18 maggio
Aula Magna dell’Università di Bologna
conferenza sul tema:

 

Magnifico signor Rettore,

illustri signori Docenti e Presidi di facoltà,

carissimi studenti, Signore

e Signori,

è per me motivo di grande gioia questo incontro per il quale ringrazio

profondamente in primo luogo lei, Signor Rettore, e tutte le autorità accademiche.

Motivo di gioia e di onore per me, umile successore di S. Petronio, poter prendere

la parola in questa illustre Alma Mater Studiorum che ebbe tra i suoi maestri

ed allievi illustri Dante, Petrarca, S. Carlo Borromeo e i Pontefici Alessandro

III ed Innocenzo IV, per citarne solo alcuni.

1. La mia riflessione prende avvio da una domanda che è sorta dentro

di me non appena il Magnifico Rettore mi comunicò il vostro invito:

a qual titolo io, apostolo di Cristo e pastore della Chiesa bolognese, mi rivolgo

a voi, accorsi oggi con partecipazione così intensa, nell’ambito

di una istituzione laica? Che cosa mi ha spinto ad accogliere l’invito

e ad entrare dentro a quest’aula per rivolgermi a voi?

L’essere partecipe con voi dello stesso stupore di fronte alla dignità dell’uomo;

il condividere con voi la stessa meraviglia che faceva esclamare al poeta greco: “L’esistere

del mondo è uno stupore infinito, ma nulla è più dell’uomo

stupendo”. [Sofocle, Antigone, primo stasimo; in Il teatro greco. Tutte

le tragedie, Sansoni ed. Firenze 1970, pag.183].

Questo  stupore che ha accompagnano l’uomo nel suo insonne interrogare

ed interrogarsi, raggiunge il suo vertice quando ascolta la Rivelazione cristiana:

l’avvenimento di Dio che si fa uomo per redimere l’uomo. Di fronte

a questo avvenimento, il credente esclama con Agostino: “Dio si è fatto

uomo: che cosa diventerà l’uomo, se per lui Dio si è fatto

uomo?” [Commento al Vangelo di Giovanni, Trattato 10,1; NBA XXIV, pag.

233]. Ed “in realtà, quel profondo stupore riguardo al valore

e alla dignità dell’uomo si chiama evangelo, cioè la buona

novella. Si chiama anche cristianesimo” [Giovanni Paolo II, lett. Enc.

Redemptor hominis 10,2; EE 8/29].

Lo stupore genera la preoccupazione perché lo splendore della dignità dell’uomo

non venga offuscato; genera la cura della dignità dell’uomo. Sono

venuto in questa aula perché  sono sicuro di condividere con voi

tutti questa cura del bene della persona umana.

Ma vengono alla mente le parole di Socrate (Platone): “Ebbene potremmo

mai sapere quale arte renda migliore se stessi, mentre ignoriamo chi siamo

noi stessi? … conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci

cura di noi, mentre, se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere” [Platone,

Alcibiade maggiore 128 E-129A]. Sono venuto in mezzo a voi perché condividiamo

questa passione per conoscere la verità sull’uomo: “l’uomo,

scopritore di tanti segreti della natura, deve essere incessantemente riscoperto” [K.

Woitila, Persona ed atto, in Metafisica della Persona (a cura di G. Reale – T.

Styczen), Bompiani ed., Milano 2003, pag. 855].

Penso che precisamente questa è la funzione, la missione dell’Università:

scoprire la verità sull’uomo perché l’uomo possa

prendersi cura di se stesso, della sua dignità. Abbiamo la stessa passione,

voi e noi, la passione per la verità dell’uomo, perché l’uomo

non sia mai più misurato nella sua grandezza da criteri limitati e superficiali.

Solo lo splendore della verità genera infatti lo splendore della libertà,

poiché – come scrisse Agostino – “questo è il

nostro riscatto, essere soggetti alla verità” [De libero arbitrio

2,13,37; NBA III/2, pag. 259].

2. Quali strumenti possiede l’uomo per percorrere la via della verità e

per giungere alla verità? La sua ragione. L’uomo che usa la ragione  percorre

la via della verità, perché mediante la ragione l’uomo

può vivere una totale apertura alla realtà, se la sua libertà non

frappone preclusioni preconcette o pregiudicate. “Intellectus fit quodammodo

omnia”, scrive Tommaso riprendendo Aristotele. Infatti tutto ciò che è, è da

considerarsi un compito affidato alla ragione umana. E se tutto è affidato

come compito alla ragione umana, l’uomo si trova ad essere indebitato

verso la realtà: deve al mondo la verità [cfr. Giovanni Paolo

II, Omelia 09-06-87, Univ. di Lublino]. è ancora il grande genio di

Tommaso che viene in aiuto al mio povero dire: «unumquodque ens in tantum

dicitur verum, in quantum conformatum est vel conformabile intellectui et ideo

omnes recte definientes verum, ponunt in eius definitione intellectum» [Qq.

