Fonte Cei
Carissimi e carissime, benvenuti!
Saluto i fratelli Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici e le laiche. Quanta gioia! È un’icona di Chiesa, di persone che si ritrovano, pregano, ascoltano, si ascoltano, parlano, conservano con gratitudine il passato, guardano con amore il presente e i suoi segni che ci fanno capire il tempo e la storia, scrutano il futuro che inizia nelle nostre scelte e nella nostra santità. Insieme! La Chiesa è Popolo, donne e uomini che, uniti dalla fede e dal Battesimo, camminano nella storia rendendo ragione della speranza che è in loro (cf. 1Pt 3,15). La Chiesa è famiglia e, se la viviamo come Gesù ci chiede, amandoci l’un l’altro, sapremo aiutare le nostre famiglie, le città degli uomini, il nostro Paese, il mondo, ad essere comunità! Fratelli tra di noi per vivere “fratelli tutti” con tutti. Sentiamo con noi le nostre Chiese e le nostre comunità, ma anche le città degli uomini, piccole e grandi, perché tutte importanti e amate da Dio. L’orizzonte non è solo il nostro Paese, ma anche l’Europa, che non dimentichiamo deve continuare, o forse riprendere, a respirare con i due polmoni, e il mondo intero. Oggi contempliamo, attraverso la nostra presenza, tutte le Chiese in Italia. È una bella icona.
Un pensiero grato ai rappresentanti delle Chiese cristiane in Italia, che sono qui con noi oggi, e ai tanti che sono compagni di cammino, ai rappresentanti dei mondi della politica, della cultura e dell’economia. In una società sempre più fratturata siamo chiamati a rammendare quel tessuto di relazioni e di umanità che costituisce il patrimonio vero del nostro Paese, le sue radici più profonde. Grazie per ciò che fate e per ciò che faremo insieme!
L’orientamento è uno solo ed è quello che la Basilica ci offre. Dobbiamo “orientarci”, guardare il futuro, vedere Gesù. La grandezza della Basilica ci ricorda che la Chiesa è una casa larga, accogliente, casa che prepara un posto per tutti, dove ognuno è accolto e amato, dove tutti impariamo a vivere secondo il comandamento del Signore. Casa, non realtà anonima o aziendale. Sentiamoci a casa e aiutiamo tutti a sentirsi a casa. Papa Paolo VI, riferendosi a questo mosaico davanti ai Vescovi del Concilio Vaticano II, riuniti all’inizio della seconda sessione, diceva: «Cristo presiede e benedice l’assemblea riunita nella Basilica, che è la Chiesa. Questa scena sembra riprodotta nella nostra assemblea» (29 settembre 1963). Il libro aperto di Cristo – come ha spiegato l’Abate Ogliari nel video introduttivo – mostra le parole del Giudizio, che sentiamo così vero oggi e che sarà quello della nostra vita, personale e di Chiesa, il giudizio sull’amore: «Venite, benedetti dal Padre mio, a ricevere il regno che vi è stato preparato dalla fondazione del mondo».
Ecco a chi volgiamo il nostro sguardo e apriamo il nostro cuore, che diventano questo “noi” così particolare, sacramento della sua presenza, comunione che ci unisce ben al di là delle nostre miserie e inadeguatezze. Cristo è il centro di tutto, l’inizio e la fine di ogni nostra parola. «Venite, benedetti» ci ricorda che la benedizione inizia nella carità verso i fratelli più piccoli attraverso quelle opere di misericordia possibili a tutti e dalle quali nessuno è esentato. La viviamo ogni domenica, e in particolare la prossima che è dedicata ai poveri e che ci spinge a condividere il pane della terra proprio perché condividiamo quello del cielo. È il nome santo e benedetto di Gesù, che diventa vita nella nostra vita, nome che non si esibisce, ma si custodisce e si mostra mettendo in pratica la sua Parola, costruendo comunità e vivendo da cristiani nel mondo. Ricorda Doroteo di Gaza: «Immaginate che il mondo sia un cerchio, che al centro sia Dio, e che i raggi siano le differenti maniere di vivere degli uomini. Quando coloro che, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, essi si avvicinano anche gli uni agli altri oltre che verso Dio. Più si avvicinano a Dio, più si avvicinano gli uni agli altri. E più si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio» (Istruzioni VI).
