Conclusioni della Prima Assemblea sinodale della Chiesa italiana

Sento tanta gioia per questo incontro così insolito, che unisce tutte le nostre realtà, che vuole guardare il futuro con consapevolezza e profezia. Questa non significa affatto inventarsi qualcosa di originale, per evitare i problemi o risolverli senza difficoltà. La profezia entra nella storia, si misura con i suoi limiti e anche con la forza del male. Scruta i segni dei tempi, soffre facendo sua la sofferenza terribile che investe il mondo e quel mondo che è ogni persona, che vede buttata per strada da banditi che le rubano la vita con la complicità di quanti restano a distanza, che guardano e non fanno, e si voltano dall’altra parte. L’indifferenza rende tutto indistinto, pensiamo ci protegga perché non ci fa coinvolgere e quindi soffrire, invece ci condanna a essere senza il prossimo, quindi senza l’altro. Non ci si sporca le mani perché indifferenti, o indifferenti perché non ci si sporca le mani? Quello che è certo è che non si accorgono della vita così finiscono per essere soli, giustificati da tante motivazioni che credono religiose e che, in realtà, sono senza Dio. Profezia è scoprire il prossimo facendosi carico, cercare oggi quello che sarà domani, seminare con larghezza perché altri possano raccogliere, credere che tutto possa cambiare e che l’amore vince il male.

Questo anno ci ha accompagnato il racconto della Pentecoste. Sento oggi tanta “sobria ebbrezza”. Sobria. Dobbiamo essere consapevoli, ma non scettici. Sobri dal vino dei dichiarazionismi, che inebriano con le proprie idee ma che così ci fanno credere di aver capito e risolto i problemi. Sobri misurandoci con la realtà anche attraverso delle verifiche severe per non pensare di cominciare sempre come se fosse la prima volta, che è il modo che fa sempre crescere la rassegnazione. Sobri dalla supponenza di chi pensa di aver capito tutto o di chi finisce per dare importanza solo alle sue idee e non alla realtà, stupendosi poi perché queste non funzionano e perché la realtà non cambia. Sobrietà dall’enfasi che spesso usiamo per amplificare le emozioni, come se questa possa dare quel contenuto che se non c’è, non c’è.

Sobri dal protagonismo, che è una malattia molto facile da prendere, a tutte le età, per cui diventano importanti solo le cose che faccio io, o quello che penso io, smettendo di ascoltare, parlando sopra gli altri, non confrontandosi più, ma misurando tutto sull’accettazione o meno delle proprie convinzioni! Sobri vuol dire amare con tutta l’anima, con tutto noi stessi, gratuitamente e con umiltà, proprio perché il coinvolgimento personale non ha niente a che vedere con il protagonismo, il ruolo. Nella Chiesa il più grande è chi serve, e noi dobbiamo fare a gara nel dono di sé, nella radicalità del Vangelo e di un amore fino alla fine, quello dei martiri. Non è questione di potere ma solo di servizio, perché così è nella Chiesa.

Sobri dall’amarezza che spegne ogni entusiasmo, a volte con un’intelligenza purtroppo negativa, che finisce per cercare solo il male, a volte ossessivamente anche in maniera caricaturale. Qualcuno crede di essere realistico, di vedere bene mentre invece stravolge la realtà, la riduce alla pagliuzza, ed è solo rassegnato o vittima del male che pensa di combattere. E, poi, non dimentichiamo che lo Spirito cambia tutto, anche quello che noi non crediamo possibile. Sobri anche dallo spirito mondano, dal sentirci a posto, dal vino inebriante del successo, compreso quello dei media, della considerazione, dell’imporci, omologandoci così al mondo. Ci interessa solo il giudizio di Dio, perché questo farà il bene delle persone. Noi dobbiamo parlare con tutti, ma al cuore e con il cuore di Dio, liberi dall’idea di potere e di successo. La partecipazione non è che tutti debbano fare qualcosa nella logica del protagonismo. Facciamo tutti qualcosa in quella del servizio! Nel mondo io conto se mi faccio vedere e se mi vedono. Nella comunione è un altro il criterio. Tutto è servizio. E tutti serviamo!

Ma anche ebbrezza. L’angelo dell’Apocalisse ce lo aveva chiesto. Dov’è finito l’amore dell’inizio? Come siamo diventati? Né caldi né freddi, cioè non proviamo passione. O non vogliamo condividere la solitudine, l’incertezza della strada? Ebbrezza, entusiasmo per un’esperienza sempre creativa e nuova dell’amore del Signore. Non abbiamo capito tutto! Sappiamo che c’è la Provvidenza, che il Signore ci mostra tanti germogli, e che tante nostre realtà già si stupiscono di sentir parlare tutti nella loro lingua nativa! Già vediamo i frutti dello Spirito, ma questo avviene solo dopo che abbiamo gettato abbondantemente nella terra degli uomini il seme della parola, anche quando appare inutile. Non affanniamoci per quello che non vale ma pieni della forza del Signore liberiamoci dalle misure avare, mediocri, suggerite dalla tiepidezza. Ebbrezza è la passione che permette di costruire umilmente relazioni intorno al Signore, case, comunità umane, relazioni di amore. Tutto inizia con il filo d’oro dell’amicizia che è possibile a tutti.

Insieme. Coltiviamo il culto del noi in una generazione individualista, che non costruisce con pazienza, e che alla fine pensa sia una soluzione qualcuno che si imponga e risolva tutto. Costruiamo case dove si impara a pregare, a vivere la dimensione spirituale così importante e pure desiderata da molti, perché il materialismo pratico ottunde, confonde, dispera! Dialogare con tutti non è cedere al pensiero dominante o dare ragione a tutti, ma misurare la nostra fede, crescere nella comunicazione del Vangelo, spiegare le ragioni di sempre arrivando al cuore, toccando il cuore. Ad ognuno di noi è affidata la possibilità di creare relazioni nuove, di stringere amicizia con persone mai incontrate, perché, come dice il documento finale della seconda sessione del Sinodo, “la salvezza da ricevere e da annunciare passa attraverso le relazioni”.

L’Apostolo scrisse la lettera ai Romani prima di andare nella città dove, quando arrivò al termine del terribile viaggio descritto dagli Atti degli Apostoli, venne accolto proprio da loro, qui vicino. I fratelli gli andarono incontro al Foro di Appio e alle Tre Taverne e Paolo “rese grazie a Dio e prese coraggio” (At.28,15). Sentiamo per noi queste parole e andiamo anche noi incontro ai fratelli per prendere coraggio nel nostro cammino e affrontare le sfide pieni della passione per il Signore.

“E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre! Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla Sua Gloria. Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, infatti, che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.

Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo, infatti, come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio” (Rom 8,9-27).

Alla fine della lettera Paolo manda tanti saluti. Tanti nomi in versetti che spesso non leggiamo. Ecco, oggi sono i nostri nomi e sono quelli dei fratelli e delle sorelle che ci aspettano e che camminano con noi. Salutateli tutti con la sobria ebbrezza dell’amore che ci unisce e ci permetterà di camminare insieme.

“Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato, che mi è molto caro nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio carissimo Stachi. Salutate Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli della casa di Aristòbulo. Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che credono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa, che hanno faticato per il Signore. Salutate la carissima Pèrside, che ha tanto faticato per il Signore. Salutate Rufo, prescelto nel Signore, e sua madre, che è una madre anche per me. Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filòlogo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i santi che sono con loro. Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo” (Rom 16, 6-16).

Roma, Basilica di San Paolo fuori le Mura
19/11/2024
condividi su