Ringrazio Dio di questi giorni di fraternità. Non pensiamoci mai superiori a questa, a volte isolandoci, mantenendo la distanza o riducendola a cameratismo, mentre invece è dono, esercizio pratico di collegialità, importante per tutti perché per essere padri dobbiamo essere sempre figli e fratelli, e perché la comunione misteriosamente è capace di proteggerci e completarci perché frutto dello Spirito. Non indeboliamola mai, non c’è nessuna ragione che lo giustifichi, e ricordiamoci sempre che è la vera forza della Chiesa, diversa dal mondo proprio per la comunione intorno a Cristo. Ed è umana, molto umana, ma è sempre di Dio.
L’apostolo ci ricorda il centro di tutto. Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto, è risorto il terzo giorno, apparve a Cefa e quindi ai Dodici. Ecco la nostra fede, ciò che permette di non ridurre il Vangelo ad importanti valori, perché è di più, e se c’è Cristo i valori si conservano, crescono, superano la giustizia degli scribi e dei farisei o il lievito di Erode e degli scribi. È luce che vince le tenebre, che affronta la notte più grande, terribile, definitiva, e che, proprio per questo, ci permette di vivere lottando contro il male che spegne la vita ben prima della morte. Anche noi come i raffinati ateniesi crediamo solo a quello che vediamo deformati ancora dall’esaltazione di sé. In realtà siamo sempre a tentoni e i riflessi della vita del cielo sono presenti nella nostra povera vita, possiamo vederli e mostrarli a chi cerca futuro, a chi cerca quello che non finisce, che è essenziale e dona senso e speranza alla nostra povera vita mendicante di futuro. “Ciascun essere umano ha sempre di più bisogno di Cristo, e l’evangelizzazione non dovrebbe consentire che qualcuno si accontenti di poco ma che possa dire pienamente: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20)”, scrive Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium. Noi non ci vogliamo accontentare di poco! (EG 164).
La fede esalta l’uomo molto più dell’orgoglio e dona una vita piena molto più del consumismo! “Il kerygma è il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre. Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano.
È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti. Non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio”. (EG165) Il kerygma “è l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano”. Infinito e umanissimo desiderio. “La centralità del kerygma richiede che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna. E non dimentichiamo come (EG 177) “Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità” (EG 178).
Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio. Ma Gesù è un maestro che resta troppo umano. È sempre il figlio di Giuseppe, da Nazareth, troppo umano per convincere i nostri dubbi che cercano sicurezza per non rischiare, per non abbandonarsi alla fiducia. Gesù non ha paura dei farisei. I farisei di Gesù. Lo studiano, si difendono da lui, mormorano. Sono ossessivamente preoccupati del male e a loro sembra pericoloso, contro la legge. Per loro è insicuro chi non condanna il peccatore e al contrario lo accoglie, senza dogane. Poi, come sappiamo, non combattono il male e ne restano prigionieri perché non amano e non sanno vedere il bene. La misericordia appare come complicità con il peccatore, ingiusta, come giudica il fratello maggiore. Gesù si mette a tavola. I farisei no.
Per loro quella donna non era più una donna, ma era solo il suo peccato, tanto da essere definita “peccatrice”. Peccato è condanna. Lei, però, è l’unica che porta un vaso di profumo e piange, piange su di sé. Ha amore verso Gesù ed esprime il suo bisogno di perdono, di un amore più grande del suo peccato. Il fariseo di fronte a questa manifestazione evidente e commovente di fiducia – non era certo facile per una donna fare questo, superare i pregiudizi che portava nel suo corpo e nella sua storia – mormora, come spesso fanno i giusti o chi ha paura della misericordia come se fosse tradimento della verità. E giudica Gesù proprio per questa. Gesù la accoglie proprio perché è un profeta, perché il perdono genera quello che altrimenti è impossibile: una donna nuova. Gesù insegna a Simone a non giudicare e a riconoscere l’amore, mettendolo di fronte a lei e insegnando a vederla con occhi nuovi. E anche a pensarsi, quindi, uguale a lei! Anzi. Diventa lei un modello per lui! Tu non mi hai dato, lei sì. Tu non hai fatto, lei sì. La differenza è come il pubblicano e il fariseo al tempio: a lei sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, perché ama poco.
Il giusto, chi il perdono non lo chiede e non lo dona, chi si crede giusto, resta com’è. La tua fede ti ha salvata. È il regalo più grande che possiamo aiutare a riconoscere e a rendere consapevoli: l’incontro, lasciarsi avvicinare, non giudicare, come condizione per accogliere il perdono, fa scoprire la forza della fede che le restituisce quello che il male aveva cancellato. La Chiesa è comunione dei santi e ci aiuta ad esserlo, a cercare il giudizio di Dio che è il miglior giudizio per gli uomini e la migliore interpretazione di se stessi. Giudizio che chiarisce ma non condanna, che ci impegna nell’esigentissima, umanissima misericordia, perché ci lega nell’amore, a chiedere e a dare. E sappiamo che giudicare è molto più facile di quello che pensiamo. Gesù dice cosa vuole per sé e per gli altri rovesciando il giudizio del fariseo e indicando chi ama e chi ha bisogno di amore. Costruiamo case di misericordia, in un mondo che giudica e condanna, che non si fida e che, come il fariseo, ha qualcosa da ridire ma non ha niente da dare, anzi, pensa così di combattere il male e, quindi, ossessivamente interpreta il gesto commovente di una donna che piange pensando male di lei e di Gesù, malevola, cercando il male, pensando così di difendere la verità mentre la offende e non la capisce. Chi dice la verità? Il pensiero del fariseo che ricorda che è una peccatrice o Gesù che accoglie la richiesta della donna?