Ecco la gioia del nostro camminare insieme: guardando Lui e pieni di lui. «Cristo è il nostro principio, Cristo è la nostra guida e la nostra via, Cristo è la nostra speranza e la nostra meta», esclamava sempre Paolo VI all’inizio della seconda sessione del Concilio, invitando ad avere piena avvertenza di questo «vincolo unico e molteplice, fisso e stimolante, arcano e manifesto, stretto e soavissimo, con il quale noi siamo congiunti a Gesù Cristo, con il quale questa Chiesa santa e viva, che siamo noi, si unisce a Cristo, dal quale veniamo, per il quale viviamo ed al quale aneliamo. Questa nostra assemblea qui radunata non brilli d’altra luce se non di Cristo, che è la luce del mondo; i nostri animi non cerchino altra verità se non la parola del Signore, che è il nostro unico maestro; non preoccupiamoci d’altro se non di obbedire ai suoi precetti con una sottomissione fedele in tutto; non ci sostenga altra fiducia se non quella che corrobora la nostra flebile debolezza, perché si fonda sulle sue parole: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt28,20)» (Allocuzione all’inizio della Seconda Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963).
In questo bellissimo contesto non possiamo non pensare al Concilio Vaticano II – lo ha ricordato Papa Francesco nel suo messaggio – che questa Basilica ha visto nascere con l’annuncio dato da san Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959. «Il Concilio che inizia – spiegava nel celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia – sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente! Tutto qui spira santità, suscita esultanza» (Discorso per la Solenne apertura del Concilio, 11 ottobre 1962). È appena l’aurora! Tantum aurora est! Non aveva chiaro tutto, ma si affidava a Dio ed era pieno del suo Spirito. È anche quello che godiamo oggi e che libera dalle inevitabili amarezze, scioglie i dubbi, vince le resistenze e il veleno dello scetticismo, ci fa vivere la passione dell’inizio ricordando le attese delle nostre comunità e del prossimo che incontriamo e incontreremo.
Nel rievocare il Concilio viene spontaneo fare memoria dell’ormai prossimo 60° anniversario della pubblicazione della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (21 novembre 1964). È un’altra provvidenza con la nostra Assemblea che ci spinge a riannodare i fili di un cammino che anche per la nostra Chiesa in Italia è stato di progressiva accoglienza e di recezione della lezione conciliare. Cinquant’anni dopo Papa Benedetto ricordò come «in questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza» (Omelia per la Santa Messa per l’apertura dell’Anno della fede, 11 ottobre 2012).
È vero, abbiamo sperimentato e sperimentiamo come «nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania», come «la fragilità umana è presente anche nella Chiesa», «ma abbiamo anche avuto una nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà, della sua forza» (Benedetto XVI, Benedizione ai partecipanti alla fiaccolata promossa dall’Azione Cattolica Italiana, 11 ottobre 2012). La consapevolezza del peccato, come per gli abusi che ricorderemo domani nella nostra preghiera, ci rende più umili ma anche più forti nell’essenziale, nell’amore di Dio. Ci ricorda la necessità della conversione del cuore e di comunità docili alla Parola, dove vivere la radicalità del Vangelo e la bellezza dell’amore cristiano. Sentiamo tanto l’emozione e la responsabilità di questa missione, senza lamentarci del deserto, ma facendo nostra la sete di Dio e di speranza così diffusa. E anche noi abbiamo sete.
Il nostro cammino di questi anni (come non ringraziare i tanti che ci hanno preceduto, hanno pensato e sognato una Chiesa madre che risponde alle attese del paese) ha avuto un impulso straordinario con il Convegno di Firenze, quando Papa Francesco ricordò che il nostro umanesimo non è astratto, generico, ma è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). «Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni» (Discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015). È quella che chiedo per questo incontro e per l’ultima parte del nostro cammino.
«Umiltà, disinteresse, beatitudine» furono i tratti indicati dal Papa «per camminare insieme in un esempio di sinodalità», per non essere «una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi», perché «sarebbe triste» (Ibid., 10 novembre 2015). «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).
Le parole di Papa Francesco ci hanno accompagnato in questi anni, pur con tante fatiche e resistenze, ma anche con la consapevolezza che «il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà» (Discorso cit., 10 novembre 2015). Per essere costruttori dell’Italia, e metterci al lavoro per una Italia migliore, per essere semplicemente Chiesa. Come ha detto sempre Papa Francesco: non vogliamo ergerci a «custodi della verità» o a «solisti della novità» (Cf. Omelia, Memoria di San Giovanni XXIII, papa – Santa Messa, 60° anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 2022), ma riconoscerci figli umili e grati della santa Madre Chiesa. Guai a dividere la Chiesa o immiserirla! La amiamo nella sua povera ma concreta umanità, consapevoli che non si può avere Dio per Padre se non si ha la Chiesa per madre e anche della forza di comunione che lo Spirito continua a offrirci e che in questi anni di Cammino abbiamo visto farsi largo nelle paure e nelle abitudini delle nostre realtà, per farci vivere oggi l’appassionante e gioioso essere casa del Signore e comunità umana in un mondo segnato da tanta solitudine. Il Signore chiede ascolto, i fratelli chiedono ascolto: una Chiesa sinodale è una Chiesa permeabile alle voci della realtà. Anche quando queste sono dissonanti e disturbanti. Mai Gesù mortifica una voce che lo raggiunge. Semmai profitta di quanto ha ascoltato per far crescere il suo interlocutore nella fede (Mc 10,17-22). Ascoltare significa non restare passivi, non dare ragione a tutti, ma ascoltare tutti, farci toccare il cuore e trafiggerlo con le parole dell’amore che lo Spirito suggerisce, partendo dalla realtà per farla maturare in modo evangelico.
