Il “nodo” in
cui si stringono le corde delle due fami, la fame di pane e la fame di Dio, è mostrato
nel Vangelo di Giovanni. Il Signore dice alle persone che aveva appena sfamato: «In
verità , in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete
visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna» [6,26-27a].
è da
notare subito che Gesù non condanna né disprezza il procurarsi
il cibo che perisce. Egli infatti moltiplica il pane, mosso a compassione di
moltitudini di poveri affamati. Ciò che rimprovera è il limitarsi al
cibo che perisce; è il restringere la ricerca al pane che sazia.
Esiste infatti un altro pane: altro in ordine alla vita che nutre e
sostenta, la vita eterna. Quando l’uomo rinuncia alla ricerca di questo
secondo pane, limita sostanzialmente l’orizzonte intenzionale del suo
spirito. Non comprende più che tutto l’universo della fame e del
pane rimanda – è un segno – ad un universo più profondo
indicato dalle parole “pane disceso dal cielo” e “vita eterna”.
Dunque esiste
un intreccio, un “nodo” dicevo in cui si intrecciano ricerca del
cibo che perisce e ricerca del cibo che dura per la vita eterna. Di che natura è questo
intreccio? riflettere sopra di esso come ci aiuta ad affrontare i problemi
di oggi? questa “città della carità ” di cui celebriamo
oggi il cinquantesimo non ha precisamente il carisma di rispondere alla fame
di pane e alla fame di Dio? La mia riflessione seguente cercherà di
rispondere a queste domande.
1 [Custodire il nodo].
Lungo la storia dell’Occidente non sono mai mancati tentativi di “sciogliere” questo
nodo col sistema di cui parla un famoso mito: tagliando … una corda.
Immaginando – poiché è un’astrazione – un “uomo
monocorde”, si fanno due proposte, si disegnano due progetti.
La prima è presentata
in maniera insuperabile dalla famosa leggenda del Grande Inquisitore.
Il contenuto è noto; basta richiamarlo brevemente. Cristo ricompare
a Siviglia in piena controriforma. Il Grande Inquisitore lo va ad incontrare
e gli rivolge un lungo discorso. In esso sostanzialmente rimprovera Cristo
di aver dato all’uomo la libertà ; di avergli dato la consapevolezza
di essere una persona. Ma alla fine – pensa il grande Inquisitore – l’uomo
fa volentieri senza della sua libertà : troppo rischiosa! Ed egli è disposto
a cederla a chi gli assicura il pane. Cosa che il Grande Inquisitore
ha fatto, e gli uomini hanno seguito lui e non Cristo. L’uomo, in fondo,
preferisce essere servo ma sazio, piuttosto che libero ma affamato.
La pagina
di Dostoevskij è un invito a profonde riflessioni.
Mai come
oggi la “questione antropologica” è divenuta la questione
fondamentale: c’è nell’uomo qualcosa di irriducibile alle
sue componenti biologiche? L’uomo appartiene totalmente all’ordine
della natura? è solo l’individuo di una specie animale? Se riduciamo
la fame dell’uomo alla fame di pane, rispondiamo affermativamente alle
suddette domande. Ed una tale risposta costruisce una cultura, dà origine
ad un universo simbolico tagliato a misura di un “uomo ridotto”;
un universo che è immagine di un’antropologia inadeguata.
Il primo “pezzo” di
questo ethos, di questo edificio ad un solo piano è la riduzione del
lavoro umano a mera attività produttiva, obliando la dimensione soggettiva del
lavoro, il suo essere attività della persona in relazione ad altre persone.
La relazione
sociale poi si configura inevitabilmente come contrattazione di opposti interessi.
Ridurre la fame dell’uomo a fame di pane porta a concepire e vivere i
rapporti fra le persone in termini di mercato e di denaro, col rischio di
dare rilevanza solo ai diritti alla cui soddisfazione il mercato è in
grado di rispondere in termini monetari.
Ma l’Occidente
ha conosciuto anche un altro modo di sciogliere il nodo di cui stiamo parlando,
riducendo la fame dell’uomo alla fame di Dio. è l’evasione
spiritualistica che non ha mai finito di tentare l’uomo occidentale.
Essa nasce dal disprezzo di questa vita terrena, nutrita dal pane. Nega
che la dimensione carnale, corporea sia costitutiva dell’uomo. è indubbio
che anche la vita del popolo cristiano non è sempre stata immune da
questa insidia.
Uno dei
più grandi pensatori cristiani di ogni tempo, V. Solov’ëv,
ha riflettuto lungamente e profondamente su questo incrocio ed intreccio della
fame di Dio colla fame del pane [mi riferisco per es. a Fondamenti spirituali
della vita, ed. LIPA, Roma 1998, pag. 96 ss].
