Solennità di Ognissanti

Nella pandemia tutti ci siamo sentiti come naufraghi in un mare di difficoltà, incontrollabile, minaccioso, che trascinava la nostra vita tanto da temere che si perdesse nel niente, nel non senso, nell’anonimato di una persona che diventava solo un corpo, senza i riferimenti che lo definiscono.

Lo hanno provato, con una ferita profondissima, quanti non hanno più rivisto la persona amata tornare, non l’hanno potuta abbracciare, salutare, accompagnare. Quanto dolore, quanta amarezza, quanto sconforto, perché capiamo tragicamente che la vita non si ripete, non ritorna come prima e quello che è perduto resta tale, quello che manca non ci può essere restituito.

I nostri legami, pure così distorti dalla comunicazione digitale che fa credere possibile quello che non lo è, che ci rende protagonisti e dipendenti allo stesso tempo, che li rende un po’ virtuali e interscambiabili, si misurano con il senso, con cosa li rende eterni.

Dio vuole che gli uomini non siano isole, ma amati e capaci di amare. È l’amore il segreto dei santi, ricevuto e donato, certo parziale, mai perfetto, perché condizionato dalla nostra debolezza. I santi vivono in modo originale, personale l’amore che è perfetto proprio perché umano e per Dio, per il prossimo e per se stessi. Qualche volta credendo di dare importanza alla santità ne nascondiamo i tratti umani.

Dio ci vuole santi conoscendo la limitazione della nostra umanità concreta. E Gesù ci chiama con Lui perché ci ama non perché perfetti ma solo perché ci ama. I perfetti, anzi, si difendevano da Gesù, avevano paura della loro debolezza e giudicavano quella degli altri.

Essi combattevano il peccato ma negli altri e non in se stessi; pensavano di meritare con i loro sforzi e sacrifici un dono così grande. Ma nell’amore non c’è merito, c’è solo corrispondenza, fiducia, abbandono. I santi non si sforzano di meritare (quando ci riusciremmo? Non saremmo presuntuosi?).

La memoria di tutti i santi ci aiuta a comprendere cosa serve per vivere bene e cosa resta della vita delle persone. La santità ci rende uomini del presente e anticipa il futuro. Noi facciamo parte di questo popolo santo, che è una moltitudine immensa, che nessuno può contare, di “ogni nazione, tribù, popolo e lingua”.

Quando sentiamo l’amor di Dio per noi, capiamo il senso della nostra vita e l’importanza di essere suoi, gioia che nessun orgoglio può offrire perché l’amore ci rende davvero grandi ma ci libera dalla presunzione. L’individualismo rende gli altri nemici, ce li fa tenere a distanza, finendo per trattarli come concorrenti o fastidi. I santi ci ricordano la bellezza di essere suoi, di esserlo non in maniera passiva o protagonista (due tratti dello stesso peccato) ma di pensarci parte di un corpo nel quale, come diceva Sant’Agostino, “l’orecchio vede attraverso l’occhio, e l’occhio ode attraverso l’orecchio”. 

Viviamo in un momento così importante per tutta la casa comune della terra e per la Chiesa di Dio. Per questo vogliamo iniziare un cammino. Non restiamo troppo fermi e il mondo invece va avanti? Non dobbiamo correre dietro al mondo (quando si resta indietro finiamo per desiderare di essere come tutti, mentre Gesù ci chiede di essere persone piene di amore, come tutti, ma santi, suoi). Vogliamo ascoltarci e ascoltare.

E per questo è chiaro che dobbiamo anche parlare e mettere in condizioni gli altri di parlare. Non è affatto perdita di tempo, perché spesso finiamo per parlare da soli, per parlare sopra gli altri e diamo l’idea di sapere già tutto, spegnendo le domande che pure agitano le persone.

Ascoltare significa anche legarsi, fare proprio quello che ci viene affidato. È molto diverso se qualcuno si sente preso sul serio, capito: capirà meglio il Vangelo che risponde alle domande della sua vita in una maniera certo diversa da come è e da come siamo abituati. Ho l’impressione che ci ascoltiamo tanto poco tra noi, anche nel senso che discutiamo ma non ci ascoltiamo.

Per ascoltarci dobbiamo tutti ascoltare la Parola, ricordarci chi siamo ed essere pieni dello Spirito. Ascoltare per seguire Gesù, per amare il prossimo, non per perdere tempo, per scegliere. E inizia sempre da ciascuno di noi e dalla sua personale docilità al Vangelo. Il cammino sinodale non è affatto giochi di democrazia, ma condivisione, che è molto di più. Il problema è la conversione pastorale e missionaria, cioè essere santi oggi e per tutti. La Chiesa è comunione e la partecipazione nasce dall’amore.

