Se è vero che più ci avviciniamo a Dio più ci avviciniamo gli uni agli altri, ecco che capiamo la gioia del nostro camminare insieme, che trova la sua pienezza nell’Eucarestia. Quanta sorpresa e quanta gioia conoscersi, scoprirsi, riflettere assieme, raccontare! E quando si racconta quello che viviamo lo capiamo meglio. Camminare insieme non è solo nelle e tra le nostre comunità ma insieme a tutta la Chiesa. Nel giorno del Signore, e attorno alla sua mensa, capiamo cosa significa “insieme”, essere una cosa sola tra noi, nonostante la nostra umanità, così parziale e contradditoria. Qui siamo come Dio vuole: non tutti la stessa cosa, ma tutti una cosa; non uguali, ma uniti. Con noi ci sono già quei “tutti”, la moltitudine, numero indefinito e mai chiuso, per i quali Gesù spezza il pane e versa il vino, che ci chiede di cercare, di amare.
Camminiamo insieme ai nostri compagni di strada. Troveremo i modi, alcuni formali, altri aperti e spontanei, per permettere ed esprimere il camminare insieme con i tanti mendicanti di vita che incontriamo nella nostra vita, tutti fragili anche se lo dimenticano. È una fragilità da amare e non da giudicare, non fuggire, nascondere, maledire. Da amare, perché diventi forza, ricordando come l’Apostolo sa, che è quando siamo deboli che siamo forti. L’individualismo ci rende in realtà fragili proprio perché ci persuade a cercare la forza nell’esibizione di sé, nell’autosufficienza, nel prendere, nel possedere. L’individualismo rende tutti i legami relativi, relativi a sé, invece di relativizzare l’io all’altro! Poi, in realtà, poiché non siamo un’isola, restiamo tutti mendicanti di amore, amore che sciupiamo perché piegato alla personale soddisfazione, alla verifica della propria capacità da prestazione. In questa domenica siamo tutti accolti e aiutati ad essere umili, a piegarci sui nostri fratelli più piccoli: non a fare qualcosa, ma a pensarci insieme, come chi ama. Essi sono il nostro prossimo, non degli utenti. Quanti fratelli più piccoli di Gesù, quanta fame e sete, quanti forestieri criminalizzati e che non sono accolti, quante cause di questa povertà, solitudine, spogliazione della dignità, prigioni senza luce, malattie senza cure e senza compagnia, sono frutto della povertà ingiusta, frutto di ingiustizia e di persone ingiuste! I poveri fanno parte di diritto della nostra famiglia, e se lo diventano anche noi sperimentiamo in anticipo la gioia del cielo. Li amiamo non perché sono buoni, e quindi non li scansiamo perché non lo sono o non sono come noi pensiamo debbano essere, ma perché fratelli e fratelli di Gesù, che ce li affida. Anzi. Siamo giudicati da cosa facciamo a loro, non dalle idee su di loro o dalle dichiarazioni.
Essi non sono una categoria, ma persone, da incontrare, toccare, vedere, sollevare. È una questione di amore che diventa risposte: case, reti di protezione, visite, anche economia rinnovata. Il tema di questo anno è: La preghiera del povero sale fino a Dio (cfr. Siracide 21,5). Ma noi la ascoltiamo? Facciamo nostro il grido di aiuto, a volte silenzioso, che è evidente però nella stessa condizione di sofferenza, come le malattie dell’anima e della mente, come le tante immagini che ci sono offerte, a volte senza pudore, e che sono un grido di aiuto. “Guardami, fa qualcosa, non lasciarmi solo”. I poveri sono maestri di preghiera proprio per l’insistenza, come quella povera vedova di cui abbiamo ascoltato ieri. Sono i piccoli che capiscono il segreto del Regno e sono loro che possono farcelo capire. Ascoltando la loro sofferenza Dio, al contrario degli uomini, è “impaziente” fino a quando non ha reso loro giustizia: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità.” (Sir 35,21-22).
Dio conosce le sofferenze dei suoi figli, perché è un Padre attento e premuroso verso tutti. E noi possiamo essere così distratti, indaffarati tanto da credere di non aver mai tempo e, poi, spesso sprecarlo in quello che non vale? Ringraziamo anche perché ci sono tanti benedetti (e la benedizione non ce la diciamo da soli, ma ce lo dirà il giudice e ce la dice la gratitudine del prossimo) che danno concretezza alla risposta di Dio, alla preghiera di quanti si rivolgono, a Lui e questo avviene ogni volta che un fratello nel bisogno viene accolto e abbracciato. Siamo benedetti se siamo una benedizione per i poveri. I poveri, in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e che spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, ci insegnano che l’essenziale per la vita è ben altro. La loro preghiera insegna a pregare e viceversa. Non sono assolutamente due dimensioni indipendenti. Anzi!
Preghiera e amicizia con i poveri si nutrono a vicenda. Madre Teresa di Calcutta, all’ONU disse, mostrando a tutti la corona del Rosario che teneva sempre in mano: «Pregate anche voi! Pregate, e vi accorgerete dei poveri che avete accanto. Forse nello stesso pianerottolo della vostra abitazione. Forse anche nelle vostre case c’è chi aspetta il vostro amore. Pregate, e gli occhi si apriranno e il cuore si riempirà di amore». Il nostro è un mondo sconvolto, dove ci abituiamo alla povertà che non scandalizza più. Di che tempo parla il Vangelo? Del nostro? Non è soltanto la fine, ma lo vediamo già oggi. Questa descrizione, per chi si chiude nelle sicurezze o resta sul divano, può apparire lontana, impossibile, un fastidio per noi pigri e incoscienti. In realtà ci aiuta a guardare la storia e i segni dei tempi. Siamo uomini di speranza proprio perché affrontiamo il male, il sole che si oscura, come quando si fa buio fuori e dentro il cuore.
E quello dentro dura tantissimo. Le stelle cadono e tutto si sconvolge, come nei bombardamenti ma anche nella mano alzata contro il fratello, nella violenza banale, sempre senza senso e che, smarrito il senso diventa padrona delle persone, nascondendo l’umanità, e che non fa capire le conseguenze dei gesti a colore che sono come storditi. Allora vediamo il Figlio dell’uomo. Ecco la fede. E se lo vediamo lo facciamo vedere, riflettendo un poco della sua luce. Noi possiamo essere uno degli angeli che fa sentire amati, protetti, difesi. Ognuno di noi può essere un astro che si accende e dona luce nell’oscurità terribile della vita. Siamo noi la Sua parola di amore che non passa, con legami fedeli, perché il samaritano assicura di tornare, non si compiace di quello che fatto lui ma fa quello che serve all’uomo mezzo morto.
Ecco, se camminiamo insieme ai poveri sapremo camminare tra noi, perché Gesù sarà in mezzo a noi e aiuteremo questa Madre, sempre lieta, che è di tutti, particolarmente dei poveri.