Omelia nel 42° anniversario della strage della Stazione Centrale

Ci sono delle ferite che appaiono proprio come descrive il profeta Geremia: incurabili. Il suo lamento è lo stesso che ha accompagnato la sofferenza della strage del 2 agosto, ferita resa amarissima dalla constatazione che “nessuno fa giustizia”, sentendosi dimenticati da quanti promettevano di amare e poi, come descrive sempre il profeta in maniera laconica, “non ti cercano più”, e rivelano nei fatti di non avere interesse a cercare giustizia, cioè non hanno interesse per chi soffre. Perché la ferita fa male, condiziona la vita, tutta.

La memoria di quel tragico 2 agosto 1980 ci ha accompagnato questi anni, tanti, quasi due generazioni, perché non è possibile arrendersi di fronte al male dell’ingiustizia. Questa memoria ci rende tutti parenti dei familiari, direi che ha aiutato a sentirci, come siamo o come dobbiamo imparare ad essere, familiari tra noi. Lo siamo diventati nella solidarietà, nella ricerca della giustizia e della consolazione, proprio perché in realtà siamo stati colpiti tutti. Chi la ferita la porta nel proprio corpo, privato dei legami più cari o lui stesso colpito, si sente spesso come un sopravvissuto. Qualcosa di sé è finito quel giorno. È la domanda del profeta.

Questa è la nostra consapevolezza, della quale non vogliamo perdere la vivezza del dolore provocato e del prezzo umano. Memoria è anche sentire e rivivere dolorosamente le urla, il silenzio, lo sgomento, la polvere, le sirene, le lacrime. Questo ci rende sensibili e attenti alle tante stragi, piccole e grandi, che sentiamo nostre, accadano in posti isolati e periferici o sotto gli occhi di tutti, nei conflitti dichiarati e nelle violenze anonime di villaggi sperduti, in Africa o nelle infinite stragi della stazione che bagnano con il sangue innocente la terra, profanando la vita e la terra stessa. Vorremmo analoga attenzione e partecipazione da parte della comunità internazionale che, come ci ha insegnato la pandemia, dovrebbe imparare a sentirsi l’unica famiglia umana, per la quale non c’è un male più accettabile e uno meno, che applica i diritti della giustizia per tutti, sempre, che li difende e non accetta che diventino, come scrive Papa Francesco nella Fratelli Tutti (FT 22), non più uguali, tanto che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica. Non permettiamo mai che i diritti diventino dichiarazioni importanti ma vuote! Quando si ama non ci si può abituare al dolore. Di nessuno.

Il tempo permette, come quando si vede un quadro troppo vicini alla tela e quindi attenti a quel particolare che ci interessa, di distaccarsi poco alla volta e comprenderne così l’ampiezza dell’intera raffigurazione, collocando il particolare in una dimensione più grande. Questo, certo, non risana la ferita che rimane: quanto dura il dolore! Anch’esso si trasforma se non trova risposte e diventa odio, vendetta, rassegnazione. La memoria, però, permette di rivivere pure la solidarietà e di rifiutare assieme quella violenza e con essa ogni altra violenza, vigliacca e sempre senza alcuna giustificazione. Dio ci aiuta. Ne abbiamo bisogno.

Dio non si abitua alla violenza, alle ferite che questa provoca e che, come per tutti, durano generazioni. La memoria con il Signore prova a vedere l’intera raffigurazione della vita e contiene un invito e un impegno: non abituarsi mai alla violenza e cercare sempre di contrastarla combattendo l’odio, l’ideologia che toglie valore alla persona, l’abitudine all’inimicizia, il pregiudizio, la violenza fisica. Ogni violenza è sempre tra fratelli. La scelta di Dio che sentiamo nostra è la compassione. Non si rassegna al destino, ma vuole cambiare la storia e lo può fare solo con noi! Dio ascolta la richiesta di quanti soffrono e gridano giorno e notte per avere giustizia e la vuole assicurare prontamente perché sa che il tempo perduto vuol dire altro dolore e smarrimento per chi è colpito. Ecco il nostro impegno.

