Funerali di don Luciano Bavieri

La Parola di Dio illumina sempre i nostri passi. Ce ne accorgiamo di più quando dobbiamo affrontare l’oscurità che sempre accompagna e precede la morte. La Parola è ordinaria, feriale, confusa tra le nostre tante parole, sommersa in una navigazione che omologa un po’ tutto. Ci aiuta oggi a comprendere la sofferenza unendola a quella di tutto il tempo presente, alla lotta della vita stessa contro il suo nemico che la vuole spegnere e privare di senso, di significato, di futuro. Perché questo è il vero nemico della vita: sprecarla, sciuparla, nasconderla, lasciarla sola, vivere per se stessi, perdere il sapore, nasconderla sotto il moggio, accontentarsi del lievito dei farisei o di quello di Erode, avere orecchie e non ascoltare, occhi e non vedere, stare alla presenza e non cambiare, mettere il cuore nella ricchezza.

Quando accompagniamo qualcuno al limite ultimo della vita – sia nella faticosa compagnia della fine che si avvicina lentamente oppure quando si apre improvvisamente come è stato per Luciano – c’è sempre qualcosa di grande, di universale perché collega il poco che siamo (la morte ci fa misurare la vanità della vita) con il mistero della gloria futura, del gemito di tutta la creazione. Questo gemito lo comprendiamo nella vicenda di una persona concreta. È sempre “il buio su tutta la terra” e il terremoto che scuote il profondo che accompagna la fine della vita, quando questa è amata. E per il Signore la vicenda di ogni persona è grande, tanto che si identifica con i piccoli, senza valore tanto da non essere presi sul serio.

L’apostolo ci ricorda la caducità, quella che il benessere e l’uomo digitale fanno fatica a capire e misurare, eppure che segna drammaticamente la vita tanto da essere accettata fatalisticamente e definitivamente. La volontà di Dio è che la vita non finisca e noi possediamo già oggi le primizie dello Spirito, quelle per cui gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. È questa la speranza contro ogni speranza, contro la voce persuasiva del “salva te stesso”, negazione pratica della speranza perché ci lega all’opera delle nostre mani, del dover pensare che da soli ne usciamo, senza la provvidenza cui affidarci, un Padre cui rimettere il nostro Spirito e di cui sentire la presenza e la protezione.

È il gemito per un’adozione che vogliamo piena, che la nostra vita cerca perché di questo abbiamo bisogno. Gesù ce lo ricorda con l’analogia del seme, a noi che vorremmo vedere subito i frutti e aspettiamo quelli per credere. Il Regno di Dio è paragonabile a qualcosa di insignificante, che non si impone, del tutto poco convincente, senza prove e certezze. Il Signore non sarà il nostro re, ma sempre e solo quell’uomo che continuerà a guardarci con amore, a chiamarci perché camminiamo dietro a Lui. La forza del Regno è in quello che gettiamo nella terra perdendolo e che permette agli uccelli del cielo di fare il nido fra i suoi rami. Possiamo dare in elemosina, amare il prossimo anche quando non sappiamo chi è, e non possiamo calcolare convenienze.

Mi ha colpito che don Luciano vendesse anche alcune cose sue per mandare offerte per scavare qualche pozzo in Africa o per l’attività di qualche missionario. L’amore non è mai perso, anche se non conosci quale uccello del cielo ne godrà per potersi riparare. Il seme di tutta la vita di don Luciano è stato gettato a terra e ringraziamo Dio per il dono che è stato. Non era certo una persona dalla scorza tenera, don Luciano, metteva alla prova, con un tratto originale, per niente omologato, che sfidava appunto ad avere attenzione originale, forse come deve essere in realtà per quel prototipo che è ogni persona! Era sempre alla ricerca a tutti i costi della verità delle cose al di là delle apparenze e del sentito dire, irriverente e infastidito se percepiva ovvietà e imposizione.

Presente e generoso, come possono testimoniare tanti suoi parrocchiani, alcuni sacerdoti che nella sue parole hanno trovato tanto aiuto nel loro inizio. Rifuggiva l’appariscenza, verso la quale aveva caso mai un sentimento opposto. Aveva una curiosità innata per le cose, le persone, i luoghi, le situazioni, verso la grande rappresentazione della vita – lui che amava così tanto il teatro – la scena di questo mondo, la cui nozione riassuntiva “dovrebbe esprimersi in riconoscenza: tutto era dono, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare, mentre doveva apparire segno e invito.

Questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente; un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio, e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! Né meno degno d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità. È un panorama incantevole”. E Luciano non ha mai smesso di cercarlo e amarlo. Aveva un desiderio di sperimentare dal vero la bellezza delle cose create, o forse il costante richiamo verso un “altrove”, e quindi con il dolore quando questo era più difficile. Ad esempio il viaggio in Russia, quando ancora era l’impenetrabile Unione Sovietica, con la sua utilitaria.

Niente e nessuno lo fermava quando aveva qualcosa in testa. Il seme della sua vita ha generato tante amicizie, diversissime e a cui, a suo modo, era fedelissimo. A Londra, città che sentiva quasi come seconda casa anche per la perfetta padronanza dell’inglese, aveva conosciuto un vecchio sacerdote anglicano, Eric Gabe, con il quale ebbe una frequentazione costante. Aveva amici sparsi un po’ per tutto il mondo. In un viaggio in Olanda – fine anni ’80 – conobbe tre giovani scapestrati, lontani anni luce dalla fede, che nel tempo accompagnò ai sacramenti, alla formazione di una famiglia, alla crescita e all’educazione dei figli. Fu ricambiato, più ancora che da un sentimento di amicizia, da una vera devozione filiale fino all’ultimo. Il seme era l’amore per la gente, soprattutto con i “lontani” (denominazione cui era profondamente allergico) perché riusciva a stringere rapporti di reciproca stima.

Il seme è stato l’amore per la sua comunità, per la chiesa che a Pianoro fece restaurare, mettendoci (come non poteva essere?) molte delle sue idee, dando prova dello smisurato senso pratico che lo contraddistingueva. Senso pratico che lo guidò anche nell’impresa – da artista della vita – della costruzione dell’asilo parrocchiale, autentico fiore all’occhiello di Pianoro Vecchio e suo, che volle luogo piacevole da vivere e soprattutto a misura di bimbo, come amava ripetere.

Si commuoveva quando sentiva le loro reazioni: per loro era come andare a scuola in una casa fatata nel bosco. Certamente in maniera libera nella grande casa del cielo, quella delle tante dimore, oggi canta e suona con la libertà di sempre la grande liturgia del cielo, quella che tanto lo aveva attratto sulla terra, coro dove ognuno è accolto anche a modo suo e dove vede pienamente quell’irripetibile bellezza che ha cercato e trovato nell’ordinarietà delle cose. Caro Luciano, canta con pienezza la lode a Dio e prega per noi perché tanti, in modo originale e appassionato, donino la propria vita per il Vangelo.

Pianoro nuovo, chiesa parrocchiale
25/10/2021
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