Dd. de Veritate q.21,a.1]. La  realtà di questo mondo diventa vera

nell’uomo. L’uomo compie questa missione ed estingue il suo debito

mediante la sua ragione tesa a conoscere la verità sul mondo, sulla

realtà sia nelle sue svariate diversificazioni, sia nella sua interezza.

Ma in questo rapporto dell’uomo col mondo, l’uomo – ciascuno

di noi – non può non prendere coscienza di se stesso. Insieme

al diretto contatto conoscitivo col mondo coesistente con lui  e realmente

affidato a lui, avviene nell’uomo anche il diretto contatto conoscitivo

personale dell’uomo con se stesso. L’uomo conosce se stesso come

diverso da tutto il mondo e al di sopra di tutto il mondo: diverso perché al

di sopra. Come scrisse Pascal: «Con lo spazio, l’universo mi comprende

e mi inghiotte come un punto; con il pensiero, io lo comprendo» [Pensieri

265; Rusconi, Milano 1978, pag. 497]. Gli fa eco Giovanni Paolo II, quando

disse in una catechesi del mercoledì: «L’autocoscienza va

di pari passo con la coscienza del mondo, di tutte le creature visibili, di

tutti gli esseri viventi ai quali il primo uomo “ha dato il nome” per

affermare di fronte ad essi la propria diversità. Così dunque

la coscienza rivela l’uomo come colui che possiede la facoltà conoscitiva

rispetto al mondo visibile. Con questa conoscenza che lo fa uscire, in un certo

modo, al di fuori del proprio essere, in pari tempo l’uomo rivela sé a

se stesso in tutta la peculiarità del suo essere».

Le parole del grande genio pascaliano all’inizio della modernità e

le parole di Giovanni Paolo II alla fine della modernità pongono lo

stesso problema che sta nel cuore del dramma dei nostri giorni: il problema

di comporre in armonia gerarchica il rapporto dell’uomo con il mondo

e il rapporto dell’uomo con se stesso.

In questo contesto vedo il servizio che l’Università è chiamata

a compiere nei confronti dell’uomo, la modalità specifica con

cui è chiamata a prendersene cura. Io ritengo che l’Università se è chiamata

ad essere il luogo della ricerca in ogni ambito della realtà, essa è chiamata

oggi a porre in primo ordine la ricerca e la testimonianza della verità dell’uomo

e del suo incomparabile valore. L’Università è una comunità di

uomini e donne che si assumono come lavoro proprio e quotidiano di assolvere

il debito di verità che l’uomo deve estinguere nei confronti di

tutto il reale, ma in primo luogo che l’uomo deve estinguere nei confronti

di se steso. Infatti la dignità propria dell’uomo, che al contempo è dono

e compito, è collegata direttamente colla conoscenza della verità di

se stesso.

Il debito che l’uomo deve pagare alla realtà e a se stesso in

primo luogo, deve essere pagato fino in fondo. L’uomo sarebbe infedele

a se stesso se censurasse qualsiasi domanda sensata, se interrompesse la tensione

della ragione verso la realtà. Se non usasse la capacità della

ragione di porre la domanda ultima circa la realtà: la domanda circa

il senso radicale dell’esserci dell’uomo. è questa infatti

l’infinita potenza della ragione umana, quella di inoltrarsi nei sentieri

della realtà fino a porre la domanda sulla sua sorgente. Anzi il problema

essenziale del pensare è il problema della fondazione di una realtà che

nella sua finitezza rimanda oltre. Una finitezza che non è asettica,

ma che l’uomo prova soprattutto di fronte alle tante tragedie dell’esistenza,

ai mali e all’oppressione degli innocenti. Sono queste esperienze che

soprattutto suggeriscono la domanda sul fondamento e sulla ragionevolezza del

tutto. Tacitare questa domanda è la più grande violenza che l’uomo

possa fare a se stesso.

La domanda religiosa Р̬ di essa che sto parlando Рnasce

in fondo da una completa fedeltà alla ragione nell’impatto dell’uomo

colla realtà, senza preclusioni e senza volere rinnegare nulla.

Ho detto, citando Tommaso, che l’intelletto «fit quodammodo omnia»:

gli è stato consegnato tutto. Questa parola è vicina alla parola

che definisce la dimora in cui ci troviamo: universitas, a cui corrisponde

universum. L’istituzione universitaria prende in consegna il tutto nelle

sue diversificazioni e nella sua unità. Non può dunque escludere

da sé anche la ricerca della verità ultima.