Non raramente – egli
dice – la predicazione ecclesiastica circa la felicità eterna
dell’uomo la presentava come un’esistenza che non aveva alcuna
somiglianza colla vita presente. En passant – aggiungo io – la
situazione non è molto migliorata oggi: oggi non se ne parla più!
“Come
mai, si è domandato spesso il pensatore russo, queste considerazioni
religiose non godono troppa simpatia fra gli uomini? La risposta è facile:
la vita presente, anche se misera, è la mia. La legge della natura e
la legge divina mi obbligano a svilupparla e a conservarla, come si può allora
rigettare questo dono di Dio per un’altra vita futura, proposta con colori
illusori? [T. Spidlik-M. Rupnik, Teologia pastorale, A partire
dalla bellezza, ed. LIPA, Roma 2005, pag. 161]. è il nodo dell’intreccio
fame di Dio-fame di pane, piantato dentro alla coscienza dell’uomo moderno.
Come conservarlo?
La risposta ci viene dal mistero centrale della nostra fede: la risurrezione
di Cristo nella sua vera carne. è nella risurrezione di Cristo che l’intreccio
della fame di Dio colla fame di pane è stato indissolubilmente annodato.
La risurrezione
di Gesù non è il premio della vita eterna dato a Gesù perchè morto
innocente per la giustizia, e perché aveva vissuto facendo e agendo
bene. Se così fosse, il fatto ed il messaggio evangelico non avrebbe
nulla di incomparabile con tutte le religioni e le filosofie.
Ma Egli – questo è il
punto centrale! – è risorto nel suo corpo, in questa terra, così che
la sua vita terrena non è stata distrutta definitivamente dalla morte,
ma è entrata nel possesso della Gloria incorruttibile di Dio, senza
mutare la sua natura umana. è in questo fatto realmente accaduto che
l’intreccio della fame di Dio e della fame di pane è annodato
nel modo giusto: adeguato alla gloria di Dio e alla dignità dell’uomo.
In Cristo
la vita nel tempo e l’eternità non si escludono ma sono inseparabilmente
unite. Egli resta eternamente piagato nella sua Gloria, e glorioso nei segni
della sua crocifissione e morte. Con Cristo ed in Cristo questa vita è entrata
nell’eternità .
Questo fatto
realmente accaduto continua a permanere dentro alla vicenda umana mediante
la celebrazione dell’Eucarestia. Il sacramento eucaristico è il
punto centrale in cui la fame del pane si intreccia colla fame di Dio. Ad un
triplice livello corrispondenti ai tre strati del sacramento: il segno sensibile
[sacramentum tantum]; il Corpo ed il Sangue di Cristo [res et
sacramentum]; la carità [res tantum].
A livello
di segno sensibile. Pensiamo per un momento alle due preghiere con cui
presentiamo pane e vino all’altare: «benedetto sei tu, Dio dell’universo…». è un
pezzo di pane che viene offerto: e tale deve essere in tutta verità ,
pena l’invalidità della celebrazione. Esso è “frutto
della terra e del lavoro dell’uomo”: nasce dalla fame di pane che
l’uomo sente dentro di sé. Offerto a Dio, viene restituito all’uomo “cibo
di vita eterna”. è lo stesso pane che transubstanziato
diventa cibo di vita eterna, che sazia la fame di Dio. Le due fami che
costituiscono l’uomo si incrociano nel pane eucaristico.
A livello
della realtà significata. è la memoria della Pasqua del
Signore. Il ricordo liturgico non è un semplice ricordo psicologico: è sacramentale.
Per mezzo di esso l’avvenimento ricordato conserva e nello stesso tempo
supera il suo carattere di avvenimento passato: noi siamo presenti e soprattutto
partecipiamo ad esso, all’avvenimento nel quale – come ho detto – la
vita peritura dell’uomo viene introdotta nella vita eterna di Dio.
2. [Come custodire il nodo].
L’Eucarestia ha un terzo livello, quello finale: essa causa
in chi vi partecipa la carità . «Non sono più io
che vivo, ma Cristo vive in me» [Gal 2,20]. è in forza di questa
unione con Cristo che anche nella vita dei fedeli la fame di pane si intreccia
con la fame di Dio.
In che modo?
Come custodire questo intreccio? è ciò che ora cercherò di
mostrarvi, con due riflessioni parallele.
(A) La prima
riguarda “il paradosso” insito nell’esercizio della nostra
libertà . Questa si esercita normalmente nei confronti dei beni finiti; è la “fame
di pane” che cerchiamo di saziare mediante le nostre scelte che costituiscono
la trama della nostra vita quotidiana.
