S. Messa per i collaboratori della Curia Arcivescovile

Oggi ringraziamo per il nostro servizio in questa casa, che è la casa delle case della Chiesa di Bologna. E’ il luogo nel quale possiamo vivere e contemplare tutta la complessa realtà della diocesi e anche aiutare quello che la unisce, la diocesanità. E’ davvero un privilegio di potere vedere l’insieme del mosaico, la sua complessità, i suoi problemi (ad esempio le chiese dismesse, la cura delle chiese come edifici ma soprattutto le sfide pastorali poste dalla città degli uomini che ci interrogano sulla trasmissione della fede, sulla nostra capacità di generare alla fede, di non accontentarci tristemente della sterilità e di non smettere di volere figli). Qui possiamo vedere anche la ricchezza, la storia – penso all’archivio come un luogo importante per la storia che esso contiene, miniera di santità come all’archivio vivente che sono i nostri anziani –  ma anche seminare largamente per il futuro. Alcuni vi entrano con sospetto, con una qualche diffidenza; altri con pretesa; altri solo per incontrare; qualcuno può pensare o vedere solo un ufficio, sottolineandone i problemi, lentezze, (non dimentichiamo che il tempo è molto soggettivo) a volte aiutandoci a comprendere e conseguenze dei nostri atteggiamenti, che possiamo pensare e giustificare come involontari o caratteriali ma che hanno sempre un effetto. Non calcolarlo non è operatività, ma disattenzione o indifferenza. Facciamo sempre agli altri quello che vogliamo sia fatto a noi. Cerchiamo sempre di avere gli uni verso gli altri una considerazione superiore alla propria, vivere la dimensione del servizio aiuta tanto a rendere questa casa la casa delle case e quindi anche a fare sentire amato, ricordato, atteso chi vi entra.  Anche per questo è tanto importante ascoltare e parlare tra noi, anche perché solo così si contrastano le immancabili voci, a volte davvero incredibili, con cui si raccontano verità inesistenti, perché la fabbrica della fake news non è solo digitale, ma anche dei corridoi. E’ vero, lo ripeto anche io, che fanno male e non possiamo mai abituarci, ma la vera risposta è non considerarle, credere sempre che la fraternità e il comandamento ad amarci gli uni gli altri è la verità che ci unisce ed è valido per tutti, sempre e in ogni condizione, tanto più per chi ha una certa visibilità a causa del proprio servizio a questa casa. Se diciamo qualcosa su qualcuno dobbiamo alo stesso modo perdere con lui tempo, riparare con l’unica medicina che è la fraternità. Ci serve non criticare ma costruire, che è esattamente quello che ama così poco fare la nostra generazione. Occorre amare la chiesa nella sua concretezza, con i limiti da cambiare ma sempre da amare. Aggiungerei con il buon umore, frutto della benignità e non di dote di carattere. E’ vero che dobbiamo purificare la chiesa dalle contaminazioni inevitabili con il male di questo mondo, renderla forte di fronte all’accusatore, che la vuole tiepida, priva di sale, poco audace, litigiosa al suo interno, che non sa dialogare anzi ha paura di parlare, che deve trincerarsi nella verità usandola senza amore o cercare un amore che ha perso la verità di Gesù. Nella Lumen Fidei, scritta a due mani, Papa Francesco spiega (LF26): “All’uomo moderno sembra, infatti, che la questione dell’amore non abbia a che fare con il vero. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità. L’amore ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo, superare l’istante effimero e rimanere saldo per sostenere un cammino comune. Senza verità l’amore non può offrire un vincolo solido, non riesce a portare l'”io” al di là del suo isolamento, né a liberarlo dall’istante fugace per edificare la vita e portare frutto. Se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. La verità che cerchiamo, quella che offre significato ai nostri passi, ci illumina quando siamo toccati dall’amore. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, san Gregorio Magno ha scritto che « amor ipse notitia est», l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova. Si tratta di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose”.
Allora è la nostra santità personale che rende migliore la chiesa, che la purifica per davvero, quella santità che vediamo donata nel mistero di Dio che si fa uomo per farci nascere con Lui. Santità vuol dire anche la gioia del servizio, l’intelligenza di farlo crescere, l’attenzione a lavorare sempre con gli altri e nelle scelte privilegiare non il proprio ruolo ma la comunione perché solo questa permette di compiere i prodigi della prima comunità. La comunione genera alla vita, mentre il protagonismo è sterile, finisce con noi. La comunione significa anche una necessaria dialettica tra noi, della quale non dobbiamo avere paura, sempre nella fraternità e sempre senza fare mai tramontare il sole su dispiaceri e sulle radici di amarezza, cercando sempre e con ostinazione quello che unisce e sempre mettendo da parte quello che divide. Dobbiamo sempre tutti imparare a fare le cose per amore di Dio e non impegnarsi nelle cose di Dio per amore dell’io! Essere santi richiede combattere quella battaglia contro il proprio io che indicava il grande patriarca Athenagoras: “La guerra la faccio a me stesso, per disarmarmi, perché per lottare efficacemente contro la guerra, contro il male, bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stesso. E quanto nazionalismo in questa guerra! Bisogna riuscire a disarmarsi. Io questa guerra l’ho fatta. Per anni ed anni. È stata terribile. Ma ora, sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché «l’amore scaccia la paura» (1 Gv 4,18). Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Non sono più all’erta, gelosamente aggrappato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se me ne vengono proposti altri migliori, li accetto volentieri. O piuttosto, non migliori, ma buoni. Lo sapete, che ho rinunciato al comparativo… Ciò che è buono, vero, reale, dovunque sia, è sempre il migliore per me. Perciò non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura”.  Così cresce la comunione, frutto dello Spirito che si inserisce nella trama, tutta umana, fisica, che unisce le nostre persone e ci aiuta a sapere contemplare in quella mangiatoia che è la nostra povera umanità la presenza sempre nuova e sorprendente del Dio uomo.