Il Signore ci chiama e ci manda, oggi, in questo mondo difficile e terribilmente sofferente, che incute paura e sembra cancellare il futuro. Siamo confrontati con ingiustizie insopportabili, ad iniziare dalla guerra, alle quali non vogliamo abituarci. Non possiamo accettare che sia la logica del più forte o del più furbo a prevalere. E dobbiamo domandarci sempre che cosa possiamo fare di più per la pace, dove è finita la pace creativa e se non preghiamo troppo poco per la pace in un mondo così sconvolto dalla guerra. La guerra, i cambiamenti degli scenari politici, le forze occulte e i poteri di interessi economici enormi, compreso quello legato alle armi, stanno rimescolando, in maniera non facilmente prevedibile, gli assetti del mondo, tanto che si ha la sensazione di essere una barca sbattuta dai venti in un mare in tempesta. I combattimenti appaiono lontani dai nostri Paesi ma il clima conflittuale non è lontano. Questo clima si riflette sulla società italiana: la spietata avanzata del numero dei femminicidi, la crescita della violenza tra i giovani, l’inasprirsi del linguaggio sempre più segnato dall’odio, i casi di antisemitismo, che non possiamo tollerare, sono come semi che da sempre il male getta nei cuori e nelle relazioni delle persone e contaminano i cuori e i linguaggi. Chi ha incarichi pubblici porta una responsabilità ancora maggiore perché non deve avere modalità e parole violente e pericolose, dentro una logica di polarizzazione, finendo per cercare solo ciò che divide, pensando così di difendere le proprie convinzioni e considerando addirittura pericoloso amare e difendere ciò che unisce, ovvero la collaborazione indispensabile per affrontare problemi così grandi. Un mondo di “Io” soli finisce facile preda di questi sentimenti. Le persone con poca fede finiscono prigionieri rassegnati della paura.
Non dobbiamo mai smettere di lavorare con pazienza e intelligenza per l’unità del nostro Paese, certo, nella laicità e nel pluralismo delle politiche e delle opinioni, ma sfuggendo alla banalizzazione della vita, al nichilismo, all’aggressione e alla contrapposizione come modalità del parlare e del decidere. Pochi mesi fa, alla Settimana Sociale di Trieste, abbiamo sperimentato quanto la Chiesa sia madre di tutti, perché solo guidata dal Vangelo. Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre e solamente al centro la persona senza aggettivi e limiti. Come Chiesa, di tempo in tempo, con la nostra esperienza umana dell’Italia, maturata tra la gente, esprimiamo “preoccupazioni” che non sono mai per dividere o per alimentare contrapposizioni, ma per fortificare quel bene comune che esiste e che va perseguito e difeso. Tanto più in un tempo di cambiamento, liberandoci dalla paura della vita (sic!) che paralizza e annebbia il cuore, per dare la vera sicurezza che è la comunità e l’appartenenza a questa, per fare crescere la voglia di aiutare e amare.
Il nostro Paese soffre tra l’altro di denatalità, che ha raggiunto livelli preoccupanti. Eppure, tutti sappiamo che non si combatte la denatalità senza una cultura della speranza nel futuro e senza preoccuparci di evitare l’emorragia di giovani dal nostro Paese e dalle aree interne. Il futuro dipende dalle politiche in favore della natalità, ma anche da politiche della casa, da politiche attive per il lavoro e per la famiglia, da autentiche politiche di integrazione dei migranti. Tutti questi aspetti insieme saranno in grado di generare un’alba nuova all’orizzonte. Papa Francesco ci ricorda che «si diventa sé stessi solo quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità» (Dilexit nos, 18). La centralità del cuore rimanda al valore della nostra umanità e alle implicanze spirituali e sociali di una fede che non si rassegna a rimanere chiusa in ambienti di sacrestia. Non vogliamo illudere nessuno circa facili soluzioni in tasca, ma ci sentiamo di camminare con gli uomini e le donne di buona volontà che hanno a cuore le sorti del Paese. Noi ci siamo! E questa Prima Assemblea lo testimonia. Nessuno può pensare di salvarsi da solo. Solo attraverso la tessitura di comunità e di reti comunitarie nei territori saremo segno di speranza. Diventiamo esperti del “noi”, cultori delle relazioni e della gentilezza. Tutti possiamo esserlo: ne sentiamo il desiderio e questo diventa responsabilità e dovere.
