Solennità di San Petronio

La memoria di San Petronio ci aiuta a ritrovarci insieme e a contemplare come comunità il dono della nostra città. Non a caso il nostro santo patrono viene raffigurato, come ricordava il Cardinale Caffarra, in due modi:  con la città tenuta sul braccio, vicina al cuore, come pater civitatis e l’altra nel gesto di dare cibo ai poveri, come pater pauperum. Sempre padre, che custodisce e padre che dona tutto quello che ha perché il padre si pensa per i suoi figli. San Petronio sembra affidarci la città che protegge, perché nessuno sia orfano, esposto alle tante insidiose avversità della vita. Qualche volta vediamo una città dove il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, in qualche maniera intossicandoci, perché il negativo giorno per giorno si accumula. Diceva Papa Benedetto XVI che così “il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono”, tanto che a volte facciamo fatica a vedere il bello e le possibilità che abbiamo. Così i sogni svaniscono,  avvelenati dalla disillusione e finiamo per provare paura e rabbia. “La città siamo tutti noi!”, aggiungeva il Papa emerito, perché in essa “non ci sono spettatori!”. Ecco, oggi San Petronio ce la offre di nuovo, coinvolgendoci tutti nel suo amore di padre, perché i discepoli di Gesù hanno cura dei fratelli più piccoli del loro unico maestro, la verità che seguono e capiscono solo amandolo. Il futuro nostro dipende da come trattiamo i fratelli più piccoli, perché se sono protetti loro lo siamo tutti. Ciascuno contribuisce alla vita e al clima umano e morale della città, nel bene o nel male, il cui confine passa nel nostro cuore. Siamo tutti “attori” e il nostro comportamento ha un influsso sugli altri. San Petronio ci ricorda, mostrando la città tutta intera, che nessuno è un’isola e quello che facciamo pur piccolo ha sempre una conseguenza. E nell’amore niente è piccolo e questi è sempre un piccolo seme che cresce. I portici, spazio di accoglienza e protezione offerto a chiunque, dove pubblico e privato coincidono, sono responsabilità degli abitanti della casa cui appartengono, ai quali è affidata la manutenzione! Aiutiamo, allora, la nostra città rendendola migliore con l’attenzione, la cura, disarmando con l’amore i cuori aggressivi. La Chiesa sente la responsabilità di ricucire il tessuto comunitario che l’individualismo lacera. Impariamo a custodirci, come è avvenuto a Borgo Panigale con tanta efficacia e competenza, che richiede sacrificio e preparazione. Guardiamo la città con gli occhi di Gesù, a partire dal cuore e quindi con misericordia, con amore, con tenerezza infinita. Bologna ha sempre avuto una grande capacità di adottare l’altro. Si diventa bolognesi facilmente! Come diceva Papa Francesco: è dotta, ma non saccente. La caratteristica che più le viene attribuita è la bonomia, cioè la bontà del cuore, la semplicità di modi, la mitezza che spinge per la comprensione, nostra vera forza, figlia della humanitas che nasce dal vivere il Vangelo nella storia. La bonomia relativizza lo scontro, cerca con pazienza le ragioni del vivere assieme, aiuta l’altro a tirare fuori la parte migliore, accoglie e fa sentire accolti. La bonomia è assai diversa da buonismo che ne è la caricatura e la deformazione. Non ne vedo, senza rimpianti, molto in giro! Gesù e Maria, nostra madre, ci chiedono di essere buoni per davvero e farci carico, non di accontentarci di una buona azione per sentirci a posto a poco prezzo. Siamo migliori non nell’orgoglio o in un’idea troppo alta di sé, ma nel servizio e nell’umiltà, cioè nel pensarci per gli altri e nel mettere a profitto quello che si ha, sempre, anche quando si ha tanto. San Petronio non costruisce un’altra città, separata; non si chiude in un mondo a parte pensando così di proteggere le sue convinzioni ma protegge tutta la città e in essa semina il Vangelo di amore che Gesù ha affidato. Anche noi non smettiamo di adottare la città degli uomini, di