Festa di San Benedetto a Camaldoli

Devo ringraziare personalmente per questa celebrazione che mi riporta in un luogo familiare. Sessanta anni fa venivo con la mia famiglia e contemplavo, bambino, il mistero della presenza di Dio nella magia dei canti, nel silenzio, nella bellezza. Tornai ragazzo, nei primissimi anni della Comunità di Sant’Egidio, con una famiglia di amici che intuivano nel monastero la stabilità del pensarsi insieme e come la comunità del cuore solo e dell’anima sola richiedesse una costruzione umana individuale e collettiva sapiente, così diversa dall’accattivante spontaneismo, ma vera garanzia della spontaneità.

L’accoglienza a San Gregorio al Celio sostenne con libertà evangelica e monastica gli inizi della Comunità, che trovò lo spazio per pregare, riunirsi, maturare al riparo da inevitabili critici severi. Non dimentico Padre Anselmo Giabbani, Padre Benedetto Calati, Padre Innocenzo e tanti altri, non ultimo il mite Padre Bonifacio, che ci ha lasciato da poco e che ricordo con affetto grato per quello che lui ha sempre avuto per me. La Comunità iniziava e la vostra famiglia, punto di incontro di tanti nella preparazione e negli anni del dopo Concilio, ritrovava nuova giovinezza ripartendo dai suoi inizi, da San Romualdo con la sua “contestazione strutturale permanente” del mondo, rimettendo al centro la Parola di Dio, l’accoglienza ai tanti pellegrini della vita, con intelligenza e sapienza umana, senza confini che non fossero il dialogo, la carità, il sacramento del fratello. Inoltrandoci nel terzo millennio, per voi che vi preparate – penso – a qualche anniversario millenario, la memoria di San Benedetto ci aiuta come non mai a confrontarci con le domande che la Chiesa oggi deve affrontare, con l’incertezza e la crisi del mondo che geme e soffre, creazione che deve sempre partorire il suo futuro, che sperimenta terribilmente la caducità come è avvenuto per le terribili pandemie. E come sta avvenendo per quella tragica guerra mondiale a pezzi che ci riguarda tutti e che getta un’ombra inquietante di vulnerabilità, rivelando tanta debolezza dell’umano e la terribile forza del disumano. Epoca di cambiamento come fu per Benedetto.

Il monastero è tutt’altro, come evocato da qualcuno, l’unica opzione possibile per proteggere il Vangelo, facendo così della chiesa e del monastero stesso quello che non è, un luogo fuori dalla storia, che deve solo garantire la nostra difesa, pensando ingenuamente che siano le mura a tenere lontano lo spirito del male, la secolarizzazione che tanti effetti di desertificazione spirituale produce. Se c’è deserto significa anche che c’è un bisogno enorme di acqua! La comunità monastica, famiglia di Dio, non guarda con distacco il mondo, magari giudicandolo. Certo, l’egocentrismo senza limiti confonde, rende tutto fluido,  schiavi mediante le sue tentazioni (in fondo sempre quelle), che fanno perdere l’anima, ma anche il sapore al sale o nascondere la luce sotto il moggio.

Il monastero vive la presenza dentro il mondo e indica come l’ego trova se stesso solo trovando l’altro. Ego vobis, vos mihi è la vostra sapienza. Il tralcio si secca, invece, proprio nella presunzione che per essere se stessi bisogna essere autonomi, isolarsi, mentre è aprendosi che ci si trova, legandosi alla vite, restando in quella circolazione di vita che è l’amore fraterno, indispensabile per dare frutto. E solo dando frutto, vivendo per donare, che la vita trova se stessa. Come rimanere in Lui e Lui, con le sue parole, in noi? È una dinamica di amore. Per questo la protezione dal male e dalle sue insidie è essere pieni del suo amore, costruire legami forti con Dio e tra le persone, aiutare a frequentare la cella del cuore, rendere i cenobi pieni di vita comune per relativizzarsi a Dio e ai fratelli, riunendo comunità nelle quali al centro ci sia il Signore. Non per scappare, ma per scendere tra le pieghe profonde del mondo e della storia! È una casa, quella voluta da San Benedetto, dove si costruisce la propria interiorità, da soli ma insieme. Dove siamo responsabili ma figli non orfani e soli. Autonomi ma legati, liberi perché obbedienti, fratelli in tanto individualismo. Dove si è insieme non per caratteristiche comuni, ma perché insieme si è generati a figli e il prossimo sono tutti.

