Intervento al convegno Cei “Liberi di partire, liberi di restare”

Roma, Cei

Questa campagna è nata da un’altra pandemia, una delle tante che abbiamo ignorato o alle quali ci siamo assuefatti tanto da pensare di poterci convivere. Avevamo pensato che non ci riguardassero, che non fossero “roba” nostra, che potessimo continuare a credere di starcene in pace quando i pezzi della guerra mondiale erano evidenti o di restare sani in un mondo segnato dalla malattia, sazi quando tanti poveri Lazzaro non avevano niente da mangiare.

La Chiesa è stata una madre che non si è mai abituata alla sofferenza, a nessuna pandemia cioè ad una sofferenza universale. Le ha sempre sentite come sue. Davanti ai tanti drammatici SOS ha cercato di trovare delle risposte. Da questo nasce Liberi di partire, liberi di restare. L’emigrazione era un’emergenza di sofferenza e di morte, alla quale si è tentato di dare una risposta e di indicare soluzioni.

E non siamo certo gelosi se altri fanno propria la campagna! Unire il partire e il restare e soprattutto dare la libertà, cioè la dignità di essere uomini, di scegliere, di essere se stessi: ecco l’intelligenza della campagna. Si deve essere liberati perché si è prigionieri e la guerra, la fame, la mancanza di tutto sono dei tiranni terribili. Si è liberi se qualcuno spezza le catene della schiavitù. Liberi di partire ha fatto propria l’esperienza dei Corridoi Umanitari che la Comunità di sant’Egidio e la Tavola Valdese organizzava già da tempo.  E’ anche questa un’indicazione importante di metodo: aiutarsi, collaborare, coinvolgere, come è successo, tanti e diversi soggetti. 

E’ una campagna nata dal rifiutare una regola non scritta ma che spesso accompagna le pandemie, quella dell’impossibilità a fare qualcosa. “I problemi sono troppo grandi!”.  Siamo stati provocati in questi anni da tanti fatti e immagini: quante occasioni perse! Quanti scandali di morte, in un mediterraneo ridotto ad un cimitero, in un mare che non era più “nostrum”!

Li abbiamo vissuti con “inutile romanticismo”, cioè non sono diventati risposte concrete. A volte ci siamo sentiti troppo piccoli oppure abbiamo sempre pensato che occorreva una risposta generale. Ecco, i corridoi umanitari nascevano proprio da iniziare qualcosa. Questa campagna ha significato scegliere qualcosa, indicare a tutti la responsabilità, iniziare e coinvolgere tanti nel fare qualcosa. Salvare una vita è sempre salvare il mondo intero!

Abbiamo indicato una priorità e suscitato solidarietà. Il rischio è di inviare molti messaggi e pensare di fare tante cose, ma che perdono importanza proprio perché alla fine tutti uguali. E’ la tentazione di dire tutto, che viene quando non sappiamo bene cosa scegliere o non sappiamo distinguere che c’è qualcosa di più urgente di altro, finendo per non comunicare con passione, per rispondere a domande che nessuno ci rivolge e non rispondere a quelle vere. Avete scelto una via. E questo ha permesso percorrerla. 

La campagna è riassunta in uno slogan, efficace, diretto, chiaro, che suscita comprensione immediata e che contrasta efficacemente una non cultura che produce slogan di segno opposto. E mentre questi impediscono di fare o addirittura motivano il non fare nulla, inquinano le fonti come criminalizzare l’umanitario o il servizio di difesa della vita, giustificano indifferenza o il rifiuto pieno di rancore, il nostro slogan coinvolge tanti nel cercare di fare qualcosa e mette in movimento processi pieni di attenzione alla persona. Da questo slogan nasce una conoscenza, una comprensione e anche una cultura. Infatti il nostro è un modo per comunicare una realtà spesso nascosta, non conosciuta, quotidiana come l’impegno di tante realtà. Il problema della cultura è decisivo in una generazione che rischia la superficialità digitale, cioè una comprensione apparente, che crede sapere tutto e in realtà non conosce nulla perché non studia e non incontra personalmente, vittima anche dei produttori di fake news o di distorsioni nelle notizie.

