quello che va fatto a tutti in questo periodo storico di così eccezionale portata e responsabilità per i cristiani e per tutti» (La Pira, lettera a Fanfani del 1958).
Certo, per provare a fare una teologia all’altezza delle sfide attuali del contesto mediterraneo servono – credo – le attenzioni che abbiamo tratteggiato in questa comunicazione, e serve soprattutto un modo di procedere che nasce da un distacco evangelico “dalla propria piccola sfera” verso un’apertura, radicata nell’interiore, alla “sfera mondiale di Dio”. Per questo il cardinale Bassetti a Firenze inquadrò la ricostruzione di un luogo di dialogo e di pace “nella costruzione di un Mediterraneo della solidarietà, capace di superare le sue crisi e i suoi drammi”.
Si tratta, certo, solo di alcune suggestioni e piste di ricerca che ritengo, però, valide ed estremamente urgenti. Vorrei ora affidare – qui accanto al Mar Mediterraneo – il vostro lavoro come Facoltà Teologica nelle sue varie articolazioni, il nostro cammino ecclesiale, insieme con le speranze e “le attese della povera gente”, alla Madonna sollievo dei migranti – cioè a Colei che intercede per sostenere, servire e difendere quanti si trovano indifesi lungo un percorso difficile e rischioso, perché possiamo divenire sempre più, come teologi e come discepoli del Messia Gesù, affamati e assetati di giustizia e, quindi, costruttori di pace.