Funerale di monsignor Giulio Matteuzzi

Accompagniamo con tanta gratitudine don Giulio nell’ultimo tratto della sua vita. La Liturgia di esequie è sempre un rendimento di grazie per il dono di amore che ci è stato offerto e per l’amore che apre la via del cielo. Oggi Santa Maria in Strada, la «parrocchia più bella che ci sia», è accolta nel cuore della nostra Chiesa di Bologna che tutta ringrazia Dio, insieme alle comunità del Brasile, per il dono della vita di questo nostro fratello e presbitero, che affidiamo alla comunione piena dei santi. La testimonianza di ognuno aiuta tutti a comprendere meglio il Vangelo, i suoi frutti, il mistero del seme che cade a terra e produce, genera il frutto che nascondeva in sé.

«Chiamati li inviò», abbiamo ascoltato. Giulio, uomo originale senza mai diventare un protagonista, punto di riferimento di molti e umile servo di comunione, si è sempre pensato inviato. Si è fatto viandante e ha rappresentato per la Chiesa di Bologna la passione per il mondo, l’anima missionaria non solo per il lungo periodo in Brasile, ma per la scelta di andare incontro a tutti, di non perdere nessuna occasione per accostarsi ai pellegrini, accoglierli, spezzare con ciascuno il pane della amicizia di Gesù.

L’accoglienza, ad iniziare dal volto e dal cuore, senza compiacimenti, diretta, guardando dritto negli occhi, è il primo e indispensabile modo per comunicare il Vangelo, per renderlo vicino, per seminarlo con la fiducia che darà comunque frutto proprio perché seme di Dio affidato alla nostra miseria. La vita di don Giulio mi aiuta a comprendere con più profondità l’anno del seminatore. Accompagnandolo in questa Liturgia contempliamo tutto il senso della vita che è seme e si trasforma nel frutto, che risorge in Cristo con il proprio corpo, che diviene una cosa sola come il grano che era sparso sui colli ed è raccolto nel suo corpo glorioso.

Scrisse alla cugina Giancarla mentre viaggiava in treno andando a Parigi che «mi piace e mi è congeniale avere per casa un treno!». Un viandante, per incontrare e comunicare la gioia e la bellezza del Vangelo. Scrisse: “Il treno corre lungo un canale con molta acqua, violento nel suo letto: è la libertà di essere dei figli di Dio. Le sponde sono l’essere figli di Dio e non limitano la libertà, anzi l’aiutano perché tu possa correre più velocemente”. È stato un uomo libero e obbediente, che non ha rinunciato al suo tratto personale, ma anche bene attento a non isolarsi con il compiacimento di sé o con sterili contrapposizioni. Il presepe lo ha preparato per tutti non solo raccogliendo, con tanto gusto per l’arte e la sua spirituale comunicazione dell’autore della bellezza, alcuni esempi dell’infinita capacità umana di rappresentare il mistero del Natale, ma soprattutto rendendoci, a volte quasi senza che ce ne accorgessimo tanto era naturale, noi stessi testimoni della presenza di Gesù, nella concretezza umanissima della storia di Dio che continua a nascere nel mondo e nella nostra vita personale.

Il cristiano, ogni cristiano, è una missione, la sua missione. È proprio degli uomini che si convertono e restano bambini vivere questa missione, la loro, senza perdere il gusto di scoprire, capire, avvicinare, fare esperienza, stabilire legami affettivi e pieni di empatia con il prossimo. Gesù percorreva tutte le città e i villaggi. È la sua spinta di amore che ci rende pellegrini. Don Giulio si definiva randagio, in realtà perché si sentiva a casa dappertutto e creava casa con tutti e sempre, dai bambini alle persone delle istituzioni.

Gesù non aspetta: cammina e ci chiede di camminare. Va incontro; accetta gli imprevisti della strada, non mette condizioni previe, regala a tutti la sua verità, cioè se stesso, anche sapendo che qualcuno lo avrebbe forse interpretato male, e chiama i suoi per nome. Vedendo le folle, ne sentì compassione. Questa è la differenza: la compassione. Una Chiesa madre, non matrigna, desiderava don Giulio. La matrigna non ha compassione, anzi la teme: giudica e spiega. Gesù non ha avuto paura della folla, non l’ha guardata con commiserazione, non ha pronunciato un paternalistico giudizio o scritto un’accademica analisi. Ne ha avuto compassione, che significa anche comprensione, tenerezza, scelta.

È la compassione che permette ai discepoli di vedere la folla con gli occhi di Gesù, cioè capire le persone che la compongono e il mondo che hanno dentro di sé. Solo con la compassione si vede, tanto da accorgersi della loro stanchezza. Un giudice cerca le responsabilità loro o del pastore, stigmatizza gli atteggiamenti sbagliati, se ossessivo sarà preoccupato e soddisfatto facendolo con precisione e rigore perché non vi siano ambiguità. Gesù non si interroga sul perché sono senza pastore.

Per Lui non ci sarà mai motivo sufficiente per non andarle a cercare e per non darsi pace finché non le ha, e non le abbiamo, trovate tutte. Per questo comincia proprio da quelle perdute, nei due sensi che esse sono lontane (non sappiamo dove, da qualche altra parte) e che pensiamo non si possa fare nulla per loro. Siamo suoi per essere per gli altri, per lavorare nella messe di questo mondo.

