S. Messa per i collaboratori della Curia

 Qualcuno diceva che da come viviamo la Pasqua capiamo come viviamo tutto l’anno. Fermarci assieme oggi aiuta personalmente ognuno di noi e anche quella “persona” che è la comunità della Curia. Ci aiuta a capire quello che ci unisce, da dove partiamo il senso del nostro servizio che è anche lavoro. Se lo smarriamo, se diventa un principio ispiratore importante ma lontano, impersonale, tiepido, finiamo per vivere male in questa casa di comunione che è la Curia. Qui si vede in maniera fisica quello che c’è in tutti le varie articolazioni di questa famiglia, cosa è la diocesanità. Qui la cercano i nostri preti e laici, nel nostro sorriso, nella competenza, nell’accoglienza, del prendersi a cuore le varie situazioni, nella pazienza. Per certi versi ci è chiesto di essere esemplari: per il ruolo che rivestiamo e perché siamo visti, giudicati proprio perché rappresentiamo il volto stesso della Chiesa. E’ vero per tutti, certamente, e sempre. Lo pensiamo per ogni cristiano, perché Gesù sarà riconosciuto dal nostro amore. Il lavoro diventa meno faticoso o ripetitivo se viviamo in amicizia, rispetto, con riguardo tra noi. Siamo colleghi. Per il mondo sì. Tra noi anche, ma siamo sempre dei fratelli chiamati assieme a servire la vigna del Signore.
Viviamo un momento di cambiamento. La trasformazione è sempre difficile. Sapere lasciare, imparare a congedarsi e allo stesso tempo restare sempre in servizio per amare come possiamo e dove c’è chiesto. Nuove domande, il confronto con esigenze che si impongono e la trasformazione di modelli che saranno gli stessi ma devono rispondere alle domande di oggi. Guardare al futuro con previdenza; trattare le nostre cose con la consapevolezza che sono per questa madre che è la Chiesa. La Curia ha presente tutti e ognuno e questo sguardo deve aiutare chi viene e parla di sé, magari, qualche volta accade, pensando che il resto non esista o che ci sia soltanto lui, imponendo se stesso, le proprie esigenze, a volte con un pregiudizio che lo porta ad essere rivendicativo o istintivamente difensivo. La comunione non è il regolamento di condominio, anche se questo lo abbiamo e lo dobbiamo osservare con scrupolo, perché ci aiuta a non prevalere, a non compiere anche noi quello che succede nel mondo per cui conta solo se ci sono io e il noi è piegato a scenario del protagonismo, mettendo in secondo piano l’utilità di quello che si fa. Noi siamo la trama di questa comunione, come quell’ordito su cui si intessono tante delle relazioni tra la nostra persona e la comunità. Senza il servizio tutto diventa soggettivo e sappiamo come questo complica anche le cose semplici; e a volte ci sentiamo autorizzati a restarne fuori, con quel temibile morbo della comunione che è il restare a guardare, magari con la sottile soddisfazione di dimostrare le nostre ragioni. Così perdiamo tutti, e l’unica conseguenza è indebolire il fragile – perché è sempre fragile – corpo della Chiesa. Il servizio, allora, ha qualcosa di oggettivo. Ognuno segue qualcosa, e sappiamo anche quanto c’è bisogno di competenza, di precisione, di aggiornamento, di esperienza e anche quindi di tanta passione ecclesiale e capacità di comprendere la materia. Poi c’è un elemento soggettivo, personale, perché siamo coinvolti ognuno di noi. Due tentazioni: il protagonismo, per cui il soggettivo diventa prevalente, a volte senza nemmeno accorgersi, altre con un banale mettersi al centro, per esercitarsi più nei confronti che nel cambiare, spesso accompagnato da poco dialogo. Qualche volta, perché pensiamo sia a fin di bene, imponiamo il nostro carattere, le nostre modalità, che arrivano a limitare oggettivamente la collaborazione, a fare dire di noi agli altri “tanto è fatto così”, a logiche parallele, a non insegnare agli altri. Il soggettivo, per