Cambia se ascoltiamo per davvero le sofferenze, le domande profonde che sempre accompagnano la vita delle persone. Ecco, ascoltare è fare come Gesù con i due di Emmaus: avere interesse di quello “di cui stavano discorrendo”. Lo sapeva, ma se lo fa raccontare!

Lo ascolta da loro e sta loro vicino, cambia il suo programma, cammina assieme, e alla fine spezza il pane che apre gli occhi e mostra la presenza nella loro e nella nostra vita. Vogliamo affrontare le sfide grandi che abbiamo davanti, vedendo un mondo che è malato, una Chiesa che vuole essere vicina a tutti e annunciare l’amore di Cristo, aiutando il prossimo ad iniziare dai più poveri.

Vogliamo che le nostre comunità siano casa di santità, cioè di amore, di gioia, di beatitudine non solo promessa, ma vissuta. Santo è colui che riflette l’amore di Dio e le nostre comunità sono di santi. Fratelli tutti. Santi tutti, amati. I poveri in Spirito sono beati perché liberi dall’orgoglio, dal credersi qualcuno, dal mettere distanze, prezzi, ricompense come avviene sempre per chi è ricco di sé. Il povero di spirito non è però uno che si butta via, insignificante, ma uno che trova se stesso regalando quello che è e che ha.

In un mondo di ricchi di spirito e convinto di stare bene possedendo e prendendo, che finisce per essere aggressivo, pieno di calcoli e diffidenze tanto da non sapere vedere il bello che pure incontra e che ha, il cristiano è un povero che si accontenta per sé ed è invece inquieto per il prossimo.

Lui ha bisogno di poco perché ha tutto. È beato perché scopre il fiore del campo bellissimo che la provvidenza gli ha affidato e che ognuno di noi è. È un povero che rende ricchi tutti, che guarda tutto con bene-volentia, cioè cercando il bene dell’altro, non di distruggerlo per dimostrare le proprie capacità. Beato è chi piange, perché trova e troverà consolazione. Infatti felice non è chi scappa dalla sofferenza, pensa a ”salvare se stesso” e finisce per condannare gli altri, perché poi viene raggiunto dalla sofferenza e non ci si salva condannando gli altri ma aiutandoli.

Dio non ama la sofferenza, ma il sofferente. Dio non fa piangere, piange Lui stesso e consola con le sue le lacrime degli uomini. I santi piangono ma si salvano perché aiutano gli altri. Santo è un mite, cioè gentile, che ascolta e aiuta, paziente e con la mitezza disarma il virus della violenza e della divisione.

Il mite aiuta il prossimo ad avere una esistenza più sopportabile “avendo attenzione a non ferire con le parole o i gesti” e tenta di “alleviare il peso degli altri”. Semplicemente. “La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici”.

Santo è chi cerca come può la giustizia, che per noi non può essere quella retributiva degli scribi e dei farisei, ma è quella della condivisione, di fare agli altri quello che vogliamo sia fatto a noi. Non a caso saranno saziati, perché donare permette di avere tutto tutti. Santo è anche chi ha misericordia verso chi soffre, chiunque sia. È anche vero il contrario: che non troviamo misericordia se non la esercitiamo. E tutti possiamo esserlo, anche quando noi stessi abbiamo poco, perché quel poco vale tantissimo.

Santo, beato è chi non si lascia inquinare il cuore dalla diffidenza, da quella che pensiamo furbizia, dall’interesse personale, dal sospetto per cui non sai più gioire di quello che hai. Santo è chi non cerca la pagliuzza, ma si aggrappa al bene.

Santo è chi opera per la pace, cerca con coraggio di aggiustare questo mondo, liberandolo dai tanti semi di odio, basti pensare a quello razziale, ai giudizi sulla pelle e non sulla persona, per la sua origine o provenienza. Santo è chi non smette di volere bene se ci sono difficoltà, svendendo i suoi sentimenti per opportunismo. L’amore non finisce ed è sempre fertile, anche dopo di noi.

Ce lo ricordano i nostri santi, quelli che ci hanno amato e che sentiamo vicini. Con loro chiediamo di essere santi, che è poi il vero problema per tutti, per chi crede perché vuole corrispondere ad un amore che lo ha raggiunto e anche per chi non crede perché, come diceva Camus ne La peste, Spartisco con voi lo stesso orrore del male. Ma non spartisco la vostra speranza, pur continuando a lottare contro questo universo in cui dei bambini soffrono e muoiono […] Come essere santi senza Dio: è questo il solo problema concreto che io conosca”. Non ci è chiesto di essere forti, ma santi, pieni come possiamo del suo amore, luce che rivela la luce e anticipa quella che non finisce. 

Bologna, parrocchia di Sant'Antonio di Padova alla Dozza
01/11/2021
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