Santa Messa Crismale

Ascoltiamo sempre con stupore Gesù che proclama ancora il suo oggi. Lui oggi asciuga le lacrime degli uomini e sana le ferite profonde che segnano la loro debolezza, che è sempre la stessa anche se nascosta dai tanti strumenti che li fanno credere onnipotenti. Sentiamo oggi la grazia di essere consacrati con l’unzione che non è mai, come tutte le cose di Dio, solo per noi stessi, ma per il misero, per chi ha il cuore spezzato, per gli schiavi, i prigionieri, i tanti che aspettano con ansia l’anno di grazia del Signore. A Lui, alfa e omèga di ogni lettera della nostra vita, cantiamo con immutato e forse ancora più consapevole meraviglia, la “gloria e la potenza”, sentendo la grazia, così più grande del nostro cuore, di fare parte del suo Regno e di essere “sacerdoti per il suo Dio”. Ringraziamo del dono della nostra vocazione e del ministero, che è sempre e solo servizio, dentro e per il suo popolo di santi, unti anche loro nel battesimo. Noi apparteniamo ad un popolo. Lo amiamo e lo cerchiamo, popolo sacerdotale, regale e profetico. Gli oli che consacreremo, ce lo ricordano fisicamente. L’olio non è mai solo per noi! Noi riceviamo anche tanta vocazione da chi è e ne sarà unto, in quella circolarità e complementarietà di doni che è propria del popolo di Dio. Circolarità che dobbiamo sempre scoprire e di cui abbiamo sempre bisogno.
Il semplice, povero, umanissimo grazie, ci fa bene perché ci libera dai sensi, così facili e sorprendentemente profondi, dei nostri meriti, del personale protagonismo che ci fa cercare il “mio” ed accontentarci di questo, mentre abbiamo gioia vera solo nel “nostro”, perché possediamo tutto nella carità. Una eccessiva soggettività, purtroppo così accarezzata dalla mentalità comune dell’individualismo, finisce per immiserirci, per “annodare le nostre vite attorno ai problemi che si aggrovigliano e che, nella solitudine, diventano complicazioni a volte inestricabili”, ha detto Papa Francesco a Carpi.
Gesù ci porta proprio a Nazareth, dove anche per noi è più forte la tentazione di crederci già suoi familiari. Nazareth è quando rischiamo di ascoltarlo con abitudine e con incredulità pratica, quando tutto appare già conosciuto, senza la forza dell’entusiasmo e del primo amore. In realtà molte volte siamo noi stessi che avvertiamo il limite, l’angustia di Nazareth, quando ci sembra che nessuno chieda, abbia bisogno di amore, dove tutto sembra già vissuto e quindi sono impossibili le cose nuove, i “miracoli”. Altre volte ci adeguiamo al piccolo villaggio, che è protettivo, sicuro, che garantisce ruolo, anche se mediocre, difesi dalla legge ma senza lo Spirito che solo le può generare vita. Ma noi siamo chiamati alle cose grandi di Dio e non al piccolo orgoglio di Nazareth! A volte la stessa chiesa può diventare una piccola Nazareth. La diversità senza la comunione finisce per essere sterile contrapposizione e la comunione senza diversità un condominio sterile e povero di vita. A Nazareth è facile permettersi di litigare o finir per non aiutarsi, disattendendo l’invito così chiaro dell’apostolo, valido per tutti e sempre, di gareggiare nello stimarci a vicenda. A Nazareth si fa tanta fatica perché senza lo Spirito accade che “i doveri stanchino più di quanto sia ragionevole, e a volte facciano ammalare”. Il piccolo mondo diventa l’unico, si riempie di paure ingiustificate e tutto viene interpretato nel piccolo, non viceversa e così finiamo per non capire più nemmeno la stessa Nazareth!