Spesso si riaffaccia in noi la domanda del perché il Signore non interviene per curare definitivamente le tante, troppe, ferite incurabili provocate dal fratello che continua ad uccidere suo fratello. Purtroppo dovremmo chiederci, e lo facciamo con tanta preoccupazione davanti a una certa assuefazione a pensarci come spettatori, non dove è Dio ma dove è l’uomo, dov’è finita l’umanità. Dio continua sempre a interrogarci: dov’è tuo fratello? E quindi dove sei tu! Dio non smette di cercare Abele e ci ricorda che è nostro compito aiutarlo! E dobbiamo dire che ancora troppe volte rispondiamo proprio come Caino: non siamo noi il custode di Abele! E pericolosamente crediamo che sia il male la risposta al male. Ecco perché Dio non riesce ad intervenire! In realtà Dio fa molto di più: viene Lui stesso, diventa lui Abele, la vittima, perché nessuno sia più crocifisso, per ammonirci che chi colpisce il fratello colpisce Lui stesso, per aprire a noi crocifissi la via del cielo, per insegnarci cosa vince per davvero il male. Il fratello di Borsellino disse: nessuna bomba può uccidere l’amore! La via del cielo attraversa la croce, il buio della morte, Gesù non la evita ma la percorre come noi per aiutarci a non avere paura di seguirlo. Tutti i discepoli di Gesù speravano vincesse, non perdesse, che fosse Lui a ristabilire il Regno senza lo scandalo della croce, senza affrontare la fine! Dio si lascia umiliare perché capiamo quanto è grande il suo amore. La ferita si rimargina nell’amore che non finisce. Ecco la compassione di Dio che ricostruisce così le rovine. Il sogno di Dio è che ogni ferita diventi occasione di compassione e ogni rovina si trasformi nel suo contrario, in voci di gente in festa. Per questo Gesù è venuto, non ha rilasciato una dichiarazione ma ha preso carne, perché l’amore si deve vedere.

Gesù è venuto per liberare l’uomo dalla paura. La paura ci rende complici del male, ci indebolisce, divide, fa credere possibile salvarsi da soli, giustifica il non aiutare, il lasciare soli, fa scappare pur volendo bene. Ma se l’amore per l’altro è meno del “salva te stesso”, è la paura a vincere e questa porta a guardare dall’altra parte, rende indifferenti. Ma se l’amore per gli altri non supera mai l’amore per noi stessi vuol dire che non amiamo nessuno per davvero perché quando si ama si dona, si vince la paura. L’amore non ha misura, e se amo qualcuno non posso non fare nulla quando ha un problema, quando sta male! Potrei diventare complice con chi fa male a colui che amo? Ecco la scelta di Gesù. Ama di più della sua stessa paura di fronte alla morte. Suda sangue nell’orto degli ulivi ma ama fino alla fine perché ama la vita nostra, mia, perché non vuole che si perda, che finisca nella grande dispersione del non senso, del mare dell’anonimato, della solitudine. Lo crediamo, pur con la nostra poca fede che tanto ci fa dubitare, per le persone che non abbiamo dimenticato, per quelli che non vogliamo dimenticare, perché nessuno sia dimenticato, e così non aiutato, e tutti siano protetti.

Non è il Signore, allora, che è indifferente. È l’uomo che, incredibilmente, per paura non ama, sedotto dal male e accecato da questo tanto da scegliere il male, da preferire il corruttore, il grande ingannatore, colui che ispira e organizza la violenza. Non ci arrendiamo all’ingiustizia! Certo, come Pietro abbiamo paura, ci sembra che la speranza sia illusione e veniamo ripresi dal senso di non farcela, di qualcosa troppo grande. Il Signore ci aiuta a non accettare mai la violenza perché sappiamo che l’amore vince. È la nostra fede. Lo chiediamo per tutti noi che sentiamo questa ferita, lo crediamo per i nomi che portiamo nei cuori e che vivono nella pienezza dell’amore voluto da Cristo, lo chiediamo anche per i tanti i cui nomi sono sconosciuti agli uomini ma non a Dio. L’amore di Cristo consola la nostra ferita con la speranza della resurrezione. Ecco il nostro impegno e la nostra forza. La via del cielo inizia quando non abbiamo paura di donare seguendo Gesù, essendo discepoli suoi. Combattiamo ogni violenza. Nessuna bomba può uccidere l’amore.

Chiesa di San Benedetto
02/08/2022
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