Ci scontriamo, infatti, con produttori di sub-cultura digitale, “viscerale” o di pancia, che sono efficaci, disinvolti, sfacciati, impudichi, che possono dire tutto e il contrario di tutto, sostenere quello che è evidentemente sbagliato e soprattutto non vero solo per convenienza immediata. Quando non c’è cultura conta chi urla di più, chi “arriva” prima, chi nasconde la realtà e la sua complessità e crede di spiegarla agli altri, non chi discerne, chi pensa e prova a trovare risposte vere. 

Senza cultura, cioè senza visione della vita, comprensione dei fatti, discernimento, riferimenti storici, etici e valori condivisi e vissuti, conoscenza, tutto diventa pericoloso. La carità deve produrre cultura. A Bologna avevamo iniziato delle lectio pauperum. Come per la lectio divina si prova a leggere le situazioni di povertà nella storia, con gli strumenti indispensabili per capire quel testo che è il povero che incontri e quindi la povertà che egli manifesta, la situazione che ci interroga.

Non basta essere generosi! Come per la lectio divina non basta leggerla all’impronta, perché si rischia di restare sempre in superficie, di non costruire interiorità, di non capirla e quindi di non capire cosa ci chiede oggi, la storia, le cause e quindi le soluzioni. La lectio divina e la lectio pauperum servono per non restar in superficie, per capire cosa si può fare e assumersi la complessità della situazione e non accontentarsi solo di “fare qualcosa”!

Come la Parola di Dio cresce con chi la legge, così la lectio pauperum ci fa entrare nella storia, consapevoli di poterla e doverla cambiare. E si conosce solo amando, quindi anche fermandosi a capirla, andando in profondità, usando tutti gli strumenti offerti dalle scienze. E’ un aspetto di quella compassione che c’è chiesta e che deve diventare intelligenza. Altrimenti rischiamo l’inutile romanticismo cioè accontentarsi delle nostre emozioni e non aiutare la sofferenza degli altri. 

L’apostolo Giacomo afferma che a chi ha freddo non basta dire, anche se con convinzione, “va in pace”, credendo così di avere risolto il problema, senza comprendere che cosa prova; che ha bisogno di una coperta. E’ necessario capire quale coperta va bene e anche interrogarsi sul perché ha freddo e su cosa bisogna fare per aiutarla a non provarlo più.

La lettera di Giacomo ci ammonisce sempre a rendere opera la nostra fede, perché questa altrimenti è vana anche se piena di verità e perché le opere nutrono anche la fede. Non permettiamo di dividere prassi e spirito, opponendo servizio, promozione umana e Vangelo. Sono un tutt’uno! 

Liberi di partire e di restare? Cosa accade quando non si è liberi? Cosa succede quando si resta prigionieri? Perché se non si è liberi vuol dire che non ci sono possibilità! E non c’è niente di peggio che non dare opportunità: è una condanna.

Chi imprigiona e chi libera? Noi possiamo liberare, cioè affrancare da tante schiavitù! Non siamo osservatori imparziali! Anzi, vediamo bene proprio perché parziali, cioè con gli occhi di Gesù che sono diventati quelli dell’altro, che vedono perché amano. Chi non ama non si rende conto. Solo l’amore permette di vedere. Diceva Mazzolari che l’indifferente non vede i poveri intorno a lui! Lo sguardo di chi ama è tutt’altro che buonista.

Gesù per primo ama l’altro e fa a lui quello che vuole sia fatto a sé! I cristiani sono chiamati a fare lo stesso! Quando, al contrario, l’amore per i poveri viene letto come prendere una parte ci dobbiamo preoccupare! I cristiani non sono mai di una parte, perché la loro unica parte è quella del povero, quella di Gesù, la stessa che contempliamo nell’eucarestia. Chi prende le parti del povero, poi, è capace di amare tutti. Se condividiamo il pane degli angeli come non condividere quello della terra? 

Qualcuno direbbe: ma sempre con questo ospedale da campo! Quando la Chiesa smetterà di occuparsi di quello che in fondo non la riguarda e tornerà ad essere Chiesa, ad occuparsi del sacro e dispensare la verità di Dio? Questa richiesta tradisce una sostanziale irritazione perché la Chiesa sembra troppo concreta, umana, vicina, poco spirituale, molto esigente. No.