Ma proprio di fronte al suo compito supremo, la ragione sente la propria debolezza

ed invoca il dono di una Verità nella quale finalmente tutta la realtà trova

il suo senso e la sua consistenza. Questa invocazione entra talmente nel dinamismo

della ragione fedele e se stessa, che fu Platone a formularla per primo: «Infatti,

trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di

queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da

se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti

umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una

zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno

che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio

su più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione divina» [Fedone

85C-D; trad. Reale].

A questo punto ciò che dicevo all’inizio quando parlavo della

condivisione della stessa passione per la verità dell’uomo e per

la cura della sua dignità, rivela il suo significato più profondo.

Noi, Università e Chiesa di Bologna, possiamo e dobbiamo  continuare

a incontrarci. Non tanto a causa di un legame che ha le sue radici nella storia,

ma perché l’una ha bisogno dell’altra, e quindi la reciproca

estraneità impoverisce l’una e l’altra nello svolgimento

del rispettivo compito.

La Chiesa, che si presenta all’uomo come testimone della Verità sull’uomo

rivelata da Dio stesso, ha bisogno di voi e di quanto andate faticosamente

conquistando colla vostra ricerca. La fede infatti della Chiesa è una “fides

quaerens intellectum”; è una fede che inerendo alla ragione, che

essendo formalmente un atto della ragione, esige dall’interno del suo

dinamismo di pensarsi e dirsi attraverso il logos umano. La Chiesa quindi sarebbe

gravemente infedele se si esimesse da questa fatica di pensare ciò che

crede, evitando il dialogo con voi tutti.

Ma anche l’Università ha bisogno della Chiesa. L’esclusione

della ricerca teologica è stato un grave danno per l’Università.

Non si tratta di pensare ad impossibili ritorni od ancor più impossibili “sequestri” di

competenza. è la necessità che, oggi più che mai, l’Università sente

di avere un punto unificante. Uno dei più grandi geni dell’umanità,

Agostino, parla di una specie di “rationale coniugium” tra la ragione

contemplativa e la ragione attiva, fra la sapienza e la scienza [cfr. De Trinitate

12,12,19; NBA IV, pag. 489], necessario per la vera beatitudine dell’uomo

e per la pacifica vita associata. Quando la sapienza e la scienza decidono

di divorziare, è l’uomo che si disintegra nella sua unità.

Il problema di unire sapienza e scienza si impone oggi come uno dei problemi

fondamentali che stanno alla base non solo della vita personale, ma anche della

società, della cultura, della civiltà, della politica.

La sapienza di cui parla Agostino è intesa come insonne ricerca di

quelle intelligenze profonde della realtà e di quelle motivazioni ultime

dell’agire umano, di cui l’uomo sente il bisogno soprattutto quando

avverte la sua umanità maggiormente esposta al degrado ed insidiata

nella sua dignità.

Le domande, metafisiche ed etiche, che le scienze oggi pongono non per ragioni

estrinseche alle loro ricerche ma dall’interno delle loro ricerche medesime,

mostrano l’urgente attualità della riflessione agostiniana.

La Chiesa bolognese ora possiede due luoghi o soggetti attraverso cui instaurare

questo dialogo profondo: l’Istituto Veritatis Splendor e la neonata Facoltà di

teologia.

4. Avviato ormai alla fine del mio dire, esso sarebbe gravemente lacunoso

se non offrisse anche qualche riflessione sul compito educativo dell’Università.

Non solo esso è l’aspetto più visibile dell’istituzione

universitaria, ma assieme e non meno che la ricerca ne è finalità essenziale.

Esiste un ethos, se così posso chiamarlo, del rapporto educativo all’interno

dell’Università. Esso è costituito dal disponibile servizio

del docente che non comunica solo il sapere, ma anche ciò che lo rende

umanamente bello e degno di essere ricercato ed amato. Esso è anche

costituito dal rigore che consentirà poi allo studente di esercitare

il suo lavoro in modo adeguato. Ma non è di questo che voglio parlare;

piuttosto vorrei tentare una riflessione più profonda sulla missione

educativa dell’Università.