Chi conosce la verità del figlio più giovane, il padre che lo ama o il fratello che ricorda le prostitute con cui ha speso i soldi? La verità di Gesù, esigente ed impegnativa, è quella di riconoscere la donna non come una peccatrice ma come una che la sua fede salva, a differenza del fariseo che resta prigioniero dei suoi giudizi, solo con quelli, mentre la vita è un’altra. Ecco lo sguardo che ci è chiesto. Quello di Gesù. Oggi siamo aiutati da un nostro fratello maggiore. Davvero il più piccolo. Che diventa fratello maggiore, come i piccoli che spiegano ai dotti e ai sapienti il segreto del Regno. Qui aveva imparato perché ascoltava Gesù e lo prendeva sul serio. Vorrei leggere con voi due cose di don Giovanni, ringraziando Dio della sua testimonianza che come la vera santità non invecchia. E noi cerchiamo di essere santi, non fastidiosi e presuntuosi perfetti che hanno sempre ragione, antipatici nella loro supponenza, che giudicano e non amano, che hanno la loro verità ma non quella di Dio. Santi come il dolce e fortissimo don Giovanni.
Oggi siamo invitati ad iscriverci tutti alla “repubblica degli illusi”, cioè di chi ha speranza, patto di fraternità da vivere da preti. E questa dedicazione sia la sua protezione per quanti vi pregheranno, perché siano pieni di illusione nello scegliere di donare la vita. “Illuso, non la sapienza, non il successo, son gioia perfetta. Cristo è la tua gioia! La santità è fatta non di verbi, ma di avverbi. Il sacerdozio non è via di mezzo. Esige santità e promette gioia, ma è avaro del suo dono ai pusillanimi e si converte in tortura per i profanatori. Illuso, mettiti nel Cenacolo insieme agli Apostoli e prega Maria che ti ottenga dallo Spirito Santo gioia, luce e calore. Più l’illuso farà madre sua Maria, per amor vivo, per fiducia illimitata, più la maternità celeste si mostrerà a lui, fino al miracolo, se occorre”. Il motto è: «Contro corrente». Segue una dichiarazione d’intenti: “Vogliamo essere lievito che agisce nascostamente nella massa e per la massa”. “Vivere ogni giorno la prima Messa. Ogni cosa sottratta all’amore di Cristo è sottratta alla vita”.
Lui dice: “il male è arrivato a tanto, che noi siamo forse alla vigilia di tremende catastrofi sociali e proprio in questi giorni dico, alla vista di tanti guai, la Vergine Immacolata scende a Lourdes, e la sua apparizione e i suoi miracoli, in mezzo al buio di questi tempi, diventano un faro luminosissimo, che proietta una luce immensa sulla verità della fede, sull’insegnamento infallibile della Chiesa e sulla pratica della vita cristiana. Dalla grotta di Massabielle parte il trepido grido di questa Madre Celeste che, vedendoci sull’orlo dell’abisso, ci richiama indietro e ci spinge al penitente ritorno a Dio. E là è discesa, non solo per la Francia, ma per tutte le Nazioni. E noi dobbiamo pregare la Regina della Vittoria e della Pace che, elevata fra la maestà dei Pirenei ad arbitra della desolata Spagna, dell’infelice Francia e del tempestoso mondo, faccia trionfare la fede e faccia in questa sera così burrascosa risplendere sull’orizzonte l’arcobaleno. (…) Come una madre che vede in pericolo il suo figliolo, non ne lascia ad altri la cura, ma vi corre essa in aiuto, così ha fatto Maria.
E a Lourdes è discesa per tutti, accoglie tutti, nazionali e stranieri, ricchi e poveri, sani e malati, giusti e peccatori. Tale dev’essere la nostra carità verso il prossimo, noi chiamati al sacerdozio che è ministero di amore e di sacrificio. Anzi le qualità di questo amore possiamo vederle simboleggiate nella fontana della grotta. Zampilla essa dalla viva roccia; così la carità deve sgorgare dalla salda pietra della fede, altrimenti avremo la vana e volubile filantropia del secolo. La fontana zampilla da luogo nascosto; la carità deve scaturire dal cuore umile che non cerca il rumore del mondo. La fontana è accessibile a tutti, senza eccezione, la carità la si deve usare con tutti, anche coi nemici. La fontana una volta scaturita, non cessò mai, la carità non deve illanguidirsi ma continuare sempre nelle opere di misericordia. L’acqua della fontana è limpida e pura; così la carità non deve tollerare miscugli di altri fini nelle sue opere, ma deve avere per fine il puro amor di Dio”.
Sia così, e la dolce fermezza, la totale generosità di don Giovanni, in questi tempi così minacciosi, aiuti noi e tanti ad essere ministri del Vangelo e a donare a tutti il suo amore.