La Chiesa è la stessa e la cura dell’eucarestia diventa cura del povero. Le mani sporche e le mani immacolate sono le stesse, quelle della mensa dell’altare e quelle dell’altro altare che è il servizio! E la Chiesa sarà sempre ospedale da campo perché il mondo è un enorme ospedale da campo, perché Gesù ci manda in mezzo ad esso a guarire i malati. Non possiamo diventare una clinica privata per pochi come non possiamo mettere il numero chiuso. 

La Chiesa risponde alle domande e non ha, come ogni madre, altra preoccupazione che quella dei suoi figli. Non può sopportare che soffrano. Quando si ama poco si pensa di fare già tanto, di non potere fare di più. Quando si ama ci si accorge di quanto si può fare e si cerca di fare quello che serve, chiamando tanti a farlo, imparando a farlo meglio, ad arrivare a tanti. Questa è stata l’arma segreta del progetto. Una Chiesa che vive per se stessa riduce Gesù a anestetico spirituale, a tranquillante per buone coscienze. 

Ci confrontiamo con dimensioni enormi. Un po’ come è successo con la pandemia. Siamo chiamati a misurarci con la storia e non con le nostre interpretazioni, con il mondo così com’è. Capiamo, però, anche che non si tratta di un’invasione!

E anche che possiamo con poco fare molto e il poco si moltiplica, com’è successo con la campagna che ha portato tanti frutti in fondo anche con pochi mezzi. Esattamente il contrario degli scarsi e rachitici fini per tanti mezzi del benessere. 

Dobbiamo rendere liberi perché non lo sono. E’ la nuova schiavitù che umilia milioni di persone vittime dell’arbitrio di interessi, prigionieri della fame, della guerra, della mancanza di prospettive. Trattasi di una prigione terribile, non di un limbo dove crediamo possano vivere senza che noi ci prendiamo responsabilità. Non è un limbo: è un inferno!

Certe distinzioni tra guerra e povertà, tra fame e ingiustizia sono inutili, in realtà, perché tutte prigionie terribili. Non abbiamo certo manifestato attenzione per chi scappa dalla guerra! Abbiamo forse offerto canali preferenziali? La formula “terza guerra mondiale a pezzi” è intelligente perché aiuta a capire è una pandemia, che siamo coinvolti tutti.

Rischiamo di non fare nulla né per garantire un viaggio senza pericoli né perché restino. La questione così agitata sui numeri è talmente preventiva che teniamo la porta chiusa pur avendo tanto spazio. Anzi, necessità di persone che lavorino, come ad esempio le badanti o i lavoratori nei campi. Si finisce per non fare nulla né nell’aiutare a partire, né nell’aiutare a restare nei due sensi: lì e qui.

A restare dove sono dando condizioni che permettono di non partire, l’educazione, la salute, il lavoro, insomma speranza. Liberi di restare perché ho possibilità di dimostrare quello che valgo, posso mettermi alla prova, studiare, lavorare, quindi non tenuti in un’attesa infinita senza senso, in riserve che diventano condanna all’inedia, spesso ad un ozio che fa diventare matti, frustrante proprio perché senza prospettiva sicura. 

Liberi di partire, cioè proteggere da una condanna che li regala a chi li sfrutta. Se non ci sono opportunità gli unici che le offrono sono proprio quelli che diciamo di volere combattere. E non a caso l’unico giornale che ha indicato nomi e cognomi di scafisti, che ha illuminato con l’informazione le oscurità terribili dei campi di concentramento in Libia o nelle immensità del deserto, è proprio il giornale Avvenire. Così si lotta contro i terribili interessi di chi specula sulla disperazione: dando speranza. 

Il problema è europeo e occorre spingere per cambiare delle regole ingiuste e ipocrite che scaricano su alcuni paesi la responsabilità di un problema che è di tutti. C’è bisogno di solidarietà, anche tra paesi, esattamente il contrario di chiusure in confini nazionalistici che in realtà non proteggono la patria e indeboliscono l’Europa, nostra patria comune.