La stanchezza della folla ci chiede di stancarci noi per essa: non interessa se è una colpa perché è sempre una ragione di amore. Senza compassione il mondo ed il nostro cuore si induriscono e non ci accorgiamo delle ferite, del bisogno nascosto nel cuore di ognuno. Don Giulio è andato incontro a tutti, senza confini, senza paura perché pieno di fiducia nell’amore che è il vero potere di Dio e dell’uomo, affidandosi alla forza dello spirito e non alla lettera che diventa facilmente limite.

Ha coinvolto tanti e in tanti modi nella compassione per le sofferenze dei tanti meninos de rua del mondo, i piccoli fratelli di Gesù. E nostri! Il discepolo non studia se stesso e non cerca il suo benessere, ma serve il Vangelo e il mondo, Dio e il prossimo. “Chi non vive per servire, non serve per vivere”, ripeteva ben prima di Papa Francesco.

Ha amato, respirando anche l’aria della teologia e della sociologia religiosa francese, il Concilio Vaticano II, il suo Gaudium e la sua Spes, per i quali “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Gli fu facile spiegarlo a quei “giovani operai e studenti che abitavano con me e con don Alberto Gritti. Eravamo legati a Lercaro – mi scrisse – e a don Giulio Salmi”.

È stato missionario con intelligenza del cuore delle persone e di Dio, attraendo e non imponendo, senza paternalismo ma come vero padre che non voleva possedere, senza lasciare solo nessuno ma mettendo ciascuno di fronte a se stesso, sempre accompagnando con il suo sorriso e la sua fiducia. Vorrei proprio sottolineare la leggerezza del missionario.

Sappiamo come a volte senza accorgercene, qualche volta convinti di difendere noi stessi o il Signore, diventiamo pesanti, nei giudizi, nei modi, tanto che tutto diventa difficile, a volte impossibile. Don Giulio non metteva distanze, anzi le annullava, facendo sentire a casa. La leggerezza nasce dall’umiltà del cuore, dal sapersi pellegrino e dal volere raggiungere quei compagni di viaggio stanchi e sfiniti alla ricerca, in realtà, della strada verso la casa dove sono dirette tutte le nostre strade.

Giulio era molto prete, affatto formale, tanto da potersi divertire con il titolo di Monsignore, felice di diventarlo proprio perché libero. Non aveva mai amato i panni del “contestatore”, che finisce per avere sempre qualcosa da ridire su tutto (tranne su quello che pensa lui!) e che difficilmente si piega alla comunione umile e semplice. Il suo orizzonte cosmopolita, lo sguardo attento, poetico perché innamorato dell’umano riflesso di Dio, vigile sulla storia, riconosceva in tutti la bellezza della persona e con eleganza faceva sentire importante e accolto. Trasmetteva sempre piccoli messaggi per tenere vivi i contatti, compleanni, matrimoni, battesimi di tante persone. Il sacramento dell’amicizia. Davvero l’agape dell’eucarestia si completa con la festa.

“Quando la tua nave ancorata da molto tempo nel porto ti dà la falsa impressione di essere una casa, quando la tua nave comincia a crear radici nell’acqua ferma del molo, portati al largo. È necessario salvare, costi quel che costi, l’anima del viandante della tua nave e la tua anima di pellegrino”, ricordava riprendendo Hélder Camara. Non ha mai smesso di farlo. Sempre duc in altum, come i progetti, i sogni che lo hanno appassionato e che hanno riempito i cuori e le giornate di molti di noi.

Poche settimane fa volle regalarmi l’opera completa di Mazzolari e con una certa insistenza un suo libretto, “Ai preti”. Si raccomandò con dolce fermezza di leggerlo. Capisco perché. Scrive: “Che gusto ci proviamo nell’esagerare le responsabilità della nostra gente? Non siamo costituiti avvocati più che giudici dei nostri fratelli? Non si può pretendere che il popolo impari il nostro vocabolario. Per portare le anime bisogna ricordarsi della raccomandazione di sant’Ignazio: Entra negli altri con le loro idee, se vuoi uscirne con le tue.

Non giova al ministero la facilità con cui chiamiamo difetti quello che non entra nei quadri della nostra mentalità. Troppi schemi e così poca anima, troppe staccionate. Non basta essere dalla parte della verità se non si opera con lo spirito e il metodo della verità, col prendere parte a qualunque sofferenza dell’ora anche a quelle da noi previste come fatale risultato dell’abbandono degli insegnamenti del Vangelo e della Chiesa”. E davanti alla luce della sua vita che si spegne mi commuove leggere queste parole: “Le lampade s’accendono quando è buio ma è anche vero che si accendono quando lo sposo è vicino. Quest’ora, questa nostra ora è una grande vigilia: non importa se ogni attimo è un’agonia. Se viene lo sposo, la notte non ci spaventa più. Il gusto di fare il prete è questo felice consumarsi di una lampada nell’attesa di chi è già presente e che ci scava ineffabilmente il cuore per restituirci coloro che credevamo perduti. Tutto è luce, tutto è gaudio, come prima tutto era fatica e grazia”.

Grazie don Giulio. Sei stato una carezza di Dio. Hai seminato nei cuori il suo Vangelo di amore per tutti, che cambia la vita, il mondo e la storia. Hai testimoniato la luce del suo amore. Che i tuoi occhi chiari si aprano alla luce che non finisce. Amen

Bologna, Cattedrale
19/07/2021
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