Nel monastero cerchiamo la stabilità che è la vera garanzia di dinamica, tutt’altro che fissità e conservazione. Nel monastero l’accoglienza é la porta aperta dove i pellegrini sono accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo. Uscire nel monastero è accogliere. Nel monastero l’obbedienza all’abate si completa con quella tra i fratelli che si obbediscono tra loro, cercando non il personale vantaggio, ma piuttosto ciò che si giudica utile per gli altri, vivendo – cercando di vivere! – un amore scevro da ogni egoismo. Una comunità che penetra le profondità della storia, che trasforma le sue ansie in preghiera, che la sa capire con l’intelligenza del cuore più penetrante della sociologia, e di una conoscenza umana più profonda della psicologia perché inserita in una comunità e con una paternità. In un mondo come il nostro, agitato, compulsivo, che non sa rispettare il mistero della persona, attratto da modalità digitali e puritane, che corrompono con la superficiale rapidità e con un pigro non fermarsi, sentiamo oggi l’invito di San Benedetto ad “inclinare il cuore alla prudenza”. Solo così possiamo costruire noi stessi, il nostro personale eremo e la comunità umana sulla roccia dell’amore di Dio, della sua parola che strappa da una vita fluida dove tutto è possibile, che fa della propria soddisfazione l’idolo e finisce preda di dipendenze gestite da poteri occulti (in realtà molto palesi) e da intelligenze artificiali inquietanti.

San Benedetto ci insegna ad andare alla scuola dell’ascolto, del servizio divino, liberi dalla ricerca compulsiva del risultato, ma nella profondità del cuore, liberi dall’infinita navigazione di sé, di un’anima ridotta a digitale, a frammenti che si susseguono, a esperienze che non hanno un cardine e un legame. La nostra generazione si studia molto. Potremmo dire si contempla con quel narcisismo per cui cerchiamo i nostri tratti e siamo alla ricerca del nostro volto, che poi diventa considerazione, appagamento, ruolo, il successo dell’apparire, fosse solo in qualche campionato digitale dei tanti antagonismi digitali. Rassomigliamo ai monaci sarabaiti, “molli come piombo, perché non sono stati temprati come l’oro nel crogiolo dell’esperienza di una regola, per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono”. Quanti monaci girovaghi, che finiscono per passare da un paese all’altro, vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie! Ecco, invece, che nella profondità del nostro cuore troviamo la sorgente di Dio, quella santità che è donata a ciascuna persona creata a sua immagine, chiamandoci ad essere santi come Lui è santo. Ecco, da questa libertà nasce l’umanesimo del quale sentiamo tanto la necessità, non da salotto, ma da strada, perché molte strade passavano qui e da qui ripartivano. Per uscire, insomma, bisogna custodire una casa stabile, piena di vita. È vero: “Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare a quello degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri.

“Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo”. Aiutiamoci a rimanere noi in Lui e Lui in noi, come solo l’amore permette. E chi rimane in Lui trova la comunità, così indispensabile per tante monadi chiuse nella solitudine, che vive con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandosi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Continuate a istituire la scuola del servizio del Signore nella quale non vi sarà nulla di duro o di gravoso, perché tesa ad avere un cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore. “È ora di scuotersi dal sonno!” e di costruire stabilità per essere pellegrini con i tanti compagni di strada.

Camaldoli
11/07/2022
condividi su