Non dovremmo impegnarci di più in una pressione europea? Non dobbiamo organizzare un liberi di partire e liberi di restare europeo? Non siamo troppo rinunciatari? Non ci accontentiamo di avere ragione, di dire la cosa giusta, ma poi non cerchiamo troppo poco i modi di farla valere? Se dobbiamo evitare il pessimismo, il vittimismo e il fatalismo dobbiamo cercare campagne come questa, portarle avanti con fermezza anche in Europa, indicando risposte, certo, come tutte parziali, ma anche possibili.

Accogliere, proteggere promuovere, integrare: ecco l’alfabeto della campagna. La libertà di partire aiuta la libertà di restare o di ritornare nella propria patria. Non è svendere la nostra identità. Anzi. E’ proprio del nostro umanesimo cristiano, radice più vera, più italiana. Papa Francesco disse mercoledì 22 gennaio 2020 commentando gli Atti degli Apostoli: “Tante volte non li lasciano sbarcare nei porti. Ma, purtroppo, a volte incontrano anche l’ostilità ben peggiore degli uomini. Sono sfruttati da trafficanti criminali: oggi! Sono trattati come numeri e come una minaccia da alcuni governanti: oggi! A volte l’inospitalità li rigetta come un’onda verso la povertà o i pericoli da cui sono fuggiti”.

“Noi, come cristiani, dobbiamo lavorare insieme per mostrare ai migranti l’amore di Dio rivelato da Gesù Cristo. Possiamo e dobbiamo testimoniare che non ci sono soltanto l’ostilità e l’indifferenza, ma che ogni persona è preziosa per Dio e amata da Lui. Le divisioni che ancora esistono tra di noi ci impediscono di essere pienamente il segno dell’amore di Dio. Lavorare insieme per vivere l’ospitalità ecumenica, in particolare verso coloro la cui vita è più vulnerabile, ci renderà tutti noi cristiani – protestanti, ortodossi, cattolici, tutti i cristiani – esseri umani migliori, discepoli migliori e un popolo cristiano più unito. Ci avvicinerà ulteriormente all’unità, che è la volontà di Dio per noi”. Ecco il valore ecumenico e di vero aiuto a “fratelli tutti” di questa campagna.

Liberi di partire e liberi di restare significa anche essere “Liberi dalla paura”.  La paura è l’origine della schiavitù: gli israeliti preferirono diventare schiavi per paura. È anche l’origine di ogni dittatura, perché sulla paura del popolo cresce la violenza dei dittatori.

Non è facile. Siamo chiamati invece a superare la paura per aprirci all’incontro. Anche nel mondo cattolico c’è chi dice che quello dei migranti sia un “pallino” personale di Papa Francesco. Niente di più sbagliato. E’ un “pallino” infatti che si trova nel DNA della dottrina sociale della Chiesa e si inserisce in piena continuità con il magistero dei Papi. Nei primi anni del secolo scorso è stata la Chiesa italiana la prima ad impegnarsi organicamente nell’assistenza pastorale dei milioni e milioni di connazionali che emigrarono dalle nostre terre in quel periodo.

In un primo tempo i vescovi cercarono di arginare questo fenomeno, avvertendo i nostri migranti dei rischi a cui andavano incontro. Ma poi, visto che questa emorragia era inarrestabile – i nostri migranti fuggivano “dalla fame e dalla pellagra” notava san Giovanni XXIII nei suoi Diari -, la Chiesa decise di accompagnarli e assisterli con passione e dedizione lì dove si trasferivano. E’ bene ricordarlo, oggi. E’ con Pio XII che abbiamo il primo documento sistematico che sancisce il diritto di emigrare. La Costituzione apostolica Exsul Familia del 1952 a giusto titolo è considerata la magna carta del pensiero della Chiesa sulle migrazioni.

Lì troviamo in nuce tutte le questioni che sono poi state approfondite e aggiornate nei documenti successivi e in particolare nella Istruzione del 2004 “Erga migrantes caritas Christi” emanata su preciso mandato di san Giovanni Paolo II dal pontificio Consiglio per i migranti. Addirittura c’è chi accusa di privilegiare i migranti, trascurando i restanti che sono miliardi e spesso sono più bisognosi e più poveri di chi ha le risorse per partire e non vogliono lasciare la loro terra, i loro cari, i loro vecchi. E’ esattamente il contrario: chi accoglie la vita la accoglie per tutti.