Ma non usciamo da Nazareth con progetti che, come scrive Papa Francesco nell’EG, riempiono di inutili agitazioni quello che potremmo fare con tranquillità. Non usciamo da Nazareth con l’enfasi organizzativa, per cui ci entusiasmiamo più alla “tabella di marcia” che alla marcia stessa, anche se questo ci garantisce la convinzione di avere fatto tutto il necessario. Non usciamo da Nazareth con le ansie da prestazione, che aumentano tanto più confidiamo in noi, nelle nostre capacità e meno nella grazia. Usciamo, e forse possiamo dire entriamo per davvero a Nazareth, solo se pieni di Gesù, forti del suo Spirito, quello per cui siamo stati unti. Sapremo essere un popolo grande che vive nella città degli uomini se gustiamo e doniamo noi il cibo buono del pane e della Parola. Anche per questo vorrei ringraziare con voi per il dono della Eucarestia e della comunione tra noi che questa continua a creare, comunione che dobbiamo amare, celebrare e servire come sacra, perché in essa viviamo già l’essere una cosa sola. Togliamoci sempre i sandali davanti ad un mistero come questo, ricordandoci come noi, che sull’altare siamo messi a contatto con il Corpo e Sangue di Cristo, abbiamo promesso di conformare a lui tutta la vostra vita. Ma anche viviamolo con la familiarità per Colui che non si vergogna di entrare sotto il nostro povero tetto e non ha timore di renderci suoi. La comunione che proviene dall’Eucarestia è la nostra forza e significa amicizia, familiarità diffusa, relazione sempre aperta, relazione. Non siamo chiamati a controllare ma a donare e a credere nella forza dello Spirito. La comunione, infatti, si allarga misteriosamente ai “tutti” per i quali è spezzato quel corpo, i tanti che ancora non conosciamo, ma sappiamo che ci sono. La condivisione inizia con la simpatia, l’essere attrattivi, gratuiti, accoglienti, capaci di fare il primo passo. Solo la comunione porta l’unità di cui abbiamo tanto bisogno, di cui tutti hanno bisogno e che non possiamo mai dare per scontata, tanto meno umiliare. La nostra comunione deve includere tutti e non perdere nessuno. Questo è possibile solo se costruiamo parrocchie e comunità davvero familiari, chiedendo a tutti responsabilità, cioè ministeri di servizio alla comunione. La comunione ci libera da una visione mondana o da villaggio, che riduce tutto alla personale considerazione o ruolo, di una chiesa ridotta a Nazareth, che smarrisce così la vocazione grande cui è chiamata. Ne abbiamo bisogno personalmente, per non atrofizzarci, per non diventare caricature di noi stessi, per non maturare caratteri che diventano trincee e che a volte sfacciatamente imponiamo agli altri. Serviamo la comunione, regaliamo la comunione, non imponiamo o comandiamo. E’ l’eucarestia che genera comunione con Cristo e tra noi e questa ci comunica la forza per rispondere alle tante sfide che abbiamo davanti. Nella comunione desidero ricordare i confratelli che certamente pregano con noi e per noi, legati a questa chiesa che hanno servito con dedizione e zelo, perché, come dice Giovanni Crisostomo “la festa degli abitanti dei cieli si unisce a quella degli abitanti della e terra in un’unica azione di grazie, un unico slancio di esultanza, un unico coro di gioia”. Ricordiamo tutti i preti defunti questo anno ad iniziare da Mons. Benito Cocchi, carissimo fratello, don Giovanni Ravaglia, don Dante Baldazzi, Padre Sergio Targon, don Marcello Rondelli, don Mauro Marzocchi e il diacono Enzo. Oggi sentiamo con noi il caro Cardinale Caffarra, che con amicizia e premura prega per la nostra chiesa di Bologna; i nostri sacerdoti fidei donum in Diocesi di Iringa Don Enrico Faggioli e Don Davide Zangarini; don Athos Righi in Giordania; don Luca in Cambogia. Ricordo con affetto Mons. Bettazzi, Stagni e Ghirelli. E abbracciamo quanti per malattia o altro sono impossibilitati a venire. Nessuno è dimenticato. La nostra unità è spirituale, non virtuale. E per questo anche molto concreta. Non consideriamo mai inutile il colloquio e la visita e non rendiamolo istituzionale. Se noi ci penseremo in comunione lo saranno sempre di più le nostre comunità e sapremo trovare le risposte per una chiesa missionaria.
Uscire per seguire Gesù nelle sue strade ci aiuterà a vivere la comunione e ad amare una chiesa davvero di tutti. Gesù ci chiede di andare con cuore rinnovato ad incontrare la folla, ognuno e tutti, nutrendo la folla, confusa e contraddittoria tanto che sarà la stessa a gridare la condanna di Gesù. Eppure il maestro non smette di prendere se stesso e il poco che abbiamo perché diventi nutrimento per tutti.
Cantava Santa Caterina da Bologna: “O anima gentile, non ti fare tanto vile, che non prendi quello che a te vuol venire, vedendo la sua bontà – essere tanto cortese che di sua deità – te ne fa larghe spese. Or correte, peccatori, – e più non indugiate, Egli s’è fatto cibo – perché lo prendiate. Ohimè di quanto errore – è pieno il cuore umano, che da tanto cibo – pure vuole star lontano.”O cibo di dolcezza, Che pasci e non fastidi! Fontana d’allegrezza, che in mezzo al pianto ridi, i miei divoti gridi, Signor benigno ascolta! O manna saporita, d’ogni dolcezza piena! O zucchero condito senza sapor terreno!… (…) Tutta certo nel Signore Del tutto mi vorria trasformare. O Sacramento! O mare! O via saporosa, sacrata Carne ascosa dal Padre pietoso!”. (Da S. Caterina da Bologna, Le Sette Armi Spirituali, in Mistici francescani, Vol. III sec XV, Ed. Francescane, pp. 148-151.)
Ci accompagni Lei e tutti i nostri Santi nello spezzare il pane per la grande folla che il Signore ci indica e che ha fame di questo nutrimento di solo amore, manna saporita, cibo gratuito perché di solo amore e gioia.

13/04/2017
condividi su