In questi anni migliaia di persone sono stati coinvolte. È questo il modo con cui affrontare i problemi, nella responsabilità di ciascuno e con una partecipazione e un dialogo che coinvolge tutti. Questo non è solo indicazione di metodo ma soprattutto contenuto, così raro di questi tempi di indurito individualismo e di scarsa partecipazione. Desidero ringraziare di cuore Mons. Erio Castellucci, don Valentino Bulgarelli, la “Commissione balneare” che in realtà ha attraversato tutte le stagioni, il Comitato con la sua presidenza, i referenti, insomma le migliaia di persone che hanno raccolto riflessioni, fatiche, sogni, richieste in una sintesi non facile. Proprio con la medesima vivacità e intensità con cui abbiamo vissuto nelle nostre Diocesi le prime due tappe del Cammino sinodale, in questa prima Assemblea e poi anche nella prossima siamo chiamati a dare carne alla profezia di una Chiesa desiderosa di avanzare nella storia con la forza umile del Vangelo e col fermo proposito di non abbandonare mai la compagnia degli uomini per rinchiudersi «in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49). Per dirla con Papa Francesco, «se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (Evangelii gaudium, 49).
Una Chiesa più partecipativa e missionaria: sono i due attributi che racchiudono tutta la sfida del lavoro di questi anni, rappresentando in un certo senso il banco di prova del cambio di passo che la sinodalità chiede alle nostre Chiese. Se vogliamo, risiede anche qui la profezia del Cammino che stiamo compiendo. In un tempo di crisi globale della partecipazione e di accentuato e diffuso individualismo, la profezia del Cammino sinodale mostra come verso il futuro si possa andare solo condividendo la responsabilità di un passo comune, libero da autoreferenzialità come pure dalla «paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)» (Evangelii gaudium, 49).
Vivremo tra poco il Giubileo dell’Anno 2025. È una congiuntura provvidenziale, di grazia: un incontro tra il messaggio e il cammino giubilare con le attese nostre e del nostro popolo, dono a un mondo che cerca luce perché avvolto dalle tenebre, una grazia alla nostra Italia assetata di speranza, ai cristiani italiani che ne hanno bisogno, ma anche a tutte le persone. Siamo grati a Papa Francesco che ha ricordato la consapevolezza che Spes non confundit:«La speranza non delude» (Rm 5,5). Dice il Papa: «Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza» (Spes non confundit, 1). Quante ombre lunghe del pessimismo, dello scetticismo, ma anche del nichilismo pratico che si stendono sulla vita! È la sfida: camminare con speranza con tanti italiani e italiane, con tanti credenti magari un po’ spenti o rassegnati. È quello di cui le nostre Chiese hanno bisogno; ne hanno bisogno le nostre società: è un’occasione storica per gustare quanto è buono il Signore che ci libera dalle ombre cupe che avvolgono nella tristezza il vivere personale e sociale, mentre disincentivano ogni impegno e investimento sul futuro, magari dal quale conviene difendersi.
Una nuova passione per il mondo percorre le vene delle nostre comunità. È un tempo favorevole per la Chiesa, per la comunicazione del Vangelo, per l’accoglienza dei soli e di chi non sa dove andare. Folle intere aspettano consolazione e speranza, anche se non faranno parte dei discepoli.
Tutti, tutti, tutti sono affidati alle nostre cure. Gesù scelse i discepoli per rispondere a questi “tutti”, perché la folla diventi famiglia. La comunità cristiana – per piccola che sia: quando mai del resto ci è stato imposto di essere maggioranza? – è chiamata a vivere la sua vita comunitaria nella forma evangelica e guarire tanti feriti dalla vita. Il mondo è un ospedale da campo materiale e spirituale e possiamo riconoscere la distanza da colmare tra la vita e le proposte delle nostre comunità e l’esistenza degli uomini e delle donne di oggi.
Per la grazia del Signore, per l’intercessione dei santi e dei martiri, per la nostra insistente preghiera, vediamo sorgere un’aurora di speranza in questa nostra Italia, che riscalda il cuore di tanti e illumini il volto della Chiesa di luce materna. È in realtà molto più semplice di quanto le ossessioni impaurite fanno credere. In questo tempo difficile non saremo le vittime di una decadenza, abitati da sentimenti tristi, ma testimoni e attori di una nuova epoca di speranza e di entusiasmo per il futuro comune. Come viandanti abbiamo una meta precisa: Gesù Cristo. È lui che ci attrae, che motiva e sostiene i nostri passi, che ci indica la direzione. Avvicinarci a lui, tutti insieme, significa diventare noi stessi sempre più cristiani in questo tempo, ricco di sfide e opportunità. Invochiamo lo Spirito Santo su questa nostra Assemblea perché possa sostenere e illuminare i nostri passi nel cammino verso Gesù Cristo. Buon lavoro a tutti! Tantum aurora est!