Chi permette di restare significa offrire un futuro. Con intelligenza Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli Tutti” svela come spesso c’è una doppia tentazione: tenere lontano e non aiutare. (TF, 37). “Tanto da alcuni regimi politici populisti quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che occorre evitare ad ogni costo l’arrivo di persone migranti.

Al tempo stesso si argomenta che conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il fondo e decidano di adottare misure di austerità. Non ci si rende conto che, dietro queste affermazioni astratte difficili da sostenere, ci sono tante vite lacerate. Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali. Altri, con pieno diritto, sono «alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni perché si realizzi”. 

Quando non si accoglie si favorisce de facto una mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su se stessi. Il mondo intimidisce, fa pensare sia la norma necessaria trattare male chi se ne approfitta o non si rende conto. I migranti vengono considerati non abbastanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona. Pertanto, devono essere “protagonisti del proprio riscatto”.

Sempre papa Francesco aggiunge: “Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani. È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione, e la legge suprema dell’amore fraterno. 

La campagna ci aiuta a comprendere l’Enciclica Fratelli tutti. Sì, perché nasce proprio da questa consapevolezza che è anche una scelta. Sono tutti nostri fratelli! Scrive Papa Francesco (TF 41): “Comprendo che di fronte alle persone migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un aspetto dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero che una persona e un popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé l’apertura agli altri. Invito ad andare oltre queste reazioni primarie, perché «il problema è quando [esse] condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro”. (TF45)

“Ciò ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti. Non va ignorato che «operano nel mondo digitale giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico. Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio”.

Qual è l’ideale? 

Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse. Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, «non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana».

Come restare? Guardando avanti, adottando e quindi non solo dando futuro ma trovandolo anche per noi.  

(TF 131). “Per quanti sono arrivati già da tempo e sono inseriti nel tessuto sociale, è importante applicare il concetto di “cittadinanza”, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli”. 

Ecco perché questa campagna realizza il Fratelli tutti! Ha mostrato un’Italia bella, con le porte aperte, che sa guardare con speranza al futuro. Chi non accoglie non ha futuro, perché la vita resta fuori. La campagna ha realizzato tante speranze e ha permesso alleanze con tante realtà diverse, tra tanti soggetti. Tanti che restano e ci daranno un futuro. Altri che restano nei loro paesi e saranno ponti di futuro! Porte aperte! Perché se primi sono gli ultimi, in realtà avanziamo tutti! L’Italia delle “porte aperte” è la risposta alla tentazione delle porte chiuse: “La solidarietà come guarigione di un paese” “un modo di trovare chi siamo, a che serviamo, e un modo di riscoprire le proprie origini”. La sicurezza non è nella chiusura ma in un’intelligente e forte apertura, che guarda al futuro con consapevolezza, capace di regole per tutti. 

Sempre papa Francesco ci ha ricordato: “Se viene gente di altra cultura perdiamo l’identità europea… io mi domando quante invasioni ha avuto l’Europa dall’inizio a qui l’Europa è stata fatta di invasioni, migrazioni… ma… i normanni, voi sapete meglio di me è stata fatta artigianalmente così… le migrazioni non sono un pericolo, sono una sfida per crescere e lo dice uno che viene da un paese dove più dell’80% sono migranti.”

Liberi di partire perché li proteggiamo dai rischi e dai banditi. Liberi di restare perché come la compassione del Samaritano non finisce in un gesto pure importante, ma significa tornare perché la vera libertà ci sarà quando quell’uomo non può camminare di nuovo da solo. E resterà anche per noi, in un mondo che si fa piccolo e familiare, non più enorme e ostile, perché nel frattempo è diventato il nostro prossimo. Liberare è spezzare le catene e legarsi con quella fraternità che ci rende davvero uomini e rende più umana per tutti la nostra unica casa comune. 

15/10/2020
condividi su