Omelia per il 90° genetliaco di Giuseppe De Rita

Oggi non diremo tante parole (spero), ma cercheremo solo di ascoltare la Parola che le riassume tutte, che dona senso ed eternità alla nostra povera voce e alle nostre parole. Le ricorrenze ci aiutano nella difficile e mai compresa arte che è “contare i nostri giorni”, consigliata dal salmo perché arte che porta alla sapienza del cuore. Temo funzioni anche al contrario, cioè che viviamo dissennati se non lo facciamo! La sapienza del cuore significa essere consapevoli di quello che siamo, che siamo stati, del soffio che è sempre la nostra vita (una rapidissima sbirciata dalla finestra che si chiude comunque troppo presto) e che non smette di porsi quella domanda che sempre l’accompagna sul suo senso e sulla sua direzione. La vita, infatti, non è un cerchio che si chiude – sarebbe insulso e drammaticamente inutile – ma una linea, un punto che avanza verso il compimento, per raggiungere la sua pienezza. Il profeta ci aiuta, ricordandoci, senza nessuno sconto, che “ogni uomo è come l’erba”. La Parola, al contrario di quello che qualcuno ancora pensa, è l’opposto dei tanti narcotici o degli specchi deformanti cercati per garantire sicurezza e benessere ad ogni costo e che, in realtà, finiscono per angosciare ancora di più, perché quando si allontana il limite e non sappiamo più confrontarci con questo, lo stesso limite diventa ancora più presente, invadente e condizionante. In realtà scappiamo dalla fragilità e questa si ripresenta continuamente, spadroneggiando e obbligandoci a cercare una forza che non è la nostra, pericolosa, perché di una vita da “prestazione”. La gloria dell’uomo, per la quale investiamo così tante energie, finisce con noi ed è come un fiore del campo. Quella di Dio – che a ben vedere è molto più umana, tenera, possibile – è nostra proprio perché la doniamo al prossimo. Per questo resta. Secca l’erba, appassisce il fiore. Allora ci domandiamo anche noi: “Signore, da chi andremo?”. Da chi andiamo? “Tu solo hai parole di vita eterna!”. Ci mettiamo davanti alla sua grandezza, quella per cui tutte le nazioni sono come un nulla davanti a lui, eppure che è preoccupato di dare forza allo stanco e di moltiplicare il vigore allo spossato. Una sproporzione che si spiega solo con l’amore.

“Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. Direi che Giuseppe è un testimonial molto credibile! Oggi con il Signore presente nella Santa Eucarestia – punto di incontro solenne e familiare, tra terra e cielo, tra passato e futuro, tra spirituale e vita concreta – iniziamo a trovare la risposta. Giancarlo Zizola confidava: “Nei momenti ultimi che si avvicinano per me una sola parola mi dà un poco di pace, quella di Paul Claudel alla sua fine: Infine sto per sapere, Enfins, je vais savoir”. Questo “infine” inizia sempre quando siamo con il Signore, quando ci mettiamo in quella dimensione così umana e particolare che è quella spirituale, interiore, personale, ma non individualista, che non ci isola, anzi ci unisce ai nostri compagni di viaggio e fa capire al nostro piccolo la grandezza che noi stessi non sappiamo misurare. Ecco il senso della celebrazione di oggi, vera eucarestia per e con Giuseppe. Ringraziamo Dio per lui, per la sua vita, per il dono che è e che ha speso, perché ci ha trasmesso con intelligenza vita e tanta bellezza di questa. Direi che ci ha aiutato a comprendere, in modo concreto, libero, un po’ controcorrente, accettando di essere un po’ “matto”, qualche sfuriata del padre e comprensibile paura, scrutando sempre il presente e intuendo il futuro nascosto in esso, sapendo vedere nel particolare il generale e viceversa, sempre con tanta passione per l’uomo. Insomma, a leggere i segni dei tempi, grande categoria senza la quale si diventa profeti di sventura (ci sono vari aggiornamenti e varianti, ossessivi o più scanzonati della tipologia, opportunisti oppure isolati savonarola senza la mistica del fiorentino, spesso solo a libro paga di qualche convenienza). Perché “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Ecco perché ringraziamo per Giuseppe, che ci ha aiutato e ci aiuta a vivere questa dimensione fondamentale, e a farlo con intelligenza ma mai con supponenza, con realismo ma senza scetticismo e cinismo (e per un romano non è poco!), con passione, tanto da sorprendersi ancora di tanta irrazionalità. Ha cercato e incontrato un Dio vicino, compagno di strada e per questo appassionante, sorprendente, coinvolgente, profondo, possibile. Tanta vita. Perché limitarla ad una misura grama, mediocre? Se sappiamo capirla e viverla c’è sempre una grandezza della vita, molto diversa dagli indicatori con cui spesso pensiamo di attribuirle valore. È quella che Giuseppe ha vissuto, ascoltando e seguendo l’autore della vita, della bellezza, vicino e tanto più grande, severo e misericordioso, libero e molto esigente, insomma quel Padre che lo ha accompagnato e che credo Giuseppe ringrazia e noi con lui. Insieme a Giuseppe ringraziamo per i suoi cari, i tanti che lo hanno “fatto”, perché siamo fatti dagli altri e quanto è vero che nessuno si è fatto da sé, ma, per fortuna, tutti siamo fatti dai nostri incontri, quelli più decisivi come quelli provvidenziali da apparire casuali, quelli più duraturi come quelli brevi e intensissimi. Perché il regno dei cieli, del quale il già ci accompagna e ci insegna a vivere nell’oggi, e a sapere quello che scopriremo pienamente alla fine, è una gioia, la scoperta che proprio nel mio campo ho trovato quello che cercavo, per cui vendere tutti i beni. Non smettiamo di andare in cerca della perla preziosa e, trovatala, mettiamo tutto il cuore, quello che abbiamo. Ecco perché ringraziamo Dio insieme a Giuseppe: perché l’ha trovata nella sua vita, perché l’ha messa apposta lì sapendo che noi la cercavamo, perché il Signore gli ha donato tanto. Maria Luisa, terziaria francescana, indispensabile e intelligente metà, vera metà, che ha costruito una casa bella, anzi case belle con lei, “case – prendo le parole di uno per tutti i figli – di genitori, sorelle, fratelli, belli; circondato da amici, mobili, pensieri, idee e sentimenti belli”. Grazie. È bello, non è questione di estetica ma è quello che viene dall’amore e risplende di amore. Otto figli: Betta, poi Giorgio, Giulio, Andrea, Lorenzo, Cecilia, Daniele, Alessandro e la voglia di vivere sempre con Cristo nella dimensione dell’amore, della relazione, appunto dell’orizzontalità. Ringraziamo commossi per chi gli è stato vicino negli anni e quelli che sono usciti di scena e sono entrati ancora di più nel cuore di Dio, elenco lungo, e che immancabilmente si allunga. Rappresentano un vuoto difficile da colmare. Penso, tra i tanti, a don Clemente “prete di famiglia” (nei battesimi, negli anniversari di matrimonio, nei funerali); che con lui ho fatto presenza parallela in tante occasioni pubbliche (in convegni, seminari e comitati); che ricorda con quel grande riassunto della vita che è («ti voglio bene», «anch’io»). Umile coraggio di dialogare con tutti, anche ai confini della sua appartenenza sociale ed ecclesiale.

Qui di seguito la poesia di Maio Luzi, che il più grande raccoglitore di ritagli, Filippo Ceccarelli, mi ha fatto trovare, a sorpresa, all’interno di uno dei rapporti Censis sulla società italiana: “Penetrare il mondo/ opaco lungo vie chiare e cunicoli/ fitti di incontri effimeri e di perdite/ o d’amore in amore o in uno solo/ di padre in figlio fino a che sia limpido”. Grazie caro Giuseppe perché nella tanta confusione della storia siamo aiutati da te a vedere il mondo e le persone con gli occhi limpidi raccomandati dal Signore. Sono gli unici che vedono e che aiutano ad amare.

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