“te deum” di fine d’anno

Bologna, Basilica di San Petronio

Tra qualche ora chiudiamo un altro anno. Anzi, la cifra tonda che da domani comparirà sulle nostre date ci consente di dire che stanotte si chiuderà anche un secolo e addirittura un millennio.

Tutto ciò che finisce, fatalmente ci infligge qualche malinconia. In sere come queste affiora in noi la memoria di ciò che nei mesi trascorsi ci aveva lusingato e fatto sognare, e poi ci ha alla fine deluso. Perfino il ricordo di qualche ora lieta e gratificante, dal momento che adesso è ormai passata per sempre, contribuisce a renderci mesti.

Più profondamente, ci intriga la fastidiosa coscienza che, con l’anno, anche una parte di noi si è dissolta: un’altra pagina dell’esiguo libro della nostra vita è stata girata; e quante siano le pagine intonse, che ancora potremo scorrere e assaporare, non ci è dato di sapere.

E’ verosimile che anche i tripudi e gli eccessi di questa notte – a saperli valutare oltre la luccicante scena esteriore – siano il tentativo dell’umanità di esorcizzare, come si può, una pungente tristezza esistenziale che si annida nel cuore di tutti.

A essere sinceri, si annida anche nel cuore di quanti, come noi, si radunano per elevare l’inno giubilante del Te Deum. Ed è per questo che la sapienza materna della Chiesa stasera ci fa cantare non solo le espressioni di lode e di gratitudine, ma anche quelle dell’implorazione di soccorso e della domanda di perdono: “Pietà di noi, Signore, pietà di noi”.

E ci rammenta che, se ci è consentito di riprendere domani con serenità il nostro cammino, non è certo in virtù della nostra spensieratezza e della nostra bravura a liberarci nel chiasso dai pensieri molesti, ma per la certezza che la misericordia di Dio è inesauribile: “Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”.

Se tutto ciò che finisce comporta sempre qualche malessere spirituale, tutto ciò che comincia evoca invece una promessa di letizia. La consuetudine, gentile e umanissima, di scambiarci gli auguri in occasione dell’anno nuovo, nasce appunto da un desiderio fiducioso di ottimismo e di ripresa, dal presagio accarezzato che ogni contrarietà si dilegui, da una ravvivata volontà di coraggio.

A quanti ci sono cari – e a noi stessi – auspichiamo un avvenire ricco di prosperità, di soddisfazioni, di sicurezza, di pace. Gli auguri però sono sì parole cortesi e piacevoli, ma da sé sole sono parole inefficaci e vuote.

A dar loro più plausibilità e più sostanza, ad esse noi vogliamo qui associare la nostra preghiera, poiché ci è stato rivelato e sappiamo che “ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

Che cosa augureremo al secolo ventunesimo, sul quale ci affacciamo con la trepidazione che sempre si prova davanti a ciò che non si conosce e non si può prevedere? Gli augureremo tutto il bene possibile, ma soprattutto un supplemento di saggezza e di pietà.

Un po’ più di saggezza di quanto l’umanità non abbia dimostrato in questi decenni, in particolare per quel che si riferisce alle norme fondamentali di comportamento, alla salvaguardia dell’istituto familiare, all’educazione delle nuove generazioni e in genere al rispetto della retta ragione. Ed è, questo, un auspicio accorato perché – come ha lasciato scritto Bonhoeffer prima di essere ucciso da miserabili che credevano di essere superuomini – “contro la stupidità siamo senza difesa”.

E un po’ più di pietà, dopo tutto il sangue inutilmente versato nel Novecento, dopo le vite innocenti legalmente sacrificate sull’altare dell’egoismo, dopo gli spaventosi genocidi perpetrati dalle diverse ideologie anticristiane e quindi antiumane. Nessuna epoca della storia – quando la storia non sia infiorata di bugie – può essere giudicata più crudele, più oppressiva, più cruenta del secolo ventesimo; di quel secolo che pure era iniziato proponendo con laicistico candore la religione del progresso e il mito di una felicità terrestre universale.

La nostra attesa fiduciosa perciò è che le innegabili conquiste della scienza e della tecnica, nonché la più ampia diffusione del benessere economico e sociale, non vengano più attuate a spese di ciò che nella natura e nella dignità dell’uomo è essenziale e primario.

Che cosa augureremo poi a quanti nel battesimo sono stati consacrati al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo? Prima di tutto di riscoprire sul serio Gesù di Nazaret per quello che è: l’unigenito eterno di Dio, che nel grembo di Maria è diventato per sempre nostro fratello; il Signore della storia e dei cuori, che è il centro e il senso dell’unica nostra vita; la sola speranza vera e non deludente, in un mondo che di speranze vere e non deludenti non è in grado di offrirne a nessuno. E poiché è l’unico Salvatore di tutti, a tutti deve essere da noi annunciato e testimoniato con la franchezza del nostro dire e la coerenza del nostro operare.

Il secondo augurio che ci facciamo è di renderci conto della nostra fortuna di appartenere alla Chiesa Cattolica, la quale è il capolavoro di Dio: una realtà che riesce a essere santa e senza macchia pur essendo composta da noi peccatori. Essere membra vive del Corpo di Cristo deve tornare a costituire la ragione della nostra gioia più intensa e della nostra più motivata fierezza

Al popolo bolognese il nostro augurio – e già l’ho scritto in una lettera pastorale – è che “muova incontro alle incognite del futuro con la sua inconfondibile e preziosa identità”, diventando “sempre più consapevole dei suoi valori, della sua storia, della sua tipica eredità di fede, di vocazione alla solidarietà, di serenità nutrita dalla speranza cristiana”. E’ in una parola l’augurio che i bolognesi diventino sempre più “petroniani”.

Ci aiuti in questo e ci soccorra lo stesso nostro Santo Patrono, venerato e amato dai nostri padri.

31/12/1999
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