Ma le nostre
scelte hanno tutte una dimensione morale: sono cioè scelte moralmente
buone o cattive. è mediante le sue scelte che ciascuno di noi edifica
se stesso nel bene o nel male. Ma quale è la sorte di questo «io» che
abbiamo edificato nei nostri giorni terreni? è una sorte eterna sulla
quale decide Cristo e solo Lui [cfr. 2Cor 4,1-4]. Vale a dire: l’io costruisce
se stesso nel tempo in ordine all’eternità ; è in cammino
nel tempo verso la sua dimora eterna. Le pietre con cui edifica se stesso sono
di questo tempo, l’edificio è eterno. Dentro Cristo Risorto la
nostra persona trova la propria definitiva consistenza, poiché la fame
di Dio abita dentro alla ricerca della sazietà della fame di pane, se
e quando questa è cercata in ordine al regno di Dio. Questa è la
suprema grandezza di ogni scelta libera. è una grandezza che quando
sarà vista in tutto il suo splendore susciterà uno stupore immenso: «quando
ti abbiamo visto affamato … e ti abbiamo dato da mangiare?». Dando
il pane al povero, tu lo dai a Cristo: la fame del povero è la fame
di cui soffre Cristo. Nel povero è Cristo che ha fame.
(B) La seconda
riflessione prende avvio da questa ultima considerazione. Nella visione cristiana
la fame di Dio non ha solo un significato oggettivo: la fame che ha per oggetto
Dio stesso. Ha anche un significato soggettivo: la fame di cui soffre
Dio stesso.
Il Figlio
unigenito del Padre si è fatto uomo, ha condiviso la nostra natura e
condizione umana per il desiderio che Egli ha di ritrovare l’uomo
e riportarlo nella sua originaria dignità . La domanda di Gesù alla
Samaritana: “dammi da bere”, riguardava – come notano molti
padri della Chiesa – profondamente il desiderio che quella donna fosse
salvata e redenta dalla sua degradazione.
La fame
del povero è l’invocazione che Cristo ci rivolge perché sia
dato a lui ciò che come persona desidera maggiormente: essere
riconosciuto nella sua dignità suprema. La fame di pane di cui soffre
il povero è la fame che Cristo ha, è il desiderio da cui è occupato
il suo [di Cristo] cuore, che quella persona sia trattata conformemente alla
sua dignità . Saziando la fame di pane del povero tu sazi la fame che
Dio ha in Cristo del riconoscimento della sua immagine, impressa nell’uomo.
La forza
divino-umana che opera questo miracolo nel mondo è la carità cristiana:
e solo la carità cristiana. Cercherò di balbettare ora qualcosa
al riguardo.
Un grande
filosofo del secolo scorso ha scritto: «Nell’amore cristiano al
prossimo si dà sempre un elevarsi fino alla realtà ultima del
mondo di Dio mentre il voler bene naturale resta totalmente nell’ambito
di una sfera terrena impersonale, nell’amore cristiano al prossimo spira
il soffio di una libertà vittoriosa. Non appena incontriamo un atto
di vero amore cristiano, è come se il cielo si aprisse» [D.
von Hildebrandt, Essenza dell’amore, Bompiani ed. Milano 2004,
pag. 729]. è pura retorica? No, è la realtà .
Quando uno è amato
con amore cristiano, è visto alla luce del fatto che egli è amato
da Dio in Cristo con amore infinito; del fatto che per lui Cristo è morto.
Ci troviamo di fronte ad uno per il quale Dio si fatto uomo perché lui
divenisse dio: “oggetto” di una passione divina trasformante.
Vedendo
l’uomo in questa luce, non posso più sopportare che egli, che questa
persona sia degradata nella sua dignità , sia detronizzata dal suo
regale splendore. E la persona è degradata quando è privata dei
fondamentali beni umani, che vanno dal pane fino alla sua elevazione soprannaturale
alla figliazione divina. Nella fame di pane la carità vede la fame di
Dio che non vuole che quella persona sia degradata. Dice la Scrittura: «Ma
se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli
chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?» [1Gv
3,17]. Si noti bene: non dice “l’amore del prossimo”, ma “l’amore
di Dio”. Cioè: chiudere il cuore al fratello quando lo può aiutare,
significa espellere dal proprio cuore l’amore verso Dio e l’amore
che Dio ha verso l’uomo.
Da questa
considerazione derivano due conseguenze importanti. La prima è che la
carità cristiana non esclude nessuno; non esiste più la categoria
del rivale, del nemico, dell’estraneo. La seconda è che in chi
ama colla carità coincide l’odio al male e l’amore al peccatore;
la verità circa il bene con l’amore per chi ne è privo:
la carità perseguita l’errore perché ama l’errante.
Ecco come
la carità cristiana tiene annodata la fame di pane colla fame di Dio.
Conclusione
Amo vedere
questo luogo come la “città della carità ”; come il
luogo dove la fame di pane viene saziata perché sia saziata la fame
che Cristo ha della dignità dell’uomo.
Siamo ancora capaci di costruire
una città in cui queste due fami si intrecciano? Dalla risposta a questa
domanda dipende in larga misura il futuro della nostra città . Questo
luogo lo insegna da cinquant’anni.