Vogliamo rendere bella la chiesa! Qui c’è la sua Curia, ma non vogliamo diventare curiali! Vogliamo una chiesa attraente ma non mondanizzata; capace di comunicare, ma senza svuotarsi o ridursi a immagine; piena di significato, luce e sale, che sa toccare il cuore degli uomini e svelare la presenza di Dio, suscitare la nostalgia di Dio che è sempre deposta in ognuno. Una chiesa benigna verso l’umanità ma non ingenua; che sa vedere il bene sempre, ma non ha paura, proprio perché libera dalla pagliuzza, di ammonire se necessario e di rendere con amore consapevoli delle conseguenze del male. Una madre tenerissima che vuole la gioia dei suoi figli e non giudice che pensa di fare il suo dovere condannando, che ossessivamente e in maniera apocalittica sa solo cercare il male, spesso anche dove non ce n’è e non sa vedere l’amore e il desiderio di amore presente nell’uomo. Una madre e non un giudice che lascia solo e non aiuta a cambiare e combattere ciò che fa male principalmente a quel peccatore che siamo ognuno di noi. Certo, avvertiamo tanto l’incertezza di futuro, che ci interroga e ci inquieta. Sentiamo la sfida della speranza e della responsabilità che questa chiede, ma sempre nella serena certezza che il Signore non farà mai mancare la sua provvidenza e susciterà servi che lavoreranno la sua vigna. Se noi sogneremo i giovani sogneranno.
Zaccaria aveva smesso di sognare, forse inconsapevolmente, tanto che sembra quasi non rendersi conto della sua resistenza all’angelo. E’ avanti negli anni, vecchio. Non fa finta, con giovanilismi improbabili e spesso penosi. E’ quindi consapevole della sua realtà, non si fa sconti, non cerca illusioni. Per lui la speranza diventa pericolosa illusione dalla quale si vuole difendere contrapponendo il suo ferito realismo. In fondo è stata accolta la sua richiesta ma lui non crede più alla forza della preghiera, alla sua efficacia. Non crede se non a quello che realizza lui, perché pensa, amaramente, che può contare solo sulle sue forza, sui calcoli, sui programmi. Invece l’angelo lo coinvolge personalmente, ma in modo nuovo: “Tu lo chiamerai”. Il Signore e la sua santità ci rende davvero protagonisti, ma in una storia insieme al Signore. Zaccaria ha paura della gioia, che è sempre un superamento di sé. Non è entusiasta, che come sappiamo significa essere pieno di Dio e preferisce automaticamente i suoi calcoli. Egli sarà grande davanti al Signore! Non noi! Sognare per chi viene dopo quello che noi non abbiamo ancora: ecco la grandezza che c’è chiesta e per la quale lavorare. La santità richiede visione. “Dio ama in me in me il santo che sarò”, ricorda De Donatis. “Non è semplice capire questa cosa perché spesso noi battezzati non abbiamo visione, non sappiamo dove ci porta lo Spirito. Viviamo di eventi, passiamo senza soluzione di continuità da un evento a un altro. I padri greci chiamano questo atteggiamento “ignoranza”, ossia “mancanza di lungo sguardo”. Il Padre, invece, ha su di noi uno sguardo lungo. Non si ferma ai nostri piccoli o grandi impacci, alle ingenuità, ma ci contempla alla luce della sua sapienza. Dio mi vede oltre me! Vede – appunto – il santo che sarò”.
E’ vero: la vita cambia con l’amore di Dio, tutto può cambiare se ci affidiamo a Lui! Restiamo allora in silenzio, muti delle parole di amarezza, di confronto, di paura per imparare a parlare come Zaccaria, come i pastori, come gli angeli del cielo, per abbandonarci alla gioia universale, definitiva, eppure all’inizio, sempre all’inizio, del Natale, di quel bambino che amiamo e serviamo perché unico senso della nostra vita e che ci dona tutti i sentimenti, l’Emanuele, per me e per ogni uomo. Tutti, senza distinzioni e preferenze perché tutti amati dalla preferenza di Dio che sceglie di amare, di farsi uomo. E’ questo il senso di ogni e del nostro servizio. Questo permette il Natale, una Madre che genera l’unico necessario, Gesù

19/12/2018
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