cui lavoro solo con quelli che sono come me. Non siamo degli automi e il servizio giustamente chiede competenze e capacità personali, frutto anche di passione e di generosità, di coinvolgimento personale. Questo diventa divisivo se non lo viviamo nella comunione. Potremmo dire: più siamo soggettivi, personali più dobbiamo essere attenti alla comunione, perché, appunto non diventi protagonismo. La comunione non è un inutile galateo che rallenta, ma è indispensabile grammatica per cui camminiamo assieme e cerchiamo sempre il bene della nostra Chiesa, soprattutto che sia unita. Unità e pace. Il protagonismo è sempre una sottile divisione, figlio della nostra generazione per cui conta principalmente l’io, mi coinvolgo se faccio qualcosa che mi conviene e che lego alla mia persona. Noi dobbiamo mettere tutto noi stessi, la forza con cui dobbiamo amare Dio e il prossimo, e allo stesso tempo regalare tutto a Dio. L’altra tentazione è ridurre il servizio a pratiche da seguire, farlo senza comunicare, accontentandosi di svolgere un compito ma senza condividere, con il sottile e prudente protagonismo del funzionario. Aiutiamo questa Madre a raggiungere tanti e a valorizzare così i doni di ognuno.
Gesù è turbato. Non dimentichiamo che la Pasqua è un’agonia, una lotta terribile tra morte e vita, tra salvare se stessi e amore fino alla fine. E’ lui stesso turbato ma aiuta i suoi a non esserlo. I suoi lo saranno per la sconfitta della croce. Gesù lo è per il tradimento. Il suo turbamento è per Giuda, per lui, per il vedere fino a che punto il divisore può beffare l’uomo, fare crescere la zizzania e rovinare l’amicizia e soprattutto l’uomo, come l’incomprensione lo porta lontano e non gli fa più amare quello che ha di più bello, come il demone lo persuade a vendere il suo stesso amore.
La gloria vera, che siamo chiamati a cercare, è quella del dono, del semplice, primitivo amore che è il donarsi. Significa leggerezza, non fare pesare, simpatia come prima accoglienza, competenza e duttilità, non prendersi troppo sul serio, sapere che dobbiamo sempre imparare ma anche non fare mancare l’esperienza, aiutare e farsi aiutare, migliorare e non ripetere, interrogarsi con inquietudine e dare sicurezza e certezza, tradurre la carità in intelligenza e cultura ma senza smettere di sporcarsi le mani e di guardare negli occhi l’uomo mezzo morto, sentire il freddo della sua mano, sapersi alleare con l’albergatore, cercare tutti gli strumenti per capire il mondo e difendere i poveri con la forza della madre, conservare con responsabilità il tesoro che ci è affidato materiale spirituale, frutto di tanta fede dei poveri e di tanti, e allo stesso tempo guardare con fiducia il futuro, spendendo e costruendo quello che ancora non c’è.
Lasciamoci in questi giorni toccare il cuore dal suo amore, ritroviamo la semplice, infantile commozione per un amore così grande che ci libera dalla freddezza.  «Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12), tanto che si arriva a preferire “la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti”. Nell’anno della Parola ripartiamo da questa che è amore fino alla fine, che trova il suo compimento nella Parola definitiva della Pasqua, “E’ risorto!”, evento drammatico e stupendo della nostra redenzione. Perché se arde il cuore nel petto tutto inizia a correre di nuovo. E gli altri lo vedono e lo sentono. Ci affidiamo, con tutto noi stessi, con tutta la nostra mente, cuore e forza allo Spirito ed ai misteriosi piani della sua provvidenza.
La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito, affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore, risorgere con Lui ad un uomo nuovo e nutrirci del Pane eucaristico, perché il nostro cuore arda di fede, speranza e carità.

27/03/2018
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