custodire con intelligenza e fermezza i suoi figli, tutti, perché il nostro Dio non fa distinzioni, mai, per nessuno. Dio è libertà e per questo è amore e ci lascia liberi, proprio perché solo così si può amare. Custodiamo le cose comuni col gusto di farle bene, perché quello che facciamo aiuterà certamente qualcuno anche se non lo conosciamo. Non pensiamo che tanto non serve a niente. Custodiamo i più anziani, i tanti diversamente abili (lo diventiamo tutti così facilmente!) proteggendoli con la premura, con le visite, attenti alla fragilità, non accettando mai per nessuno che sia normale la solitudine. Sappiamo quanto con poco si offende la dignità. Basta non fare nulla o un atteggiamento paternalista. Essi sono sensibili e ci aiutano a esserlo anche noi. Adottiamo i suoi figli più piccoli, a cominciare dai giovani, perché possano sognare, come giustamente ha chiesto Papa Francesco introducendo il Sinodo dedicato proprio a loro.  E questo ci coinvolge tutti, perché i giovani  “saranno capaci di profezia e di visione nella misura in cui noi, ormai adulti o anziani, siamo capaci di sognare e così contagiare e condividere i sogni e le speranze che portiamo nel cuore”. Altrimenti li lasciamo  esposti alle intemperie e orfani di una comunità di fede che li sostenga, di un orizzonte di senso e di vita. Questo ci chiede di lavorare per “rovesciare le situazioni di precarietà, di esclusione e di violenza, alle quali sono esposti i nostri ragazzi”, a volte, purtroppo, nelle mani di tanti mercanti di morte, come le dipendenze. E ne vediamo drammaticamente e dolorosamente i frutti.
Iniziamo oggi non a caso proprio in questa chiesa che rappresenta la nostra città la scelta di abbattere le barriere che sono muri per chi ha difficoltà! Quanti dobbiamo buttarne giù! Se ne accorgono, e come!, chi li deve affrontare. Don Mario Campidori, che nella simpatia e nell’amicizia vedeva la strada di tutti e di tutto, raccontava come riceveva spesso confessioni piene di amarezza da parte di persone che, abituate alla santa Messa domenicale, si accusano di non poter più andare alla Messa per un qualche impedimento fisico. “A me dunque sembra che le Comunità parrocchiali dovrebbero prendere coscienza dell’obbligo di un primo impegno, di portare e ricevere alla Messa con tutti, gli impediti e i malati che lo desiderano”. Vogliamo una chiesa senza barriere fisiche ma soprattutto, e dipende da ognuno di noi, senza quelle invisibili che sono la solitudine, il pregiudizio, l’indifferenza. La paura suggerisce di alzare barriere, ma non sono queste a darci sicurezza, perché alla fine ci isolano. Abbiamo ascoltato le parole dell’apostolo che invitano a essere un corpo, a pensarsi insieme. Le sento così vere sia per la nostra città, che vuole ritrovare il gusto di essere  e pensarsi come una comunità dove la diversità non significa scontro ma ricchezza, sia che per la Chiesa, che sta pensandosi sempre più come comunione di comunità con l’avvio delle zone pastorali. Le membra non hanno mai la stessa funzione e tutte sono importanti, anzi sono indispensabili non perché fanno da sole (diventiamo inutili!) ma perché insieme. La comunione non omologa, non rende uguali. Bologna sarà davvero come Gerusalemme a Pentecoste, quando la confusione di Babele è ricomposta da quei deboli ma fortissimi apostoli. Siamo noi, oggi, preti e laici, pieni del suo amore e nutriti dalla sua Parola, capaci di parlare la lingua che tutti capiscono e di vincere l’incomprensione, la barriera più grande che tanti conflitti genera.
Interceda per noi e per tutta la nostra città San Petronio e la Vergine di San Luca che dall’alto ci orienta e misteriosamente, come una madre, la protegge. E come a Gerusalemme parliamo, come possiamo, con la nostra santità riflesso dell’amore che Dio ci ha affidato, la lingua che tutti comprendono e che cambia il presente e realizza il futuro.

04/10/2018
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