Consentitemi di iniziare con una lunga citazione che narra l’incontro

di due persone, di un grande maestro con un giovane:

“Egli ci accolse fin dal primo giorno: il primo, effettivamente, e devo

dirlo, il più prezioso di tutti. Infatti, allora, per la prima volta

cominciò per me a risplendere il vero sole. Noi, da principio, alla

maniera di bestie selvatiche, pesci, uccelli, che caduti nei lacci, nelle reti,

tentano di sgusciarne fuori, fuggire via, desideravamo allontanarci … Egli,

pertanto, si adoperò con tutti i mezzi a legarci a sé … Soprattutto

egli con grande abilità trattava argomenti che valessero a scuoterci

nell’intimo, giacché mostravamo di trascurare quello che, come

egli afferma, è il più importante dei nostri beni, la ragione” (Gregorio

il Taumaturgo, Discorso a Origene, ed. Città Nuova, Roma 1983, pag.

64-65).

Di che si tratta? Un giovane di nome Gregorio al termine dei suoi studi superiori,

oggi si direbbe terminata l’Università, narra l’esperienza

vissuta negli anni della sua formazione accademica, parlando del rapporto vissuto

col suo maestro, Origene. Siamo negli anni 232/233 – 238 d.C.. E’ possibile

oggi che un giovane possa rivivere l’esperienza di Gregorio? Dire con

tutta verità che “effettivamente (il giorno) più prezioso

di tutti” è stato l’incontro con i propri maestri, cominciando

in quell’incontro “a risplendere il vero sole”? e che ciò accade

perché si vive come uno “scuotimento nell’intimo”,

poiché si “cessa di trascurare quello che … è il

più importante dei nostri beni, la ragione”? O forse non è neppure

più necessario vivere nella vita una tale esperienza? Io penso che tutti

i giovani qui presenti abbiano già dato la risposta nel loro cuore.

Ma che cosa rende capace un maestro di rigenerare un giovane? Ponendosi nell’unico “posto” adeguato

ad instaurare un vero rapporto educativo: la vita. Questo è sempre stato

il posto dei grandi maestri: «il posto loro era la vita dalla quale non

si sono tirati fuori neppure un istante, per incarnare le loro fatiche in un

lavoro a se stante, separato da chi lo svolge, irrigidito, legato e condotto

a un’esistenza a se stante, come si trattasse di un mero oggetto, il

quale, anche se fosse un capolavoro nel vero senso del termine, non porterebbe

con sé comunque il calore dell’evento da cui si è originato » [J.

Pato?ka, Socrate, Rusconi libri 1999, pag. 33]. Il calore dell’evento

da cui si è originato: quale è l’evento dal cui calore

si origina la passione e la fatica educativa? Il desiderio di comunicare un

sapere partecipando al quale il giovane diventa veramente libero e liberamente

vero.

Per insegnare all’uomo semplicemente a lavorare (a produrre),  chiunque

può sostituire chiunque: si trasmettono delle regole. Oggi si usa una

parola anche più rispettabile: si trasmettono dei valori. Ed in fondo è ciò che

oggi lo studente a volte si accontenta di chiedere all’Università:

apprendere cose che gli consentano di inserirsi in modo vantaggioso nella generale

organizzazione del lavoro. E la società da parte sua si aspetta di ricevere

dall’Università persone preparate a svolgere funzioni utili alla

riproduzione della società stessa. Ma il problema ultimo dell’uomo

non è questo!

La domanda ultima è di sapere se quanto è prospettato come possibile,

se quanto è insegnato, è vero: cioè che nesso ha colla

vita, se esista un modo di studiare e di lavorare per cui vale la pena studiare

e lavorare, anche oggi. Se esista un significato ultimo. Se l’uomo anche

oggi ha bisogno di sapere questo, non gli basta più un insegnante: ha

bisogno di un maestro. Quale è la diversità? La diversità consiste

in questo. L’insegnante trasmette un sapere; il maestro trasmette anche

un senso. L’insegnante trasmette regole; il maestro mostra una verità:

il primo chiede di imparare, il secondo sollecita a verificare.

Tutta la missione educativa dell’Università dipende allora dalla

capacità e volontà sia del docente che dello studente di mettere

in gioco sé stessi: è questo è assai più difficile

che fare il professore e lo studente universitario.

Magnifico Rettore,

illustri signori Docenti e Presidi di facoltà,

carissimi studenti, Signore

e Signori,

mi piace terminare con una parola di Giovanni Paolo II che esprime in sintesi

quanto poveramente ho cercato di dirvi: «Non si può pensare soltanto

con un frammento di verità, bisogna pensare con tutta la verità» [in

Tutte le opere letterarie, Bompiani ed., Milano 2001, pag. 713]. Questa è la

vostra incomparabile missione: educare l’uomo a pensare non soltanto

con un frammento di verità, ma con tutta la verità. Alma mater!

Sì, perché così genera uomini capaci di pensare e quindi

liberi, per il bene della nostra città.

18/05/2004
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